Pagina:Vocabolario italiano della lingua parlata, 1893.djvu/14

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pensata e determinata l’idea dell’opera, così avessi piena libertà circa al condurla ad effetto; la qual cosa come scagiona lui di tutto ciò che vi può essere di non buono, cosi obbliga me a risponderne solo in faccia al pubblico.

Volendo adunque che questo Vocabolario fosse e s’intitolasse della lingua parlata, nessuno creda che per noi vi siano in Italia due lingue, una per uso e consumo dei parlanti, e un’altra per quello degli scriventi. C’è, non v’ha dubbio, una parte di lingua che vive solo nelle scritture, e questa è quella lingua, o meglio linguaggio, che per dir tutto in una parola, chiameremo letterato, il quale spesso per necessità particolari al pensiero ed all’arte dello scrittore, più spesso per vanità ed error di giudizio si predilige nelle scritture, specialmente da coloro che credono eccellente quel modo di scrivere, il quale più si discosta dalla verità del comun parlare, che in ogni novità odorano la corruzione, che si ostinano a star fermi, mentre la lingua si muove e cammina. Ma anche concedendo ciò, nessuno potrebbe mai negare che la massima parte della lingua scritta non sia anche parlata; nè sarebbe molto difficile corredare di esempj presi da buone scritture quasi tutte le voci usate parlando. Noi adunque non siamo di coloro, che ripudiano la lingua degli scrittori, come fosse un’altra lingua, anzi non fosse neppure una lingua, e vogliono che di essa non si tenga verun conto. Questa opinione, come tutte le opinioni eccessive, esce dai confini del vero, nè si potrebbe senza molto pericolo seguitare dagli Italiani, i quali appunto negli scrittori, non solo a noi più vicini, ma anche più lontani, riconoscono con la loro lingua il pensiero, la vita e la storia propria, e confessano con gratitudine che l’Italia, per tanti anni divisa di governo, di leggi, di armi e di costumi, fu saldamente unita nel pensiero e nella lingua de’ suoi scrittori.

Dobbiamo per altro confessare che questa opinione eccessiva, sostenuta oggi da uomini valenti, è una specie di reazione contro un’altra opinione pure eccessiva e non meno pericolosa, seguita per molto tempo in Italia, cioè che la lingua è quella che gli scrittori, anzi pochi scrittori, la fanno; e che si debbono usare soltanto le voci e le maniere usate da essi. La scuola, la quale al tempo d’Orazio negava allo scrittore la facoltà di adoperare vocaboli diversi da quelli già adoperati da Catone e da Ennio, è la stessa scuola (tanto per nostra sventura è antica!) che presso di noi pretendeva che nessuno si discostasse dalla lingua del Boccaccio e del Bembo: onde alcuni che vollero ribellarsi a siffatta tirannia, furono costretti a domandar perdono al lettore, se scrivendo osavano invece accostarsi alla lingua del loro tempo, e usar vocaboli che non fossero in quei due scrittori.1

Pure bisogna ricordarci bene che questa lingua, che ci suona sulle labbra, e che noi Toscani riceviamo bell’e fatta, fuori di Toscana s’impara principalmente su’ libri, dominando il dialetto nell’uso quotidiano della vita. Di qui la necessità per molti di sapere quel che di veramente vivo è oggi nelle bocche dei Toscani, quali mutazioni ha sofferto la lingua, e quali insomma sono le sue condizioni presenti. Il che non possono sapere se non in due modi principali, o venire ad abitare in mezzo ai Toscani, o avere alla mano un buono e fedele vocabolario. Or questo secondo modo non è stato del tutto possibile fin qui; e di ciò grandemente si doleva e sdegnava quel sommo ingegno di Alessandro Manzoni, che si sentiva ogni tanto mancare tale aiuto, egli che della toscanità aveva pure un alto e quasi sempre sicuro sentimento. Al contrario molti, i quali si tengono alla lingua

  1. Fra i non pochi scrittori che si potrebbero citare, basti per tutti Michelangiolo Florio, fiorentino, cinquecentista. Egli nella Prefazione al suo volgarizzamento del libro dell’Agricola dice, scusandosi di non avere adoperato sempre i vocaboli del Boccaccio, del Bembo ec., « che i tempi non meno astringono altrui a mutare i modi del parlare, che i panni. Se dunque io non mi sono servito di moltissimi vocaboli usati dal Boccaccio, nè di quei suoi lunghi periodi, non sia chi se ne maravigli: perché questa mia traduzione non dee esser letta da l’età del Boccaccio, ma da la presente. I parlari da l’ora in qua si sono mutati come dal dì a la notte. »