Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo III

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Capitolo III

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III.

NEL COLLEGIO DI MONTEFIASCONE.

LE VACANZE IN FAMIGLIA.


Di dodici anni venni mandato nel collegio convitto di Montefiascone. Il paese era bello, con veduta del Lago di Bolsena e le sue due isole, del mare lontano e della pianura che si estende fino a Viterbo. Aria sopraffina, appetito indomabile. Poco mangiare; niente altro che carne in umido, che chiamavan «guazzarone» e pesce del lago. Si vestiva alla Watteau. Non era permesso di andar in città, cosa che a me piaceva assai; perchè passeggiando in campagna godeva la vista dei monti e perchè si andava dai contadini a far merende innaffiate col «moscatellone» che è un gradino sotto al celebre «Est, Est, Est,» col quale andò allegramente nella sepoltura di San Flaviano l’abate tedesco cercator del miglior vino. Al quale il devoto servitore pose il famoso epitaffio:

Est, est, est et propter nimium vinum dominus meus mortus est.

Noi seguivamo la tradizione della ricerca del vin buono e, [p. 14 modifica]dopo la merenda, lanciati i tricorni sugli alberi di fico, si ballava con le giovani contadine. Era grazioso davvero veder questa danza di piccoli Watteau con le forosette a piedi nudi. Per riprendere il cappello si montava sull’albero di fico, piacevol fatica dolcemente compensata. Una delle contadinelle, la quale per me avea una certa poesia, avea nome Rosa. Ed abitava una casina sopra una collinetta che chiamavasi Montedoro. La vidi una sera al calar del sole, che, seduta su un cavallo senza sella, lo menava ad abbeverarlo, camminando tra le ginestre in fiore.


Per le vacanze autunnali, settembre e ottobre, si tornava a Roma in famiglia.

A Montefiascone nella parlata si sente il toscano. E, tornato a Roma, io la pretendevo con i fratelli maggiori un pochino nella buona pronunzia.

Benchè avessi dodici anni, io prendevo gran piacere a percorrer le vigne che avevamo fuor di Porta Portese a cavallo ad una canna, cavallo indomabile che andava a salti per salite e per scese, ubbidiente poi quando si trattava di fermarsi allo scopo di mangiar baccelli, piluccar uva e si prestava a coglier fichi dall’albero.

Una delle mie passioni era di lanciar aquiloni in cielo. Una volta ne feci uno in forma di angelo con le ali aperte. Durante la fabbricazione venni dai fratelli deriso togliendomi la fiducia che potesse elevarsi. Accadde, però, il contrario; e mentre si elevava mio fratello Paolo mi tolse violentemente il cordino dalle mani. Montai in tanta rabbia che, appena potei avere tra le mani il mio lavoro, lo feci a pezzetti e fuggii da casa. Ne stetti lontano tre giorni, aggirandomi per le nostre vigne e dormendo dai vignaroli. Tornai a casa tutto lacero ad uso di figliuol prodigo e fui accolto. Par che i miei fratelli maggiori si fosser divertiti a dir ai nostri vignaroli, che non ne fecer nulla, di inseguirmi con i fucili facendo le viste di credermi un ladro.

[p. 15 modifica]Queste nostre vigne, fuor della porta circa un chilometro, si distendevano in numero di sette dalla sponda destra del Tevere fin sopra a Monteverde. Vi eran sette casini, alcuni dei quali erano assai belli e di lusso. Un di questi era proprio in riva al Tevere, di architettura Impero. A pian terreno vi si trovava una sala ovale con colonne, con quadri, dei quali uno mi è rimasto impresso. Vi era raffigurata l’Inerzia; la rappresentava una bella e giovine donna; curvata appoggiava un gomito su una tavola, l’altro braccio teneva penzoloni, la camicia le era scivolata dalle spalle e mostrava il petto avvizzito, una calza era sul pavimento, l’altra era al piede senza scarpa. Avea dinanzi la zuppa pronta che più non fumava ed il gatto sulla tavola che facea suo prò della sonnolenta. Don Pasquale, davanti a questa, ci diceva:

— Vedete l’Inerzia? Fa diventar brutte anche le belle!...

E sputava.

Al di là di questo casino v’era un prato che declinava al fiume tutto fiorito di margherite. AI di là del Tevere le antiche sacre mura di Roma con le loro torri, la piramide di Caio Cestio, le torri della Porta Ostiense, piedistallo al Monte Testaccio che si eleva dentro. Nel fondo, a sinistra, l’Aventino e Roma; a destra i colli Albani smaltati di paeselli ed una linea di Campagna Romana che fa indovinar il mare. Veduta incantevole!...

Su questo prato si andava a prender il caffè tutta la numerosa famiglia e gli amici invitati. Si faceva musica, si improvvisavano versi da Masi, che divenne poi generale, e da mio fratello Giuseppe.

Un giorno veniva per fiume un bastimento carico di aranci; ed i marinari di questo furon tanto presi dalla gioia della comitiva del prato che si misero anche essi a cantare nel loro dialetto gettandoci una vera pioggia di aranci.


Di fronte a questo casino si apriva un gran viale ad alberi fruttiferi fiancheggiati da siepi di mortelle. Di tratto in tratto [p. 16 modifica]questo viale, che attraversava le sette vigne, si allargava in piccole piazze di aiuole fiorite. Nel mezzo di questo viale i miei fratelli avean fatto costruire un elegante casino architettato dal Cipolla e dipinto dal Mantovani.

