Per l'insegnamento dell'arabo e del berbero in Italia

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Eugenio Griffini

1911 Articoli Per l'insegnamento dell'arabo e del berbero in Italia Intestazione 6 gennaio 2011 75% Articoli

Il ministro della pubblica istruzione sta per istituire corsi di "lingua araba" (così ne suonerà il titolo ufficiale) in parecchie scuole secondarie del Regno. Anche a Milano avremo a giorni due o tre di questi corsi più o meno pubblici, presso il Circolo filologico, all’Università commerciale Bocconi od altrove.

L’iniziativa è ottima, ma solleva una questione destinata a divenire di vivo interesse, più che scolastico e coloniale, nazionale. Vi sono dei ma sui quali è urgente che coloro che hanno molti anni di esperienza dell’Africa del nord da Suez a Tangeri in tutti i suoi aspetti e quindi anche in quello linguistico, dicano chiaramente quello che pensano.

Anzitutto quale lingua araba verrà insegnata? Gli avvenimenti matureranno il programma vero, ufficiale dei primi anni di questi corsi. Quando al pubblico italiano essi avranno insegnato che cos’è la Tripolitania e che cosa vi potremo andare a fare, e come dovremo farlo, potremo dire nell’interesse degli insegnanti e degli allievi in quali proporzioni si dovranno insegnare la lingua che gli arabi scrivono e quello che è il più diffuso fra gli idiomi parlati arabi e berberi delle nostre nuove terre africane, cioè il " trabelsi " o tripolino, un dialetto arabo che prende tale nome da quello della città di Tripoli, che sul posto è chiamata " Trabels ", ed in arabo scritto ed in turco: " Tarabulus ".

Chi dovrà o potrà andare presto in Colonia, sia in servizio militare che come ufficiale civile o come privato, ed ha premura, rinunci a rompersi la testa con grammatiche, radici, prefissi e suffissi, e si studii o si faccia insegnare quelle cinquecento parole di puro e schietto trabelsi colle quali potrà benissimo farsi intendere in tutta la Tripolitania e Cirenaica ed anche in tutta la Tunisia, che con la nostra Colonia ha comune il dialetto arabo. In Egitto no, né nei paesi arabi asiatici: là dovrebbe studiare tutto da capo. In Algeria e nel Marocco invece il trabelsi può essere compreso; da Bengasi a Fez abbiamo infatti il grande gruppo dei corrottissimi dialetti arabi berberizzati chiamati magrebini dal Magreb, nome arabo di tutta l’Africa del nord, Egitto escluso. Il deserto che separa quest’ultimo dalla Cirenaica è anche un ben marcato confine linguistico oltre il quale i dialetti arabi non son più berberizzati, ma alterati da lingue semitiche perdute, e dallo stesso greco bizantino, dal neo-ellenico, dal turco, dal curdo, dal persiano, ecc.

Chi invece non ha premura di raggiungere l’utile immediato in pochi mesi, ma ha tempo e coltura e sente già fin d’ora quali saranno le difficoltà ardue della vita vissuta nella Colonia nostra, nella quotidiana nostra prigionia fra ceppi islamitici, chi conosce l’Algeria e le superbe vittorie civili vinte con la scienza alleata alla baionetta nella Francia d’oltre mare —  chi sa che l’occupazione di una regione musulmana si intraprende coll’armi alla mano, ma sarà compiuta solo quando sarà nostra tutta quella che è la mentalità indigena, lingua, dialetti, letteratura, religione, superstizioni, usi, costumi, leggende, onomastica, toponomastica, e via dicendo — potrà mettere in valore quei corsi di lingua scritta e di letteratura araba che già abbiamo in quattro delle nostre Facoltà di lettere (Firenze, Roma, Napoli, Palermo) ed ai quali potremo con profitto concedere la frequenza agli studenti di legge e di scienze sociali e coloniali.

I nostri futuri impiegati di concetto, i veri governatori della nuova immensa colonia africana usciranno solo di lì e dalle altre scuole che potrebbero perciò venire istituite. In Algeria non si occupano cariche militari e civili senza i numerosi diplomi (brevets) speciali rilasciati da quel modello di Università coloniale che ad Algeri porta il nome di Ecole Supérieure de Lettres e che è retta dal prof. René Basset, uno scienziato che può dire: nihil africani a me alienum puto. In questa scuola l’insegnamento dell’arabo scritto dura sei anni: è quanto occorre per possedere questa lingua, anche se si studia sul posto! Quello dell’arabo parlato algerino incomincia solo dopo il primo biennio, è affidato ad insegnanti indigeni e dura quattro anni.

A certi ufficiali coloniali francesi è indispensabile, oltre a questi, il diploma di lingua berbera; lo studio di questa lingua occupa pure quattro anni e si fa di solito contemporaneamente a quello dell’arabo.

