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218 CAPO X.

già poetica in tutto la storia, che il toscano Mezenzio guerreggiasse con certi patti a pro dei Rutuli contro i Latini: pe’ quali il nome terribile del re di Cere fu mai sempre sdegnoso soggetto non che d’odio invecchiato, ma di singolare detestazione1. I Sabini stessi, i Volsci, gli Equi, ed altri confinanti, dovettero pure intromettersi assai ne’ fatti interiori del Lazio: non poche terre già ne’ primi secoli di Roma son perciò dette alternatamente ora de’ Sabini e degli Equi, ora de’ Latini: ma di questi tenebrosi ed incertissimi tempi basti soltanto accennare quel poco, che men dubbiamente può trarsi dalle memorie antiche.

In mezzo a questi popoli non pienamente dirozzati s’innalzò alla fine una città, donde usciron l’arme che signoreggiarono l’Italia tutta, e il mondo. Tosto che Roma fu grande le sue vere origini s’oscurarono a fronte delle maravigliose finzioni, che il decoro, come dice Livio, concede a nobilitare i principj delle grandi città. Ed a misura che la fama s’estendeva con la potenza veniano anche in luce le novelle, che sì variamente e poeticamente narravano, come Roma sortisse la prima fortuna. Da ciò la divolgata tradizione di una colonia troiana accolta amichevolmente dagli Aborigeni, e mescolatasi con quelli: l’altra leg-

    sono scritte con ortografia molto antica: m. decumus: l. aemulius; altre più moderne vi hanno desinenze greche: diruaos poetes: telemachos.

  1. Cato in i. Orig. ap. Macrob. iii, 5.; Varro ap. Plin. xiv. 3.; Ovid. Fast. iv. 879 sqq.