Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XLII

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Capitolo XLII

Alla liberazione di Roma

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XLII.

ALLA LIBERAZIONE DI ROMA.


Ho sempre pensato che il grandissimo fatto storico del ricongiungimento di Roma all’Italia non dovesse avvenire in forza di un atto esterno di violenza e di conquista; ma che dovesse, bensì, essere atto di amore e di dedizione dei Romani alla Patria comune.

Non i suoi cannoni, secondo me, doveano mettere Re Vittorio in grado di prendere Roma; sibben doveano i Romani stessi darla a lui, abbattendo essi il potere papale e aprendo all’Esercito suo le porte di Roma.

Questo non solo era possibile, ma anche agevole. Bastava che Roma non fosse presidiata da armi straniere e che i Romani fossero lasciati liberi di agire secondo la propria volontà che era, allora, unanime. Pio IX, dopo la famosa enciclica del ’48, con cui mentre erano in gioco le sorti d’Italia, avea ritirato dal campo di battaglia i suoi soldati, aveva, abbandonando Roma e per ben due volte chiamandovi e mantenendovi l’oppressione di truppe straniere, in Roma deluso tutti. Con ciò egli avea tra se ed i Romani scavato un abisso; ed in Roma egli unicamente si reggeva per forza di armi mercenarie o straniere. La portentosa formazione del Regno d’Italia, poi, avea a questo guadagnato tra i Romani gli animi più incerti e più timidi; come pure avea verso lo stesso orientato la più gran parte degli interessi. Se, quindi, i Romani non avessero avuto sul collo la soldatesca francese, senza grande sforzo avrebbero potuto farsi padroni della loro città. Nè potevasi dubitare che essi, nei riguardi del Papa, si sarebbero condotti f [p. 228 modifica]con quella misura e quella saggezza che le necessità internazionali imponevano. E, poi, l’Esercito del Re non avrebbe tardato a sopraggiungere.


Si comprende, quindi, come non appena la guerra con la Prussia aveva obbligato la Francia a richiamare il corpo di occupazione, che dopo il 1867 manteneva in Roma, a me sembrasse giunto il momento propizio per produrre il gran fatto dell’insurrezione dei Romani in nome d’Italia e di Vittorio Emanuele. Ad ottenerlo, assieme ad alcuni amici, mi adoperai con tutte le mie forze. Era, però, indispensabile che il Governo, superata in quel momento della storia nazionale ogni considerazione di partito, vinto ogni pregiudizio, sapesse elevarsi all’altezza di quello.

Ma nessuna intesa era possibile col Governo di Giovanni Lanza. Mai la storia, in un suo gran momento, ebbe più infimi attori quali coloro che reggevano l’Italia quando essa si accingeva a riacquistar la sua Roma. Il Ministero Lanza era quasi interamente composto di uomini imbevuti di idee e di sentimenti gretti ed esclusivisti, propri alla Consorteria Fiorentina; la quale, come già ho notato, dopo la morte di Cavour, avea completamente deformato, nel contenuto e nel metodo, la politica del grande uomo di Stato.

Veramente gli uomini che governavano l’Italia, allo scoppiar della guerra franco-prussiana, erano del tutto incapaci di comprendere e di apprezzare la bellezza del modo in cui noi intendevamo fosse liberata Roma; e di valutare le sue felicissime conseguenze politiche nazionali ed internazionali. Erano, quegli uomini, espressione di un partito che mai sarebbe venuto a Roma senza il pungolo alle reni del Partito di Azione.

Gente la quale, occupata Roma, avrebbe voluto lasciare al Papa Trastevere e Borgo (Città Leonina), nei quali fu sempre vivacissimo il patriottismo. Gente che preferì entrare con effrazione nella futura Reggia dei Re d’Italia. Gli uomini di questo Partito, i quali assai meno per l’Italia avean compiuto [p. 229 modifica]degli uomini degli altri partiti nazionali, e niente sofferto, quando si trattò di riacquistare a quella la propria Capitale, pretesero esclusa ogni iniziativa ed ogni partecipazione di uomini di altri partiti.


