Polemiche relative al De antiquissima italorum sapientia/IV. Seconda risposta del Vico/III. Delle origini

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III. Delle origini

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III

Delle origini.

Circa le origini delle voci, in cotesta Replica (p. 232 sgg.) mostrate non esser soddisfatti de’ luoghi ond’io confermo le prime due pari, e dubbitate di alcune altre seguenti. E primieramente (p. 233) non vi appaga il luogo di Plauto, dove «factum optume» spiego «adprime veruni»; e replicate che a quella ingiuria «Furcifer», che gli dice Callidoro, Ballione risponda, «factum optume», cioè «fu fatto benissimo», per «fatto con somma ragione». Ma dubito fortemente che la buon’aria del parlar latino non permetta si fatta spiegazione, a cagion che un tal sentimento si suole spiegare con la frase «iure factum», non «bene factum»; poiché noi vediamo usarsi la frase «bene factum» ogni qualunque volta ci vien narrato avvenimento di cosa desiderata. Onde in infiniti luoghi de’ due comici, all’udire liete novelle, sentiamo rispondere da chi se ne rallegra o congratula, «bene factum», «bene, inquarti, factum», «bene, ita me dii ament, factum»; che si renderebbe in italiano «io ne ho un gran gusto». Onde, al piú al piú, quel luogo si dovrebbe per cotesto verso spiegar cosi: che all’ingiuria, la quale gli dice Callidoro di «portaforche», Ballione risponda : «Oh che grandissimo gusto che mi hai tu dato!». Talché, seguendo cotal interpretazione, sembra nulla conferire al vostro prò quell’altra, che gli date: «egli è verissimo ciò essere ottimamente fatto», e tutto ciò che in confermazione ne adducete dell’aristotelico di buon gusto Onorato Fabri. Perché tutto ciò avrebbe luogo, se Ballione avesse risposto «iute factum», e, per la serie delle prime risposte, tutte dinotando veritá, «ita est», «vera dicis», «quíppini?», quest’ultima si enuncerebbe: «egli è vero ciò esser verissimo»; della quale enunciazione non si può immaginare né piú inutile né piú vana. [p. 254 modifica]

Della voce «caussa» opponete (p. 234) che dovrebbe significare «negozio», non come dall’oratore e dal legista si consi dera, ma come dal metafisico, in sentimento della «cagione», ed in ispecie dell’«efficiente»; talché, come in Cicerone si legge : «in seminibus caussa est arborum et stírpium», e appo Virgilio: belix qui potuit rerum cognoscere causas ! si avesse potuto latinamente sostituire la voce «negocium». Della medesima maniera vorreste che io avessi addotto luoghi, dove la voce m genus» significasse «forma», quale i fisici intendono, e la voce «species» significasse quello che da’ filosofi «individuo» s’appella. All’una e all’altra di coteste opposizioni credo giá essersi soddisfatto dove ragionammo della «condotta», perché in cotal guisa, nella quale voi richiedete da me le pruove delle origini, io avrei ritratto l’antica sapienza d’Italia da esse voci latine, non dalle origini loro: che è il mio argomento. Quel che di piú mi opponete, che la parola «anima» in sentimento di «aria» egli venga dal greco, appo i quali l’aria mossa fu detta &ve(ioq, onde io malamente ne faccia autori i filosofi italiani, egli pure, per tutto il ragionato della «condotta», sta risoluto. Perché dalle pruove ivi fatte facilmente si può dedurre che quegli egizi antichissimi, che mandarono in Italia cotal voce in cotal sentimento, l’avessero parimente mandata in Grecia; e cosi essersene tutte e due queste nazioni servite, senza averne alcun commercio tra esso loro. Ma è bisogno che io vi nieghi quell’altro poi: che Lucrezio da’ giardini di Epicuro trasportò nel Lazio la distinzione delle voci «animus» ed «anima», con quelle loro eleganze, che Manima vivamus», «animo se n tinní us»; al qual proposito adducete i suoi leggiadrissimi versi, e ne inferite che sia dottrina forestiera, non nativa d’Italia (p. 236 sgg.). Io pur lo dissi (cap. v, \ 1, p. 167), ragionando dell’eleganze di queste due voci : «Elegantia duum horum verborum ’ animus ’ et ’ anima \ quod ’ anima vivamus ’ animo sentiamus tam scita est, ut T. Lucretius eam veluti in Epicuri hortulo natam [p. 255 modifica]

