Prima parte del Re Enrico VI/Atto secondo

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Atto secondo

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ATTO SECONDO


SCENA I.

La stessa.

Giunge ad una porta un sergente francese con due sentinelle.

Ser. Compagni, prendete i vostri posti, e siate vigili. Se udite qualche rumore, o vedete qualche nemico vicino alle mura, fate che siamo istrutti nel corpo di guardia.

Sen. Così faremo, sergente. (esce il ser.) Per tal modo i poveri tapini, mentre gli altri dormono nei loro placidi letti, sono costretti a vigilare fra le tenebre, in mezzo alla pioggia a al freddo.

(entra Talbot, Bedford, il duca di Borgogna e il loro seguito con iscale; i loro tamburi suonano una marcia funebre)

Tal. Lord reggente, e voi temuto duca, per la cui alleanza le provincie di Artois, dei Valloni e di Piccardia ci son fatte amiche, cooperate con noi al buon esito di questa notte, in cui i Francesi sono senza diffidenza inebbriati ancora dai banchetti dal dì. Ci giovi l’opportunità; per essa ci vendicheremo della frode che ci ha sopraffatti, e che tessuta avea un’arte infernale.

Bed. Codardo re! Come egli oltraggia la sua fama, disperando così del suo valore e legandosi con istreghe e agenti d’Inferno.

Bor. I traditori non hanno mai miglior compagnia. — Ma chi è questa Pulcella che dicono sì pura?

Tal. Una giovinetta, per quel che ne ho inteso.

Bed. Una giovinetta? Ed è tanto animosa?

Bor. Prego Iddio che ella non divenga un uomo, e un eroe, come accadrebbe continuando come ha cominciato.

Tal. Ebbene, si accordino pure cogli spiriti infernali. Iddio è la nostra salvaguardia: e nel suo nome vittorioso intraprenderemo a scalare i loro baloardi.

Bed. Ascendi, prode Talbot; noi ti seguiremo.

Tal. Non tutti uniti; meglio vale, a creder mio, che entriamo per diverse parti nel tempo stesso; perchè se qualcuno di noi riman scoperto, gli altri potranno giungere al loro scopo.

Bed. Così sia: io salirò per quell’angolo. [p. 22 modifica]

Bor. Ed io per questo.

Tal. E di qui salirà Talbot, o troverà la sua tomba. Ora, diletto Salisbury, è per te, e pei diritti di Enrico d’Inghilterra che noi combatteremo, e in questa notte si vedrà quant’io fossi affezionato ad entrambi (gl’Inglesi don la scalata gridando: san Giorgio! e Talbot! ed entrano nella città; la sentinella dal di dentro grida due volte: allarme! I Francesi corrono su le mura vestiti appena per metà. Entrano da varie parti, il Bastardo, Alençon, Renato, ecc.)

Alen. Come, compagni, in tale abbigliamento mi comparite?

Bast. E lieti eziandio di esser potuti fuggire.

Ren. Tempo era, io credo, di svegliarci, e di lasciare il letto: l’allarme risuonava alle porte delle nostre stanze.

Alen. Di tutti i fatti che ho veduto dacchè pratico il mestiere delle armi, non mai udii parlare d’impresa più avventurosa e più disperata di questo assalto.

Bast. Credo quel Talbot un demonio d’inferno.

Ben. Se non è l’inferno, il Cielo certo lo seconda.

Alen. Viene Carlo; stupisco della sua alacrità.

(entrano Carlo e la Pulcella)

Bast. Silenzio! La santa Giovanna era la sua angiola guardiana.

Car. È questa la tua arte, donna ingannatrice? Ci piaggiasti tu sola con un felice successo, per espome quindi ad una perdita dieci volte maggiore?

Pul. Perchè Carlo è egli così impaziente coi suoi amici? Volete voi che il mio potere sia eguale in ogni circostanza? Volete che io vinca del pari o desta, o assopita, e accagionerete me di ogni male? Soldati improvvidi, se fatta aveste buona guardia, questa subita disavventura non vi sarebbe toccata.

