Vai al contenuto

Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura/3

Da Wikisource.
Pagina 3

../2 ../4 IncludiIntestazione 4 novembre 2011 100% Saggi

2 4

[p. 77 modifica] niente vieta che dei diversi [p. 78 modifica]generi di poesia altro abbia per oggetto piú particolarmente il bello, altro il doloroso, altro anche il brutto e il vile, e però qual sia piú nobile e degno qual meno e non per tanto tutti sieno generi di poesia, nè ci sia oggetto di veruno di essi che non possa essere oggetto della poesia e delle arti imitative, ec.


*   La perfezione di un’opera di belle arti non si misura dal piú bello, ma dalla piú perfetta imitazione della natura. Ora, se è vero che la perfezione delle cose in sostanza consiste nel perfetto conseguimento del loro oggetto, qual sarà l’oggetto delle belle arti?


*   L’utile non è il fine della poesia, benché questa possa giovare. E può anche il poeta mirare espressamente all’utile e ottenerlo (come forse avrà fatto Omero) senza che però l’utile sia il fine della poesia, come può l’agricoltore servirsi della scure a segar biade o altro senza che il segare sia il fine della scure. La poesia può esser utile indirettamente, come la scure può segare, ma l’utile non è il suo fine naturale, senza il quale essa non possa stare, come non può senza il dilettevole, imperocché il dilettare è l’ufficio naturale della poesia.

*   Sentía del canto risuonar le valli
D’agricoltori, ec.


*   Piú ci diletterebbe una pianta o un animale veduto nel vero che dipinto o in altro modo imitato, perché non è possibile che nella imitazione non resti niente a desiderare. Ma il contrario manifestamente avviene; da che apparisce che il fonte del diletto nelle arti non è il bello, ma l’imitazione.


*   Il quattrocento restò dal fare, ma conservava l’idea del bello incorrotta; però, benché non facesse, pure apprezzava il fatto, anzi lo cercava; quindi l’infinito studio [p. 79 modifica]de’ classici e l’erudizione dominante nel secolo. Il cinquecento col capitale acquistato nel quattrocento e coll’istradamento del trecento tornò a fare. Ma il seicento, perché era non debole ma corrotto, non solamente non sapea far bene, ma disprezzava il ben fatto anzi gli dispiacea. Quindi la dimenticanza di Dante del Petrarca, ec., che non si stampavano piú. Nel principio del settecento ripigliammo non le forze, ma solo il buon gusto e l’amore degli studi classici; e la prima metà di questo secolo somiglia però al quattrocento, né si fa molto conto di quest’epoca di risorgimento, perché non produsse, come il quattrocento, nessun lavoro d’arte, fuorché la Merope, e durò tanto poco che un uomo stesso poté aver veduto il tempo di corruzione, il risorgimento e il ricadimento. Ricadute le nostre lettere nella imitazione e studio degli stranieri, son comparsi nella seconda metà del settecento e principio dell’ottocento i nostri