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326 scritti di renato serra

quasi poetici, che sono letterariamente una ingenuità, ma una ingenuità che giustifica la fortuna degli artifici.

Dopo aver parlato molto di lui, ci possiamo quasi dispensare di dir degli altri: che si trovano sullo stesso piano, con meno qualità e più difetti. Andare a cercare certe piccole differenze di maniera, di garbo e di abilità, sarebbe inutile: quel che conta in Ojetti e in Térésah, nella Prosperi e nella Guglielminetti, nella Drigo e in Pirandello, in Bontempelli, in Bracco e in Brocchi, in Pastonchi e in Cecconi e in Palmieri e in Palmarini, e nella Deledda e in Beltramelli, e in Sfinge e in Neera e in Iolanda, è il tipo; e di quello si è detto abbastanza. Ognuno di questi ha più o meno d’ingegno proprio — qualcuno forse ne ha assai sopra il comune — e scrive con decoro e con qualche facoltà non trascurabile o di sentimento o di ironia o di realismo o di letteratura; ma tutto questo si confonde un poco nella produzione e nel consumo di tutti i giorni: non c’è pagina che si stacchi dalle altre, nè scrittore che spicchi dalla pagina.

Se qualche cosa ha un rilievo più intenzionalmente artistico, non è sempre quella la più felice.

C’è, per esempio, un’intenzione di realismo più penetrante nel Pirandello, con una ricerca di particolari umili duri e silenziosamente veri, che dovrebbero far scoppiare i contrasti della pietà e dell’umorismo: ma quella ricerca e quella precisione è proprio ciò che pesa di più nelle sue pagine, che gli dà quella particolare ingratitudine delle fatiche accurate e un po’ sciupate: il suo bozzetto val più della novella: e la novella molto meglio del romanzo.

Accade, in apparenza, il contrario alla De-