Car. Duca d’Alençon, la colpa fu vostra; spettava a voi la custodia notturna e attender dovevate meglio perchè fosse ben compiuta.

Alen. Se tutte le vostre strade fossero state visitate con tanta cura, come quelle di cui io ebbi la sorveglianza, si vergognoso infortunio non ci sarebbe accaduto.

Bast. Io vigilai certo attentamente.

Ben. Ed anche io, signore!

Car. E per me, ho passata la più gran parte di questa notte ora nel palazzo della Pulcella ora nel mio, correndo di guardia in guardia, e interrogando le ascolte; or come i nemici sono essi potuti entrare? Per qual parte ruppero il muro? [p. 23 modifica]

Pul. Non Ti calga più a lungo di ciò, signori: certo è che trovata avranno qualche parte debolmente difesa. Ora non ci rimane più che da radunare i nostri soldati sparsi, e far nuovi disegni per molestare gl’Inglesi.

(allarme; entra un soldato inglese gridando: Talbot! Talbot! Tutti fuggono lasciando una parte delle vestimenta)

Sol. Sarò ben abbastanza ardito per prendere ciò ch’essi han lasciato. Il grido di Talbot mi serve più di una spada. Eccomi onusto di spoglie, comechè usato non abbia altr’arma fuorché il suo nome. (esce)

SCENA II.

Orléans — Dentro alla città.

Entrano Talbot, Bedford, Borgogna, il Capitano ed altri.

Bed. Il giorno comincia a spuntare, e la notte è fuggita recando seco il nero mantello con cui copriva la terra. Desistiamo dalle persecuzioni, e suoniamo a raccolta. (batte la ritirata)

Tal. Ite a cercare il corpo del venerabile Salisbury, e venite a deporlo in mezzo alla piazza pubblica, nel centro di questa città maledetta. — Eccomi dunque sciolto dal voto che avevo fatto alla sua ombra. Per ogni goccia di sangue che egli ha perduto, cinque Francesi almeno caddero in questa notte; e affinchè i secoli venturi sappiano come fu vendicata la sua uccisione, erigerò una tomba nel loro tempio principale, e vi farò interrare il suo corpo: sulla sua tomba starà scritto il racconto del sacco di questa città, e tutti potranno leggervi per qual tradimento avvenisse la sua morte, e qual terrore egli ispirasse alla Francia mentre la vita gli durò. Ma penso, miei lórdi, che nella nostra sanguinosa strage mai non trovammo il Delfino, nè il suo nuovo campione, la valorosa Giovanna, nè alcuno de’ suoi perfidi alleati.

Bed. V’è chi crede, lord Talbot, che al principio della mischia si alzassero da’ loro letti, e che fra schiere armate varcassero i muri cercando di salvarsi nella pianura.

Bor.'. Io stesso, per quanto ho potuto discernere fra il fumo e i ceri vapori della notte, ho atterrito il Delfino e la sua compagna, mentre correvano colle braccia allacciate, come due tortore che non possono vivere divise nè di, nè notte. — Posto che avremo ordine alle cose, gli inseguiremo con tutto il nostro esercito.

(entra un messaggere)

Mess. Salute a voi tutti, miei lórdi! Chi è in questa illustre [p. 24 modifica]brigata quello che chiamate il bellicoso Talbot, celebre per i suoi gesti in tutta la Francia?

Tal. Io son quello di cui parli; che vuoi da me?

Mess. Una virtuosa dama, la contessa d’Auvergne, ammirando rispettosa la tua fama, ti supplica, illustre lord, di concederle il favore di visitare il suo povero ostello; ond’ella possa gloriarsi d’aver veduto l’uomo, la di cui gloria empie il mondo.

Bor. È ciò vero? Veggo allora che le nostre guerre termineranno in comici sollazzi, dappoichè le dame desiderano che si vada in tal guisa a visitarle. — Voi non potete, milord, disprezzare la sua graziosa preghiera.

