Piccola morale/Parte terza/XII. Il soperchio

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Parte terza - XII. Il soperchio.

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Parte terza - XI. L'esagerazione Parte quarta
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XII.

IL SOPERCHIO.

Chi vedesse uno scimunito uscire di bel mezzo giorno con in mano una torcia per illuminare la strada, saprebbe contenere le risa, presso a poco come chi fosse chiamato a contemplare il mostro oraziano dalla testa di ragazza e la coda di pesce? Pure di simili stravaganze se ne veggono presso che a tutte l’ore, e in presso che tutti i luoghi, e sono quel soperchio di cui intendo parlare.

Tiburzio, guadagnata la lite che il tenne in agonia un paio d’anni, si vede circondato da una folla di amici che si proferiscono pronti a’ suoi servigi. Vi occorre denaro? Si ba a tener pratica col tale? E da far che il tal altro metta cervello? [p. 200 modifica]Parlate, eccoci qua, tutti cuore e tutti mano per voi. Dite il somigliante di Aurelio; fino a che ebbe avverso il giudizio de’ sapientoni, che sterpano ogni germoglio di fama, per tema che non ingombri loro il terreno ove intendono di allignare, non ci fu un cane che si ricordasse di Aurelio, o chi ne parlò non altro seppe fuorchè far eco al giudizio de’sapientoni. Ora che la idropica gloria di que’ papassi venne meno tra gli sbadigli, tutti intuonano in coro le lodi di Aurelio, non v’è chi non pronosticasse di lui cose grandi a nativitate. Nelle faccende più gravi del pari che nelle più frivole della vita, troverete sempre questo malaugurato soperchio. Allora piovono i partiti in casa di una onesta fanciulla quando essa ha di già messo il proprio nome sotto una scritta nuziale; basta che un avvocato abbia, o mostri di avere occupate l’ore tutte del suo giorno, perchè veggiate moltiplicarsi i clienti alla sua porta. Onde questo? Molte possono essere le ragioni. La tendenza all’imitazione propria di tutti gli uomini; la proclività del nostro animo ad infiammarsi nel desiderio di quelle cose che più ci sono contrastate; il presumere che ove sono vestigia d’altri uomini ci stia il nostro conto ad avviarci noi pure; tali, e molte altre, che non fa ora d’uopo di tutte annoverare, possono essere le cagioni di questo fatto; a me basta per ora che mi si accordi che questo fatto si vede succedere assai di frequente. [p. 201 modifica]

C’è ancora di più. Vi è egli mai tocco di vedere talano che, quantunque barcollando, pure da sè solo reggevasi in piedi, e che, essendogli porto da qualche malaccorto il braccio per soccorso, senza più stramazzo? Questo appunto è ciò che veggo farsi molte volte da molti coi loro aiuti dati fuori di stagione e di modo. A chi avrebbe bisogno di savi consigli schiudono la borsa; chi patisce difetto di denaro riceve conforto d’infruttuose parole. Che ne accade? Che da siffatto soccorso si fa più certa e più misera la rovina. Mi ricordo aver letto un detto molto arguto del Tasso, cui un cortigiano, che non gli si cra mostrato punto favorevole, porse il braccio allo scendere di una scala. Cosi, disse il cortigiano, non direte più, il mio Torquato, che io mai non vi aiuti. E Torquato: Sì, mi aiutate; ma per discendere. Oh questi che vi danno aita a discendere sono pure molti! L’opere di costoro vogliono esser anch’esse annoverate tra quelle che peccano di soperchio. Soperchia è la ragione che date a Bastiano, dopo quella che gli è data da tutto il mondo. Sapete che fanno a Bastiano le vostre parole? Lo gonfiano sempre più di collera verso colui da cui fu ingiustamente oltraggiato. Portate quelle vostre confortatrici parole all’orecchio di Leonzio, sepolto nell’avvilimento, e la cui santa ragione non è conosciuta da chicchessia. Oh! là si le vostre eloquenti diatribe saranno scusabili, e il soperchio [p. 202 modifica]si farà conveniente: l’animo di Leonzio è si basso, che per levarlo alto che facciate colle vostre amichevoli esagerazioni, non potrà avvenire che salga oltre misura. Ma parlo ai sordi. La più parte dei conforti là corrono ove riboccano le consolazioni.