Il Governo non soltanto ricusava ogni intesa, ma si adoprava con ogni suo potere ad impedire che altri, a proprio rischio e pericolo, tentasse la minima cosa. Giunse perfino ad impedire a noi emigrati Romani di varcare i confini dello Stato Pontificio, stabilendo la più stretta e rigorosa sorveglianza alle stazioni di confine della ferrovia e lungo tutta la linea di frontiera. Ai prefetti, poi, di Caserta e di Sassari venne ingiunto che badassero bene che Mazzini non fuggisse da Gaeta e che Garibaldi non lasciasse Caprera.

Malgrado tutta la sorveglianza stabilita alla frontiera dal Governo, che avea fatto presidiare le strade da forti posti di Gendarmi e di truppa e stendere fitti cordoni lungo tutta la linea, pochi amici ed io, tutti romani, nei primi giorni di Agosto riuscimmo a sconfinare ed addentrarci nella Campagna Romana. E quivi stemmo quasi due mesi, adoprandoci in ripetuti quanto vani tentativi per entrar in Roma. La Campagna era cosparsa di posti di Gendarmi e di soldati pontifici; notte e giorno grosse pattuglie di fanti e di cavalleria la percorrevano in ogni senso.

Qualche tentativo venne da noi fatto di passar per il Tevere, ma anche questo era guardato severamente. E, bisogna pur dire, che noi eravamo prudentissimi, volevamo riuscire a colpo sicuro, ad ogni costo evitando di cader prigionieri. Riuscivamo a corrispondere con qualche amico di Roma; ma, nella città, dopo Mentana più non vi era rimasta alcuna organizzazione nostra. Vi agiva soltanto, o, meglio non vi agiva affatto, malgrado il lauto sussidio del Governo di Firenze, il famoso «Comitato Nazionale Romano» creatura prediletta della «Consorteria» e fatto a sua immagine e somiglianza.

Per sette settimane, nel cuore dell’estate, i miei compagni ed io, poco più di mezza dozzina, quando separati quando [p. 230 modifica]uniti, vivemmo nella Campagna la vita del bandito, percorrendola evitando le strade maestre ed i rari borghi, cercando il cibo di casale in casale, dormendo sotto i ponti, nelle capanne dei pecorari, non di rado al sereno, con rare ed incerte notizie di quanto avveniva, consumati dal desiderio di entrare nella nostra Roma.


Frattanto il corpo comandato dal Generale Cadorna avea passato il confine e si dirigeva a cinger Roma da più parti, preparandosi ad attaccarla dal lato del tutto opposto a quello da cui, nel ’49, i Francesi con Oudinot l’aveano attaccata. Infatti il maggior nucleo del corpo di Cadorna procedeva da entrambi i lati della Via Nomentana; e su questa era Cadorna e lo Stato Maggiore del Comando.

La situazione mia e dei compagni, con i quali campeggiavo intorno a Roma, era assai migliorata da quando l’avanzarsi del corpo di Cadorna avea obbligato i Papalini a ripiegare su Roma. Tuttavia non eravamo ben sicuri che, se si fossero accorti di noi, anche i Nazionali non ci avessero rimandati indietro.

Avvicinandosi, però, le truppe a Roma ed essendo, ormai, imminente l’assalto, decidemmo di presentarci al Generale Cadorna e, come romani molto pratici di vie e luoghi della città, offrirci per guide che erano necessarie alle truppe attaccanti. Quando fummo alla presenza del Generale, che ci accolse stando in piedi, gli esponemmo il nostro desiderio, aggiungendo che ci sarebbe stato assai caro di essere fra i primi a rientrare nella città dove eravamo nati. Il Generale alquanto ristette prima di risponderci; volse su di noi lo sguardo, scrutandoci uno ad uno, i nostri nomi già conosceva; ed a noi ansiosissimi, con poche e spiccie parole, ma non senza cordialità e simpatia, rispose accettando la nostra profferta. E dette subito ai suoi ufficiali gli ordini necessari.

Erano con me in quell’incontro: il Conte Michele Amadei, Achille Della Bitta, Giuseppe Luciani, Francia, Migliaccio, Ludovisi.