Tal. Vi permetto di non credere omai pia alla mia parola, poichè ciò che un intero popolo d’oratori non avrebbe potuto ottenere da me con tutta l’eloquenza, la gentilezza d’una donna l’ottiene. — Ditele dunque che la ringrazio, e che andrò con piacere da lei. — Vorrete, signori, tenermi compagnia?

Bed. No certo; sarebbe un varcare i limiti della urbanità, ed ho udito dire che gli ospiti non invitati rallegrano colla loro partenza.

Tal. Ebbene, andrò solo per esperimentare la cortesia di questa dama. — Avvicinatevi, capitano (gli parla all’orecchio): comprendete il mio intento?

Cap. Sì, milord; e ad esso mi conformerò. (escono)

SCENA III.

Auvergne. — La corte del castello.

Entrano la contessa è il suo portiere.

Cont. Portiere, rammenta quel che ti dissi, e fatto che l’abbi, recami le chiavi.

Port. Così farò, madonna. (esce)

Cord. La trama è ordita: se tutto riesce, diverrò illustre per questo fatto, come lo è la scita Tomiri perla morte di Ciro. Grande è la fama di questo temuto cavaliere, di cui portentose narransi le opere. Volentieri vorrei che i miei occhi e le mie orecchie potessero giudicare se meritato è il suo nome.

(entra il messaggere e Talbot)

Mess. Signora, a norma dei vostri desiderii, ecco lord Talbot.

Cont. È il ben giunto. È quello che si avanza di là?

Mess. Appunto, madonna.

Cont. Ed è il flagello della Francia? Ed è quel Talbot sì temuto [p. 25 modifica]in Europa, e il di cui nome formidabile giova alle madri per sedare le grida dei loro fanciulli? Veggo ora come i racconti sono favolosi e ingannatori: credevo di vedere un Ercole, un secondo Ettore, di aspetto feroce, di statura gigantesca, pieno di vigoria e di forza, e invece, oimè, è un fanciullo, un nano che scorgo. È impossibile che quel piccolo globo possa trasfondere tanto terrore ne’ suoi nemici.

Tal. (avanzandosi) Signora, sono stato abbastanza ardito per infestarvi: ma poichè vossignoria è in se stessa assorta, verrò in momento più lieto. (allontanandosi)

Cont. Che vuol egli dire? Andate a chiedergli dove va.

Mess. Fermatevi, milord Talbot. La mia signora vi domanda perchè vi dipartite così subitamente.

Tal. Perchè veggo ch’essa è in errore, e per farla accorta che Talbot è qui. (rientra il portiere colle chiavi)

Cont. Se quello sei, tu sei dunque prigioniero.

Tal. Prigioniero! di chi?

Cont. Di me, lord assetato di sangue; ed ecco perchè qui ti chiamai. È da lungo tempo che la tua ombra è rattenuta nel mio castello, giacchè il tuo ritratto pende nella mia galleria; ora l’originale subirà la medesima sorte, e incatenerò quelle braccia che da tanti anni tirannicamente opprimono e straziano la mia patria.

Tal. Ah, ah, ah!

Cont. Tu ridi, insensato! La tua gioia si cangierà ben presto in tristezza.

Tal. Rido in vedere la signoria vostra sì folle, da pensare che abbiate in poter vostro altra cosa fuorchè l’ombra di Talbot.

Cont. Come! Non siete voi quegli?

Tal. Sì, senza dubbio.

Cont. Ebbene, io posseggo allora l’originale.

Tal. No, no, io non son che l’ombra di me stesso. Ingannata siete, signora: l’ombra io son di Talbot, e quello che i vostri occhi mirano, non è che una parte di un frale individuo della specie umana. Se Talbot tutto intero fosse qui, lo vedreste di grandezza si immensa che quest’aula non basterebbe a capirlo.

Cont. Costui si diletta di bisticci: v’è e non v’è: come si accordano tali opposti?