vindicet suditi». Ma la voce «veluti» importa improprietá: né invero Lucrezio potea di Grecia ripeterla, perché essi con la voce istessa vu/.i’i significano e l’uno e l’altro; e, quando essi ragionano d’immortalitá, che da’ latini dicesi «animorum», non «ani marniti» , essi usano la medesima. Sicché il Fedone , dove ex professo si tratta de immortalitate animorum , è intitolato FIeqí WC b?- Oltreché, Lucrezio trovò questa eleganza di voci in filosofici sentimenti ab antiquo correre per le bocche romane, molto innanzi ch’esso vi portasse l’epicurea filosofia. Sol mi rimane intorno a’ versi di Lucrezio soggiungere che quel torno gagliardo, con cui ritondate quel sentimento: «Ma a chi non è noto che sovente i vocaboli * sentio * e ’ sensus ’ appo i latini hanno il significato medesimo che * intelligo ’ ed f intellectio ’, ’ indico ’ e ’ iudicium ’?», potevate appianarlo con riconvenirmi che io medesimo anche nel margine (0 del paragrafo De sensu (p. 177) dissi: «Latinis omnia mentis opera sensus»; e ne vado investigando le cagioni. Ma, ritornando alle origini, quella però che «intelligere» in significazione di «raccoglier tutto» e di «apertamente conoscere» è combattuta da voi (p. 235) con l’autoritá de’ gramatici. né pur. seguendo la loro etimologia, sembra essere stata abbattuta. Imperoché la parola «vitelligere» non viene da «intuí legere», che sarebbe «internamente raccogliere», onde voi ne inferite per assurdo che sarebbe l’«intelligenza propria dell’uomo, non giá di Dio»; ma viene da «inter lego», fatto piú dolce «intei lego», presa la preposizione «inter», non in sentimento di frammezzamento, si che significasse «trascegliere tra le molte le migliori cose», cioè a dire le vere, ma in significazione di accrescimento o di perfezione, come il dimostrano le voci «interminari», minacciar fortemente; «intermorluus», morto affatto; * interficere», finire un di ferite; «interdicere», apertamente ordinare (che non intendendo alcuni interpreti delle leggi, molto divagano dal vero d’intorno l’origine della voce «interdicium»). 1) Nella presente ristampa, nel sommario, primo lemma [Edd.]. [p. 256 modifica]

Rimane finalmente, per quello che riguarda questa parte dell’origini, da non doversi trascurare quella che voi chiamate «questione di nome» (p. 228): se la topica, critica e metodo abbiano a dirsi «arti», non «facultá». Perché non altronde proviene la difficultá che i latini hanno avuto di rendere in loro idioma la voce Qr|TOQixfj, gli aiuti della quale fanno comunemente natura, arte ed esercitazione, cioè che la natura la promuove, l’arte l’indrizza, l’esercitazione la conferma; e QrjTOQeg appo i greci non significa «maestri dell’arte», ma «oratori», i quali certamente non sono da stimarsi, se non hanno acquistato quella faciltá di ben parlare, che possano all’impronto patrocinare con eloquenza le cause. Talché, trattando io in quel libro di sottili differenze che si hanno da osservare circa la proprietá delle voci, m’importava non confondersi, particolarmente quando io ex professo le distingueva, per le gravi conseguenze che ne provengono, come una, quella che l’uomo con ciascuna facultá si fa l’oggetto proprio di quella. Onde puossi dare il fondamento a tutto ciò che ragiona, per vie non tentate innanzi da altrui, il barone Herberto nel suo libro De verilate : che ad ogni sensazione si spieghi e manifesti in noi una nuova facultá, che è il maggior argomento di quella metafisica. Chiudo questa parte di ragionamento con quel fine che io feci proprio di questo luogo nella Risposta (p. 206), e voi avete fatto fine di tutta la vostra Replica (p. 238): che non poteva la vostra gentilezza riposare sul credito di quello che io ne affermava; perché «oggidí si è appresa questa massima: che è assai pericoloso nelle cose filosofiche il voler fondare il suo sapere anzi sul credito di chi che sia, che sulla forza ed evidenza delle ragioni». Perché io ve ne priegava, non dove trattava delle cose e delle loro cagioni (dove è da osservarsi religiosamente la massima), ma di voci e delle loro origini, nelle quali signoreggia l’uso e l’autoritá.