[p. 231 modifica]Il 20 Settembre le operazioni di attacco cominciarono subito dopo le quattro antimeridiane. Le truppe destinate all’assalto si concentrarono di qua dall’Aniene intorno a Santa Agnese. Io era con queste.

Però, impaziente di avvicinarmi alle mura, per non mancar al proposito di essere tra i primi ad entrare in Roma, con qualche compagno, non potendolo per la Nomentana, mi procurai una piccola scala a mano e, precedendo le pattuglie, mi avviai avanti scalando i muri di cinta di vigne e di ville fra Sant’Agnese e Porta Pia.

Ricordo che, scalando un di questi muri di cinta, mi vidi dinanzi una piccola pattuglia di Zuavi Pontifici, i quali, pacificamente seduti intorno ad un tavolo di marmo, se la godevano mangiando un enorme popone. Ad un tratto, però, un degli Zuavi alzando la testa scorse la testa mia che sporgeva dal muro. Mi ammiccò ai suoi compagni, i quali, stimando forse ch’io fossi uno di molti, che stavan per saltare dentro il recinto, in un baleno se ne scapparono da questo. Rimasti padroni del campo e del popone, abbandonatoci dai fuggenti, ci concedemmo una sosta per mangiarcelo noi. Trovammo il popone addirittura delizioso, graditissima ricompensa al nostro bramoso ardore.

Procedemmo, girando attorno a Villa Torlonia, prossima alla città. Presso questa era, nel frattempo, giunta una colonna di soldati al comando del Generale Angioletti che vi sostava, pronta per essere lanciata all’assalto di Porta Pia. Questa era afforzata: con ampi terrapieni e ridotte e difesa anche con cannoni. Ma i cannoni nostri presto cominciarono a batterla fortemente.

I miei compagni ed io ci mettemmo in testa a questa colonna.

Quando venne comandato, arditamente, per la Via Nomentana, muovemmo all’assalto.

Comandava il plotone del 40° Fanteria in testa della colonna [p. 232 modifica]di assalto il Tenente Augusto Valenziani. Era questi romano; avea, credo qual cameriere segreto, appartenuto alla Corte del Papa. Ciò che, però, non gli avea impedito di difendere nel ’49 Roma contro i Francesi; dopo avea emigrato. Alla difesa di Roma ci eravamo conosciuti e fatti amici; da allora non ci si era più visti. Ed, in quella mattina, ci ritrovavamo assieme a liberare la nostra comune città nativa. Fedele al giuramento, ch’io aveva fatto a me stesso, mi misi accanto a Valenziani che stava in testa al suo plotone.

Fra le fucilate dei nemici, che guarnivano i terrapieni avanti la porta sconvolti dalle cannonate, mentre già il sole splendeva in alto, pure sparando, noi avanzavamo a sbalzi, di corsa, ad ogni sosta buttandoci lunghi distesi a terra. Con l’ultimo balzo avanti, di lancio saltammo, mentre qualche soldato cadeva, sul terrapieno dove presto avemmo ragione dei difensori; i quali, sempre combattendo, si ritiravano dentro la prima porta ed andavano a ripararsi dietro altro terrapieno, che sbarrava la seconda delle due porte, di dove ci sparavano addosso. E primi fra tutti, Valenziani ed io, ci cacciammo dietro a questi.

Valenziani era miope e portava occhiali. Mentre sotto il fuoco avanzavamo tra le due porte, mi volsi ad esso chiedendogli: — «Le tue lenti non si son rotte?» Nello stesso istante una palla nella testa me lo faceva cadere morente, senza profferire parola, fra le braccia. Io, perchè non fosse calpestato dai sopravvenienti assalitori, lo trassi da parte, lo appoggiai al muro laterale ed abbracciandolo gli dissi:

— Ringrazia Iddio che ti fa morire così!...

E mi gettai all’assalto.

Saltai, con altri che incalzavano, su la barricata nemica. Così, per la porta, non per la breccia, fui tra i primissimi, se non pure il primo, ad entrare dentro Roma libera.

E con ciò il mio voto era adempiuto!...

[p. I 47 modifica] Porta Pia il 20 settembre 1870. [p. I 48 modifica] Augusto Valenziani