Tal. Tosto vel chiarirò (suona un corno. Si odono i tamburi, quindi una scarica d’artiglieria. Le porte sono sforzate ed entrano molti militi). Che ne dite, madonna? Comprendete ora come io non sia che l’ombra di Talbot? Eccovi (additando i soldati) la sua sostanza, i suoi muscoli, le sue braccia, la sua forza, colla [p. 26 modifica]quale ei doma le vostre teste ribelli, spiana le vostre città, rovescia le vostre fortezze, e muta popolose regioni in triste solitudini.

Cont. Vittorioso Talbot, perdonami il mio oltraggio. Veggo che non sei meno grande di quello che ti dipinge la fama, e che ben maggior sei che non sembri. La mia baldanza non ecciti il tuo corruccio: io mi accagiono di non averti ricevuto con venerazione ed ossequio.

Tal. Non temete, bella signora, né vogliate ingannarvi sull’anima di Talbot, come ingannatavi siete giudicando le mie esterne sembianze. Quello che avete fatto non mi ha offeso: e non vi chieggo altro compenso che di permetterci di gustare il vostro vino, e di vedere quali vivande saprete offerirci: perocché l’appetito è sempre agli ordini delle milizie.

Cont. Con tutto il cuore: e mi estimerò onorata festeggiando così gran guerriero in casa mia. (escono)

SCENA IV.

Londra. — I giardini del tempio.

Entrano i conti di Sommerset, Suffolk e Warwick; Riccardo Plantageneto, Vernon e un avvocato.

Plan. Nobili lórdi e gentiluomini, a che accenna tal silenzio? Alcuno non osa egli dunque rispondere, e rendere omaggio alla verità?

Suff. Questa sala del tempio risuonerebbe troppo dai nostri alti garriti: entriamo nei giardini, luoghi più idonei a ciò.

Plan. Dite in una parola se ho sostenuto il vero, se il tenace Sommerset non era in errore.

Suff. Affermo che fui sempre un discepolo poco diligente alla scuola di giurisprudenza, e come non potei mai piegare la mia volontà ad alcuna legge, così piego ogni legge alla mia volontà.

Som. Giudicate dunque fra noi due, voi, lord Warwick.

War. Chiedetemi fra due falchi quale è quello che vola meglio: fra due cani qual è il più feroce: fra due lame quale ha tempera migliore: fra due cavalli qual è il più bello: fra due giovinette chi ha l’occhio più ridente; e sopra siffatti temi ho bastanti cognizioni per giudicare. Ma ai cavilli della legge dichiaro d’essere più estraneo di una cornacchia.

Plan. Astuto è il trovato per non parlare. La verità si mostra sì nuda, sì visibile dalla mia parte, che l’occhio meno veggente può contemplarla. [p. 27 modifica]

Som. Ed ella appare sì lucida e chiara dal lato mio, che i di lei raggi ferirebbero anche l’occhio di un cieco.

Plan. Dappoichè la vostra lingua è incatenata, e che si avversi siete a discorrere, dichiarate con muti segni i vostri pensieri. Quegli che sè esalta come di vera stirpe di gentiluomini, e che bramoso è di sostenere l’onore de’ suoi natali, s’ei crede ch’io abbia difeso la causa della ragione, svelga con me una rosa bianca da questo rosaio.

Som. Colui che non è un vile nè un adulatore, e che ha bastante coraggio per affermare il vero, tolga con me da questa spina una rosa rossa.

War. A me non piacciono i colori forti, e strappo questa candida rosa con Plantageneto.

Suff. Ed io questa rossa col giovine Sommerset, e aggiungo che penso ch’egli solo abbia ragione.

War. Fermatevi, lórdi e gentiluomini; e non cogliete più rose prima d’aver statuito che quegli dei due, che ne avrà meno, cederà all’altro, e riconoscerà il suo errore.

Som. Saggio Vernon, la vostra opposizione è leale: s’io avrò meno rose, mi sobbarcherò in silenzio.

Plan. Ed io ancora.

Ver. Dopo di ciò, e per rendere omaggio alla buona causa, io colgo questo bottone pallido e vergine, e do il mio suffragio al partito della rosa bianca.

