Pensieri e discorsi/La messa d'oro/IV

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IV.


Ora io non so, nella mia imaginazione, se siano rimasti sulla porta quelli a cui chiesi d’entrare, e se siano venuti dietro me quelli che invitai ad assistere al rito. A questi, ora, mi rivolgo, incerto se io non parli al vento: al vento che porta ora odor d’incenso, dalla chiesuola, ora profumo di rose, delle ultime rose di maggio, dalla campagna. Agli uomini della scienza io mi rivolgo: “A quante cose noi crediamo a cui essi credono! L’uomo, noi crediamo, è un continuo divenire da un qualche cosa d’inferiore a un qualche cosa di superiore. Ciò, e nella sua vita singola e nella sua vita complessiva. Considerando l’uomo, sì nell’individuo e sì nel genere, noi troviamo, risalendo o i brevi giorni o gl’ineffabili milenni, la bestia e la pianta. Ed essi? Vi dirò col pensiero del poeta del cristianesimo, del poeta che è nel tempo stesso, il nostro poeta e il Genio nostro, vi dirò, in breve, col suo pensiero, che cosa credono essi. L’uomo, da [p. 287 modifica]semplicemente vegetante, divien animale. Ma dalla animalità, che ha comune con le bestie, egli vuole ascendere. Parrebbe un corto andare, questo; ma l’uomo è, pur troppo, spesso costretto ad altro più lungo e fiero viaggio! Egli deve concepire o rafforzare l’orrore per la bestia che ha in sè. Egli discende in sè stesso, e vede, nell’abisso della sua coscienza, tutte le bestie più immonde e più feroci. Vede, e rilutta e rifugge, e così acquista la forza per risalire di quanto egli discese: come l’acqua che per l’impeto medesimo con cui precipitò nel baratro, zampilla pura e diritta al cielo.

Questa è bensì filosofia morale, ma quale unica può scaturire dalle vostre scientifiche premesse di antropologia. Sì: ella nasce dal vostro unico principio della conservazione propria. L’uomo deve conservare la sua umanità, la quale non è un essere, ma un divenire, non uno stato, ma un moto di regresso continuo dalla propria origine, sì, dalla propria origine che l’uomo apprende come una colpa... colpa involontaria, bensì, perchè l’immobile e inconsapevole vegetare della selva oscura non ce l’ho messo io nel mio essere, ma non per questo non è in me; nè io ho racchiuso nella mia natura tanti bestiali émpiti e bramìti, e non posso farne carico ai miei genitori, nè essi ai loro; ma non per ciò io sento meno il loro strepito, che giunge dai lontanissimi primordi sino a me, perchè è in me, e si compone di tutti i gridi, dal gorgogliare del batraco allo squittire del piteco, dal grugnito del ciacco al ruggito del leone e all’ululo del lupo. Noi fuggiamo... sono millenni che il nostro genere fugge per diventare umano, fugge da sè per trovar sè, riconoscendo, spontaneamente, la [p. 288 modifica]colpa, sempre più colpe, nella sua natura. O non credete voi a questo, biologi e antropologi? E non è quel medesimo a cui credono quelli là dentro?„