Pensieri, Moralisti greci/III. Moralisti Greci - Volgarizzamenti/IV. Appendice ai Volgarizzamenti/2. Ragionamento d'Isocrate a Filippo

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2. Ragionamento d'Isocrate a Filippo

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RAGIONAMENTO D’ISOCRATE A FILIPPO

Non ti maravigliare, o Filippo, se io non darò alle mie parole quel cominciamento che si apparterrebbe alla orazione indirizzata al tuo nome che ora ti sará recitata e mostra, ma si prenderollo da una che io scrissi sopra il negozio d’Anfipoli. Io voglio toccare da prima alcune poche cose dintorno a quella mia scrittura per darti ad intendere, e cosí ancora agli altri, che io non ho preso a comporre questa infrascritta orazione per imbecillitá di mente, o forse per alcuno errore cagionato dalla mia presente infermitá, ma che per ragione e a bell’agio mi vi sono indotto. Perciocché al tempo della guerra che per la causa di Anfipoli avevamo tra noi tu e la cittá nostra, veggendo io da tal guerra nascere molti mali, mi posi a distendere per iscrittura, sopra la detta terra di Anfipoli e suo contado, non giá qualche parte di quello che si usava di dire a quei tempi per li tuoi cortigiani e per li nostri oratori, anzi per lo contrario certi miei concetti diversi di grandissima lunga dall’animo di coloro. Poiché, dove essi tuttavia piú v’infiammavano alla guerra, aiutando colle loro parole i vostri appetiti, io, lasciando da parte i meriti della controversia, pigliato quel soggetto che mi pareva il piú acconcio a mettervi in pace, e di quello trattando, diceva che eravate ambedue molto errati, e che la guerra si faceva dalla tua parte per cosa di nostro servigio, e dal lato della cittá in vantaggio della tua potenza. Perocché il tuo migliore essere di non avere [p. 212 modifica]in mano quella contrada, e il nostro di non la pigliare in niun modo. Delle quali cose pareva a quelli che le udirono recitare, che io ragionassi in guisa che niuno di loro attendeva a lodare, siccome è usanza di certi, la orazione medesima o le parole di quella, come accurate e pure, ma bene si maravigliavano della veritá delle sentenze, e stimavano per niuno altro modo potere essere che voi vi rimaneste da quella contesa, se non per quest’uno, e ciò è dire, se tu dall’una parte fossi fatto capace doverti meglio fruttare l’amicizia nostra, di quello valevano le entrate che si potessero cavare da Anfipoli; e se la cittá conoscesse dall’altra parte, che al tutto egli si vuole astenersi da fondare di cosí fatte colonie, che sono andate a perdizione coi loro uomini giá insino a quattro volte o cinque, e che egli bisogna cercare di cotali siti lontani da chi abbia potenza di comandare, e vicini a gente usata a servire, come è, per modo di esempio, il luogo dove i Lacedemoni posero la loro colonia di Cirene. Ancora similmente, se tu comprendessi che cedendo a noi quella contrada in nome, tu l’avresti pure in fatto alla tua signoria, e ne acquisteresti da vantaggio la nostra amicizia, della quale riceveresti altrettali statichi quanti fossero i coloni che di qua si mandassero nel tuo dominio; e dall’altro canto, se qui si trovasse alcuno che desse ad intendere al popolo come se noi prenderemo Anfipoli, egli ci converrá, per rispetto a quelli dei nostri che vi abiteranno, avere quello stesso riguardo agl’interessi tuoi, che giá in altri tempi avevamo a quello antico Médoco, per cagione dei nostri coltivatori stanziati nel Chersoneso. E queste essendo le cose che si esponevano ai cittadini per quella scrittura, sperava chiunque la udí, che divulgata che ella fosse, dovessero ambedue le parti mettere giú le armi, e ravvistesi, prendere qualche partito conducevole alla utilitá comune. Ora quanto si è a queste loro opinioni, o stolte o pur savie che elle si fossero, non altri che essi ragionevolmente hanne a portare o la lode o il biasimo. Ma intanto che io era in su quella scrittura, innanzi che ella fosse condotta a perfezione, voi fermaste la pace, operando in ciò saviamente, perocché [p. 213 modifica]meglio era comporre quella controversia in qualunque modo, che sostenere i mali di quella guerra.