Som. Bene sta: ora chi parla?

Avvocato. Se i miei studi non sono vani, se i miei libri non dicono il falso, il metodo che avete adottato è erroneo: in prova di mia convinzione colgo io pure una rosa bianca.

Plan. Ebbene, Sommerset, dove sono ora i vostri argomenti?

Som. Qui nel mio fodero, da cui esciranno per colorire la vostra rosa bianca in rosso di sangue.

Plan. Intanto le vostre guancie si fan simili alle rose nostre, perocchè pallide di timore divengono, e attestano che dal nostro lato sta la verità.

Som. No, Plantageneto; non è per timore che impallidiscono, ma per ira, veggendo le tue gote purpuree di vergogna, e nondimeno la tua lingua sì ritrosa a riconoscere il tuo errore.

Plan. Non ha la tua rosa un verme, Sommerset?

Som. Non ha la tua una spina, Plantageneto?

Plan. Sì, aspra ed acuta per difendere il suo candore; mentre la menzogna e la slealtà rodono la tua.

Som. Ebbene, troverò amici che porteranno le mie rose rosse, [p. 28 modifica]e sosterranno la verità di quanto ho detto; mentre il falso Plantageneto non ardirà mostrarsi.

Plan. Per la pura bianchezza di questo fiore, io ti disprezzo insensato.

Suff. Plantageneto, non volgere a questo canto i tuoi dispregi.

Plan. Superbo, così piacemi di fare; e sdegno lui e te.

Suff. Per me, me ne vendicherò col tuo sangue.

Som. Cessa, buon Guglielmo! Onoriam di troppo costui conversando seco.

War. Tu gli fai oltraggio, pel cielo, Sommerset. Il suo grande avolo fu Lionello duca di Clarenza, terzo figlio del terzo Eduardo re d’Inghilterra; nè da tal radice nascono piante immonde.

Plan. Ei si confida nei privilegii di questo sacro luogo: altrimenti il suo vil cuore non gli avrebbe consentito tal linguaggio.

Som. In nome di quegli che mi ha creato sosterrò le mie parole in tutte le contrade della cristianità. Riccardo, conte di Cambridge, tuo padre, non fu egli decapitato sotto il regno del morto re per delitto di tradimento? E il suo tradimento non cancellò in te l’antica nobiltà? La vergogna di lui scorre anche nel tuo sangue e fino a che redento non te ne sii, tu non sei nobile.

Plan. Mio padre fu accusato, ma non convinto: fu condannato a morire per tradimento, ma non fu un traditore. Quello ch’io qui dico, lo proverò ad avversarii più illustri che nol sia Sommerset, se il tempo, a grado mio, me ne porgerà il destro. In quanto a’ tuoi confederati, essi stanno registrati nella mia memoria, e un giorno verran puniti, abbine certezza.

Som. Sia: tu ne troverai sempre pronti a risponderti, e ai nostri colori ci riconoscerai per nemici: i miei amici li porteranno in onta tua.

Plan. Ed io pure, lo attesto sull’anima mia, porterò sempre coi seguaci miei questa rosa pallida di sdegno, simbolo del mio odio, che non si estinguerà che nel tuo sangue. O questo fiore appassirà con me nel mio sepolcro, o fiorirà meco fino all’altezza a cui intendo.

Suff. Segui la tua via, e rimani schiacciato dalla tua ambizione! Addio; fra poco ti rivedrò. (esce)

Som. Vengo teco. — Addio, ambizioso Riccardo. (esce)

Plan. A qual punto son dispregiato, e forza m’è il patirlo!

War. La nota che danno alla vostra casa vi verrà tolta nel prossimo parlamento, convocato per mettere in pace Winchester e Glocester. Se in quel giorno voi non diverrete un York, non vo’ più essere Warwick. Intanto, per addimostrarvi il mio [p. 29 modifica]affetto, e l’avversione che sento per l’orgoglioso Sommerset, e Guglielmo Pole, porterò questa rosa che mi chiarisce del vostro partito. Però io presagisco che questa contesa della rosa bianca e della rosa rossa, nata nei giardini del tempio, e che ha già composta una fazione, precipiterà migliaia d’uomini nel sepolcro.

