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(1651-1652) pensieri 289

ranza all’aspetto di una beltà che gli usi qualche piacevolezza (meno impressione, e forse anche niuna, potrà provarne chi vi sia troppo avvezzo, e questo sarà principalmente il caso dell’uomo di mondo, la cui anima allora si porterà piú filosoficamente assai di quella del maggior filosofo, non già per forza di ragione, ma di natura che ha dato all’assuefazione la proprietà d’illanguidire e anche distruggere le sensazioni. Massime se il filosofo non vi sarà assuefatto. Tanto piú egli sarà soggetto a peccare o coll’opera o col pensiero contro i principii suoi). Egli è sempre piú o meno soggetto a ricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore, ch’egli ha conosciuto e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Non v’è uomo cosí profondamente persuaso della nullità delle  (1652) cose, della certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra all’allegrezza anche la piú viva (e tanto piú viva quanto piú vana), alle speranze le piú dolci, ai sogni ancora i piú frivoli, se la fortuna gli sorride un momento, o anche al solo aspetto di una festa, di una gioia della quale altri si degni di metterlo a parte. Anzi basta un vero nulla per far credere immediatamente al piú profondo e sperimentato filosofo che il mondo sia qualche cosa. Basta una parola, uno sguardo, un gesto di buona grazia o di complimento che una persona anche di poca importanza faccia all’uomo il piú immerso nella disperazione della felicità e nella considerazione di essa, per riconciliarlo colle speranze e cogli errori. Non parlo del vigore del corpo, non parlo del vino al cui potere cede e sparisce la piú radicata e invecchiata filosofia. Lascio ancora le passioni, che, se non altro, ne’ loro accessi si ridono del piú lungo e profondo abito filosofico. Un menomo bene inaspettato, un nuovo male ancora che sopraggiunga, ancorché piccolissimo, basta a persuadere il filosofo che la vita umana non è un niente. Vedi Corinne, t. II, liv.14, ch. 1.

     leopardi. - Pensieri, III.