Anche in Tripolitania come in Algeria i dialetti berberi (non la lingua, che è quasi morta) sono parlati su vasta scala e a noi saranno indispensabili. Potremo sempre affidarci ad interpreti e traduttori indigeni? Non saremo allora mai in casa nostra. A Milano udiamo un dialetto berbero, lo zuâua, tutte le volte che passano vicino a noi quei poveri diavoli d’algerini della Cabilia che vendono per le vie tappeti fabbricati a Monza. Lo zuâua è precisamente il dialetto la cui conoscenza è richiesta alla Ecole Supérieure de Lettres di Algeri per il rilascio del brevet de langue berbère, ma disgraziatamente per noi non è compreso dai berberi tripolitani. Questi parlano sui loro monti, in una vasta regione di difficile accesso a poche ore a sud-ovest di Tripoli, e cioè nel " Gebel Nefusa " il dialetto zenatîa. Ma più nell’interno, sentiremo il ghadamsi ed il dialetto berbero di Ghat, nonché la diffusissima lingua tamacek parlata e scritta dai fieri e cavallereschi Tuareg, una densa popolazione indipendente che vanta una piccola letteratura, numerosissimi cavalieri ed altrettanti poeti e trovatori, ma che conterà un giorno molti nostri nuovi nemici. I Tuareg scrivono la loro lingua (che è camitica come il berbero e non semitica come l’arabo) con una loro scrittura nazionale chiamata tefinar : una diavoleria di oltre quarantacinque segni geometrici grazie ai quali si può scrivere qualunque dialetto berbero.

L’arabo scritto, la lingua del Corano e dei giornali egiziani e tunisini, servirà dunque ad illuminarci, ad istruirci, a toglierci molti e molti di quei veli che ci nascondono l’anima delle nostre nuove terre, il suo atteggiamento, le sue intenzioni, le sue forze più vive riposte. Ma in meno di quattro o cinque anni nessuno, ripeto, è mai riuscito a farlo suo e ad intendere per esempio, senza assistenza di vocabolario, un articolo di un giornale arabo, o a leggersi un libro od una sentenza. Invece a proposito di lettere e di scritti commerciali e familiari, è forse bene sapere che il dialetto trabelsi viene in Tripolitania generalmente usato anche nella corrispondenza; gli israeliti lo scrivono però coi caratteri ebraici corsivi, non con quelli arabi; sappiamo che il commercio di Tripoli è in gran parte nelle loro mani.

Troveremo dunque in Colonia una dozzina di differenti dialetti e tre differenti scritture. Come ce la caveremo? Procedendo adagio, ma ben preparati, e soprattutto, bene avvisati, e ricorrendo a mezzi dei quali potremo ragionare in altra occasione. Per ora facciamo buon viso a tutti coloro che vorranno aiutarci ed istruirci come potranno, sieno essi frati arabi della Siria e della Mesopotamia, o prigionieri tripolini di ottima condotta. Basti per ora annunciare agli insegnanti di arabo regolare (la lingua scritta o letteraria o coranica o regolare è sempre una sola, da quindici secoli, in Asia in Africa e nelle Americhe, dove pure si stampano numerosi giornali in arabo), che se non conoscessero il dialetto principale della Tipolitania sarà messo al più presto a loro disposizione da un editore di Milano un manuale dal titolo: " L’arabo parlato in Tripolitania e Cirenaica ": vocabolario e frasario per chi dovrà studiare anche senza maestro. Il lavoro è già compiuto.

Forse la semplice conoscenza del dialetto locale con tutti i suoi storpiamenti e le sue mostruosità fonetiche e morfologiche potrà servire anche nelle traduzioni in arabo di proclami del Governo della Colonia più della lingua letteraria, se usata da persone che della Colonia non conoscono nemmeno i nomi geografici.

Il proclama nel quale S. E. il Governatore in nome del Re ha annunciato agli indigeni l’avvenuto insediamento della sovranità italiana è riuscito superbo nel suo originale in italiano. Nessun orientalista avrebbe saputo fare di più. Ma è stato sciupato da un cane di traduttore. La versione araba, eseguita e stampata a Roma da un arabo cristiano, è tutta in una pessima lingua sgrammaticata ed inelegante; porta la data del 1328 mentre invece l’anno corrente dell’èra musulmana è il 1329; ma non basta: Tripolitania e Cirenaica sono state tradotte con " Tarabulus ua Cairuuan ", cioè con Tripoli e Cairuàn! Nelle nostre terze ginnasiali si sa che Cairuàn è la seconda città della Tunisia; che è dessa la capitale della Tunisia musulmana, che è dessa la città santa , di tutta l’Africa del nord!

Noi siamo andati fin là? È troppo: ce lo han detto i tunisini eccitati ad un odio pazzesco verso di noi dai loro giornali indigeni legittimamente indignati ed allarmati: la Zohra, la Hâdira, il Sauàb, la Rusdija, il Tacaddum ed infiniti altri.

A qualche cosa di bene e di male servono anche gli interpreti... e i cani.

Dr. Eugenio Griffini