In fondo al viale vi era un cancello con una graziosa torretta. A sinistra vi era un antico colombario, che tagliava l’orizzonte della collina, sulla quale era altra vigna, nostra pur questa, ed un bosco sacro. Fra questo ed il Tevere erano gli antichi Orti di Cesare. Di fatti un giorno, noi ragazzi, armeggiando e scavando il terreno per fare una trincea contro i Cartaginesi, sprofondò il terreno e si scoprirono sei camere con musaici. Ora tutto questo spazio è occupato dalla stazione di Porta Portese e dalla via di ferro.


In questi casini si davan pranzi, feste, concerti, ai quali erano invitati i primari uomini che erano a quell’epoca in Roma.

Eravamo amici dei monaci benedettini, tra i quali Don Mauro Liberatore, Pappalettere, Don Luigi Tosti, il padre abate Pisciscelli. Tra gli artisti avevamo amici: il Morani, il Calamatta, il Mercuri e tra i letterati: Tommasoni, Masi, Orioli e molti altri di cui non ricordo i nomi.


A novembre si tornava al collegio di Montefiascone. Freddo, fame e sferza.

Don Antonio maestro di grammatica latina, una delle materie meno simpatiche ai giovani, prendeva la frusta per flagello; e, maneggiandola a modo di fionda, dava col manico.

Alzarsi prima di giorno con freddo intenso, tale che l’acqua che stava in camera nella mezzina si congelava. Appena fuor del letto dir subito orazioni, poi rifar il letto, quindi percorrer lunghi e freddissimi corridoi per andar in cappella; quivi udir la messa e dir l’Ufficio della Madonna. Se qualcuno si addormentava era condannato a far croci con la lingua sul pavimento oleoso sottostante alla lampada; accadde questo anche a me ma io, come al solito, mi serviva del naso.

[p. I 3 modifica] Sepolcro di Gioachino Costa in San Francesco a Ripa (Roma). [p. 17 modifica]

Questa era la nostra vita, in quel collegio nelle prime ore mattutine.

Dopo la messa si scendeva, per una scala quasi a chiocciola, per andare in refettorio. Accadde che una mattina, nello scender molto velocemente questa scala, diedi un urtone ad un certo Mazza il quale mi sonò un par di pedate; mi rivoltai come una vipera dicendo che mi sarei vendicato da grande.

Ritroveremo questo Mazza.

In refettorio si trovava una pagnottella asciutta e un bicchier di vino acquatico. Dopo tre quarti d’ora di studio; quindi due ore e mezzo di scuola. Seguiva il desinare magrolino, con abbondante lettura dal pulpito; poi tre quarti d’ora di ricreazione. Scuola di nuovo, seguìta, nell’inverno, da breve passeggio fuori. Al ritorno due ore e mezzo di studio in camera, cena, ancora orazioni e, finalmente, a letto.

Nelle giornate estive ricreazioni e passeggio eran molto prolungati, ed allora si poteva effettuar quelle danze, che ho descritto, con merende e bicchierate.

La fame era così prepotente che spesso, per cavarcela, vendevamo i libri di studio agli ultimi arrivati per ridomandarli, poi, ai tutori che ciascun collegiale avea nel paese. Io riparavo domandandogli al Canonico Ricca un lungone, gran paino, amantissimo della poesia, colto, ricco, amatore di cose d’arte. Simpatizzava con me, sentendosi vittorioso per il naso più lanciato del mio. Anch’io ero lungo e magro come uno sparagio ed un po’ piegato.

Qualche volta, per riparare alla mancanza di libri, facevo delle vedute a penna da poter scambiare con libri. Una volta feci degli sposi, ambedue a cavallo d’un somaro, mentre dei ragazzi dagli alberi gettavan fiori su di loro. Ripensando, da adulto a questo mio caso ne ho dedotto che uno dei fattori per diventar artista è qualche mezz’ora di appetito.


Di contro alle finestre del nostro collegio era una pineta di pini giganti. Fra questi s’era imboscato un passero da me [p. 18 modifica]educato, ma che, essendo primavera, avea perduto ogni educazione. Ed io per riprenderlo, ero uscito da una finestra alta parecchi metri da terra e disceso per il muro sgretolato. Da altra finestra mi aveva visto mio fratello Pietro in quella pericolosa discesa, ma non avea fiatato per non spaventarmi e farmi precipitare. Ma, quando fui tornato su, mi diede tanti di quei «pitolini» nella testa da levarmi quasi dai sensi; per poco non mi accoppò. Il «pitolino», cosa e parola per esprimerla, era invenzione di quel mio fratello, che menavane vanto. Consisteva nel ripiegare il dito medio in fuori sulle altre dita della mano destra ed afferratomi, con la sinistra per i capelli, mi appoggiava la testa sul letto e sulla stessa, con la destra, menava, con grande effetto, colpi perpendicolari. Fortuna ch’io avea la coccia dura!


In questo collegio rimasi cinque anni; e vi meritai parecchie medaglie. Appena, però, ho potuto toccarle. Mio fratello prete, il Canonico Francesco, me le prendeva per conservarmele e più non le vidi.