Plan. Buon sir Vernon, io vi debbo molto per aver voluto voi cogliere una rosa del colore da me eletto.

Ver. E ch’io sempre porterò in favor vostro.

L’avvocato. Ed io pure.

Plan. Vi ringrazio, gentil signore. Venite, andiamo a mensa. Oso dirvi che giorno verrà, in cui questo piato farà spargere molto sangue. (escono)

SCENA V.

Una stanza nella Torre.

Entra Mortimero, portato sopra una sedia da due carcerieri.

Mar. Carcerieri, avendo pietà della mia inferma e decrepita vecchiezza, lasciatemi riposar qui. Io soffro in tutte le mie membra, addolorate per sì lunga prigionia, come un tapino escito dalla tortura. Vecchio come Nestore, e affralito da un secolo di mali, questi bianchi capelli, forieri di morte, annunziano la fine di Edoardo Mortimero; questi occhi, come due lampade di cui l’olio è consunto, si oscurano di più in più, e stanno per estinguersi. Le mie spalle piegano sotto il peso dei guai, e le mie braccia cadono languide e senza forza, come un vigneto appassito i di cui secchi rami si adagiano sulla terra: nondimeno questi piedi, la pianta affaticata dei quali non può più sostenere questo volume d’argilla, sembrano ritrovar nuove forze nel desiderio di arrivare alla mia tomba; certo come io sono di non avere omai più altro ricovero. — Ma dimmi, carceriere, verrà mio nipote?

Car. Riccardo Plantageneto, milord, verrà: noi mandammo da lui al tempio, e n’avemmo favorevole risposta.

Mar. Basta: la mia anima sarà dunque soddisfatta! Infelice giovine! la sua sorte e le sue sventure eguagliano le mie. Da che Enrico Monmouth ha cominciato a regnare (oimè! prima della sua elevazione io era illustre nelle armi), io fui ristretto nella solitudine di questo odioso carcere! E da quel tempo medesimo Riccardo è caduto nell’oscurità, spogliato del suo onore e del suo retaggio. Ma ora che la morte, arbitra benefica che pon fine a tutti i mali e redime l’uomo dagl’infortunii della vita, va colla sua pietosa mano a spalancarmi la porta della prigione, vorrei [p. 30 modifica]che le pene di quel giovine fossero egualmente al loro termina e ch’ei potesse ricuperare tutto ciò che ha perduto.

(entra Riccardo Plantageneto)

Car. Milord, vostro amato nipote è venuto.

Mor. Riccardo Plantageneto, mio amico, è egli venuto?

Plan. Sì, mio nobile zio, il vostro nipote Riccardo, si indegnamente manomesso, è giunto.

Mor. Guidate le mie braccia, ond’io possa stringerlo al mio cuore, ed esalare nel suo seno il mio ultimo sospiro. Oh! ditemi quando le mie labbra saranno vicine a toccar le sue gote, onde io possa raccogliere tutte le mie forze per dargli un bacio. — Tu narrami poi, caro rampollo dell’illustre ceppo dei York, a quali nuovi oltraggi sei andato soggetto?

Plan. Cominciate dall’appoggiarvi sul mio braccio, e poscia potrete udire il racconto dei miei mali. — In questi giorni avvenne un litigio fra me e Sommerset; e nel calore di quello, ei mi rimproverò la morte di mio padre. Tale rimprovero mi chiuse la bocca; diversamente avrei respinta l’ingiuria coll’ingiuria. Perciò, amato zio, in nome di mio padre, per l’onore di un vero Plantageneto, e in contemplazione del nostro affetto, vogliate dichiararmi per qual cagione il conte di Cambridge, mio padre fu decapitato.

Mor. La stessa cagione abborrita, mio nipote, che mi ha fatta stare per tutto il corso di mia florida giovinezza in una odiosa prigione, in preda al dolore e alla noia, fu pure quella della sua morte.