Ma l’ho finalmente trovato chi non pecca nel soperchio fin qui ricordato. Chi è questa faccia d’uomo? E Quintilio. Vedete com’ei corre di porta in porta, e ansiosamente dispensa a tutti quel vario aiuto di che abbisognano. Le sue parole e l’opere sue possono, per certo modo, rassomigliarsi alla manna, in cui erano compresi tutti i sapori, ossia il suo sapore prendeva diversa qualità a seconda del diverso palato su cui si posava. Fosse pur vero! Ma Quintilio, in onta dell’apparenza che farebbe giudicare di lui il contrario, è quello tra gli uomini che dà più nel soperchio degli altri in quanto fa e in quanto dice. Ecco qui. Gli altri almeno si contentano di lasciare le cose e le persone al loro sito, e la colpa loro sta in ciò solo di non sapere proporzionare i rimedii alla malattia. Quintilio all’incontro crea il male per sola pazza voglia di spacciare il rimedio. Oh incredibile furore di beneficenza! Povero il mio Fulgenzio! dic’egli: tu non hai pane da pórti alla bocca. To’ infelice, e ti sfama. Così dicendo allarga la borsa. Fulgenzio protesta che, sebbene non siagli mai accaduto di afferrare pel ciuffo madonna Fortuna, non è, grazie al [p. 203 modifica]cielo, ridotto a tanto deplorabile estremità. Ma non per questo Quintilio s’accheta; continua a pensare che Fulgenzio sia già prossimo a mettere l’anima in un sospiro, e ciò pel gusto di risoffiargli tra le labbra la vita coll’alito della sua carità. Si sparla di Prudenzio? È fatto segno alla più accanita persecuzione che possa immaginarsi la mente umana? Quintilio ne gongola, come d’una bella opportunità che gli è messa innanzi da far spiccare il proprio coraggio nella difesa de’ calunniati. Se Prudenzio potrà risorgere nell’opinione degli uomini, ne avrà tutto il merito la lingua misericordiosa di Quintilio. Oh soperchio di misericordia!

Ciò che veggiamo accadere ne’ teatri, ove quando uno applaudisce sono pronti dieci altri a fare lo stesso, e quindi a questi dicci se ne accompagnano cento; accade fra gli spettatori nel gran teatro del mondo, i quali, per la più parte razza di pecore e zebe, mettono le zampe sull’orme altrui. Ma c’è inoltre da osservare che, non contenti di rimanersi confusi tra la folla delli spettatori, vogliono, o tosto o tardi, qual più e qual meno, l’un dopo l’altro montare il palco, e recitare la parte, o per dirla con frase più teatrale, schiccherare il proprio a solo nel cospetto di tutto il mondo. Qui sta la prima fonte dei guai. Ad essere giusti e non più si corre pericolo di passare inosservati; vogliamo quindi esercitare una giustizia che faccia fracasso. Dar a tutti [p. 204 modifica]il suo è far ciò che si deve, si dà dunque a quale cuno più di quello che gli si compete. Allora le trombe suoneranno, e scoppieranno i battimani della moltitudine, la quale vuol essere soggiogata dalla maraviglia. Finché la bilancia è in bilico nou se n’ha cigolio; facciamo che trabocchi da una parte o dall’altra, affinchè lo strepito della discesa sia cagione alla gente di girar la testa a guardare che c’è di nuovo. O cerretani di benefizii, anche voi avete il vostro palchetto e le vostre ampolle. Quanto a me mi diletto di vedere le vostre sfarzose comparse, ma dico poi fra me stesso: qui c’è soperchio; e mi ritiro a tributare la mia venerazione ove le cose si fanno con misura, e gli specifici si distribuiscono all’uopo e senza suono di tromba. Che volete? Voi nel soperchio, io forse peccherò nel restio. Pur tutti gli uomini sono condannati ad urtar negli estremi!