Preso dunque molto contento della deliberazione del popolo intorno all’accordo, e stimando che ella dovesse tornare in beneficio, non pur nostro, ma tuo ed anco di tutti i greci, non potendo io sviare il pensiero delle cose dipendenti da tale accordo, subito mi volsi a speculare in che modo potessimo noi mantenere la pace fatta, e come dopo picciolo tempo la nostra cittá non entrasse in appetito di nuove guerre. E considerando a parte a parte, io trovava che in niuna guisa ella non poteva posare, se non quando le maggiori cittá della Grecia pigliassero partito di comporre tra loro ogni differenza e trasferire la guerra in Asia, e quivi dai barbari procacciare per forza quegli avvantaggi e quei comodi che elle procacciano ora dai greci: le quali cose trovomi aver consigliate nel Panegirico. Con questi pensieri, giudicando non si potere mai trovare materia piú bella, né che a tutti noi piú comunemente di questa si appartenesse, né di nostra utilitá maggiore, mi commossi a volerne scrivere un’altra volta, con tutto che io non fossi giá in niuna cosa malconoscente di mio stato e di mie facoltá, e mi avvedessi bene che egli si richiederebbe a tale ragionamento un uomo, non dell’etá mia, ma in sul fiore degli anni, e oltracciò di natura infra gli altri molto eccellente; e ancora mi avvisassi che a gran fatica può la persona scrivere in una stessa maniera due orazioni per modo che gli uomini le comportino; maggiormente, accadendo che quella divulgata prima sia scritta con tale artificio e stile che anco gl’invidiosi dello scrittore la imitino, e ne abbiano piú maraviglia che non hanno eziandio quelli che la lodano a cielo. Ma nientedimeno io, messe tutte queste difficoltá in non cale, sono in questa mia vecchia etá divenuto cosí baldanzoso, che io ho proposto di volere ragionando teco, in quel medesimo tempo accennare e far palese a quelli che meco hanno praticato per causa di studi, che lo andare noiando la moltitudine ragunata colla occasione delle feste o solennitá, e favellare in comune a tutti quelli che vi concorrono, è un [p. 214 modifica]favellare a niuno; e non altrimenti queste cotali dicerie sono vane ed inefficaci, che sieno le leggi e le repubbliche scritte dai sofisti. Dovere coloro che non si dilettano di cianciare a vóto, ma intendono di voler fare qualche frutto, e che si credono avere alcuno loro ritrovamento da manifestare, il quale sia di beneficio comune, lasciare gli altri parlare nelle celebritá degli uomini, ed essi fare alle cose delle quali prendono a consigliare (se pur vogliono che vi sia posto mente) uno quasi capo, a ciò eleggendo un uomo di quelli che sanno e possono dire e fare, e che abbia stato e riputazione grande. Il che veduto io, e giudicato essere la veritá, ho eletto di ragionare teco, non giá con intenzione di scegliere quelle cose che piú ti debbano essere a grado, come che egli mi sarebbe oltremodo caro che le mie parole ti aggradissero; ma io non pensava però a questo; e la cagione che mi mosse fu che io vedeva gli altri uomini grandi e di nome, vivere sotto l’autoritá di comuni e di leggi, e non poter fare altro se non quello sia loro ingiunto; ed ancora essere da meno assai che non è richiesto alle cose che io sono per dire; a te, in contrario, la fortuna aver dato libera facoltá e di mandare a chi ti piacesse, e da chi ti piacesse altresi ricevere ambasciatori, e di poter dire ogni cosa che tu credessi espediente; e oltre di questo, io ti vedeva fornito di tanta ricchezza e militare potenza, di quanta non è tra i greci niuno; le quali due cose sole al mondo possono di loro proprietá e persuadere e sforzare, che sono effetti, se io non m’inganno, bisognevoli l’uno e l’altro alla esecuzione delle cose che ora dobbiamo dire. Perocché il mio proposito è consigliarti di voler essere autore e capo di ridurre i greci a concordia e di fare oste sopra i barbari. Dove il consigliarti di fare oste, è cosa di tuo speciale onore; di farla poi sopra i barbari, è cosa di utilitá comune. Questa sará la sostanza di tutto il ragionamento.