Plan. Degnatevi esplicarvi meglio, avvegnachè io stommi nella più completa ignoranza, e nulla posso divinare colle congetture.

Mor. Lo farò se mi rimane ancora bastante lena, e la morte non interrompe il mio racconto. — Enrico IV, avolo del re, depose suo cugino Riccardo, figlio di Eduardo primogenito, ed erede legittimo del trono, su di cui assiso si era per tanti anni suo padre. Durante il di lui regno, i Percy del Nord, reputando la sua usurpazione altamente ingiusta, si sforzarono di portarmi al trono. La ragione che spinse quei bellicosi lórdi a tale impresa fu che il giovine e buon Riccardo così allontanato, e non lasciando alcun erede di sua schiatta, io solo gli succedeva per nascita e parentado. Io discendo, dal lato materno, da Lionello duca di Clarenza, terzo figliuolo di Eduardo: ed egli da Giovanni di Gaunt, e non è che il quarto di quell’eroica stirpe. Ma ascolta: nella grande e difficile opera con cui tentavano di porre sul trono l’erede legittimo, io perdei la libertà, ed essi la vita. Lungo [p. 31 modifica]tempo dopo, allorchè Enrico V succedendo al suo genitore Bolingbroke, regnò, tuo padre, il conte di Cambridge, che discendeva dal celebre Eduardo Langely duca di York, sposò mia sorella, che fu tua madre. Commosso di pietà pel mio crudele infortunio, ei raccolse un nuovo esercito, sperando togliermi alla mia prigionia, e cinger la mia fronte col diadema: ma quel generoso fu pure vinto come gli altri, e morì decapitato. Ecco come i Mortimeri, sopra de’ quali riposava questo titolo, sono stati distrutti.

Plan. E voi, milord, voi siete l’ultimo del loro nome?

Mor. Sì; e tu vedi ch’io non ho alcuna posterità, e che la mia voce mancante mi avverte della mia prossima morte. Tu sei mio erede: io fo voti perchè tu raccolga i diritti che ti competono per tal titolo: ma sii cauto, te lo consiglio.

Plan. I vostri savii suggerì molti hanno su di me un giusto impero: nondimeno e’ parmi che la morte di mio padre non fosse che un atto di tirannide sanguinosa.

Mor. Mantieni il silenzio, mio nipote, e adopera con saggia politica. La casa di Lancastro è solidamente fondata, nè più facile è a smoversi dal trono che nol sia una montagna dalla sua base. — In questo momento tuo zio sta per lasciare questa vita, come i principi lasciano le loro corti, allorchè stanchi sono di un lungo soggiorno in uno stesso luogo.

Plan. Oh, mio zio, come vorrei, a costo di una parte de’ miei giovani anni, allontanare il termine della vostra vecchiezza!

Mor. Il tuo voto è barbaro come l’omicida che dà mille colpi di pugnale, allorchè può togliere la vita con un solo. Non addolorarti, o non proverai dolore che del bene mio. Dà soltanto gli ordini opportuni per le mie esequie: addio; tutte le tue speranze si compiano, e il corso di tua vita sia felice in pace e in guerra!

(muore)

Plan. La pace guidi l’anima tua che si diparte da questo mondo! Tu hai compito il tuo pellegrinaggio in una prigione, e come un remito vi finisci i tuoi dì. — Io mi terrò i tuoi consigli nel petto; i disegni concepiti nella mia mente vi si celeranno in silenzio. — Carcerieri, recate lungi di qui il suo corpo; vedrò con minor dolore i suoi funerali, che la sua trista vita. — (escono i Car. portando Mor.) Qui si estingue la lampada dei giorni di Mortimero, vittima dell’ambizione di lórdi efferati; in quanto alle ingiurie che Sommerset ha fatto alla mia casa, spero di cancellarle con onore, e per tal fine volo al parlamento. Così, o ristaurato io verrò in tutti i miei antichi gradi, o farò de’ miei mali lo sgabello delle mie fortune. (esce)