Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XXXV

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Capitolo XXXV

Il «Centro d’insurrezione»

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XXXV.


IL «CENTRO D’INSURREZIONE».


Ai primi del 1867 la Quistione Romana entrava in uno stadio assai acuto e gravido di eventi.

Garibaldi percorreva da un capo all’altro la penisola severamente ammonendo gli Italiani esser loro impreteribile dovere di restituir Roma all’Italia. “Roma o Morte„ era divenuto il grido della più ardente e generosa gioventù italiana.

La «Consorteria», la quale tuttora funestamente incombeva sui destini d’Italia avea Roma sulle labbra, per non rendersi odiosa al paese; ma non l’aveva di certo nel cuore e continuava ad intonare quelli che capeggiavano il «Comitato [p. I 41 modifica] Nino Costa. Leda (paesaggio di Bocca d'Arno) [p. I 42 modifica] Nino Costa. Il Fiume Morto. [p. 185 modifica]Nazionale Romano», facendone sempre più il «Comitato dell’Inazione». Anzi, il ministero Ricasoli avea accresciuto a costoro il contributo mensile del Governo da cinque a dieci mila lire. Le quali venivano dai capi del C. N. R., per la più gran parte, profuse a procurare a se stessi ed ai loro propositi non disinteressati aderenti; per assoldare ai propri servizi anime perse, gente violenta e di tutto capace per denaro, assicurando a se stessi, uomini personalmente imbelli, questi strumenti alle lor passioni ed ai loro interessi personali.

Frattanto la mia posizione si andava facendo ogni giorno più pericolosa in Roma. Da più segni io mi ero accorto, e me lo confermavano segreti avvisi, come la Polizia cominciasse a veder chiaro circa le ragioni della mia permanenza in Roma e circa quanto io stavo facendo. Più tardi io ero, pure, avvertito come la Polizia avesse deliberato il mio arresto. E lo avrebbe anche eseguito se qualche prova a mio carico avesse potuto legittimarlo.

Ma io avevo agito sempre con la testa sulle spalle; e le poche persone di cui mi ero fidato erano gente a tutta prova, incapace di tradirmi come di fatti non mi tradì. Nè io ero una persona qualunque che la Polizia potesse arbitrarsi a mandare alle Carceri Nuove od a Castel Sant’Angelo, come avea praticato con troppi altri, senza punto preoccuparsi di possedere prove a loro carico. Io appartenevo a cospicua e potente famiglia romana, avevo io stesso moltissime amicizie ed aderenze mie personali anche fra personalità straniere; le quali indubbiamente si sarebbero interessate di me ed avrebbero strillato forte; la stampa del Regno e straniera, sopratutto britannica, si sarebbe molto occupata dei fatti miei. Il mio arresto avrebbe prodotto troppo clamore. Non avendo, il Governo Pontificio, di che tappar la bocca a tutti, qualunque cosa ritenesse sul conto mio, avea convenienza a lasciarmi in pace.

Così, infatti, fece. Ma io me ne stetti del continuo in allarmi; e cominciò per me quel lungo periodo di tempo in cui mi toccò dormire con un occhio solo. E tanto più che mi [p. 186 modifica]poteva accadere anche assai di peggio, non essendo a me solo nemico il Governo del Papa, nè il peggiore.


Il tempo dell’azione si andava maturando. Nei centri dell’emigrazione romana nel Regno si era impazienti e ad agire si spingeva; l’agitazione garibaldina per Roma o Morte, sempre più ingrossava. Era chiaro che, a tutto ciò, dovesse corrispondere un movimento altrettanto vivace e deciso dentro Roma; nè dovea lasciarsi l’iniziativa dell’azione al Comitato mazziniano, isolato nel suo rigido repubblicanesimo.

A Firenze l’emigrazione avea formato una sua rappresentanza detta «Centro di Emigrazione», la quale dovea unificare l’azione politica, procurar sussidi, ecc. Dello stesso faceano parte non pochi deputati della Sinistra, tra i quali ricordo Benedetto Cairoli, Francesco Crispi e Nicola Fabrizi.

Perchè Roma non fosse inferiore alle necessità della grande ora che si andava avvicinando, io nei primi giorni del marzo 1867 vi fondai il «Centro di Insurrezione».

Roma non poteva essere liberata con altro mezzo all’infuori di un movimento insurrezionale di Romani, nella stessa città. Così solo avrebbe potuto Roma imporsi alle potenze cattoliche ed alla stessa Francia di Napoleone III; ed avrebbe dato all’Italia di Vittorio Emanuele II ragione di intervenire nella città. Questo era riconosciuto dalla stessa «Consorteria» per bocca del suo Ricasoli che le avea dato la parola d’ordine in proposito: «Non un altro Aspromonte!...» Però, mentre questo atteggiamento avea palesemente, nel fatto, con i suoi strumenti dentro Roma, si sforzava ad impedire che i Romani potessero insorgere, raggiungendo, col solo mezzo da tutti riconosciuto efficace, la loro liberazione. Essa, la «Consorteria», fu causa del fallimento della insurrezione di Roma, di Villa Glori e dell’intervento francese, come di Mentana.

Il mio «Centro di Insurrezione», quindi, rispondeva ad una assoluta necessità per liberare Roma. Aggiungendo la sua molta [p. 187 modifica]maggior forza a quella del «Comitato d’Azione» mazziniano, chiamando nelle sue fila i Romani più ardenti, coloro tra essi i quali veramente volevan disfarsi del dominio papale e dar Roma all’Italia. Scopo del nuovo organo era, infatti, solo quello di preparare gli animi ed i mezzi alla più pronta possibile insurrezione di Roma. Debbo ricordare, perchè questo fa onore ai Romani, come la massima parte di coloro che erano inscritti al «Comitato Nazionale Romano» passassero al «Centro di Insurrezione», manifestando con ciò il loro anelito di libertà, la lor devozione alla Patria. E non furono pochi, nè lievi, gli odii che questo mi guadagnò.

L’azione del «Centro di Insurrezione» era alimentata con fondi raccolti da contribuzioni volontarie; ed anche a questo i Romani, e per la massima parte gente modesta di mezzi, non furono avari. Costa Castrati, che fu il nostro tesoriere, versava per parte sua un lauto contributo mensile alla Cassa Insurrezionale: io versavo, in più di quello che mi trovavo a dover spendere personalmente, agli stessi scopi, lire tremila al mese. Tra il ’64 ed il ’67 nella mia azione di cospiratore per Roma, io consumai la massima parte del patrimonio lasciatomi da mio padre. Non l’ho mai rimpianto, nè lo rimpiango. L’Arte mia mi dava e mi dà di che provvedere ai bisogni della famiglia che, liberata Roma, io mi formai.

La fiducia in me stesso mai mi ha abbandonato.

Molto numerose erano le esigenze verso il fondo rivoluzionario. Si doveano provvedere armi e munizioni, si doveano pagar viaggi e spese a compagni ed emigrati, si dovean far circolari e stampati volanti .per mantener vivi gli animi ed orientar l’opinione, come per informare esattamente; si dovea tener una vasta corrispondenza clandestina. Una grossa uscita costituivano le spese per un largo servizio segreto di informazione su ciò che si faceva nelle sfere governative.

Nostro proposito era di preparare e compier l’insurrezione dei Romani in accordo con la spedizione di Garibaldi. Dovevamo esser noi ad aprir ad esso ed ai suoi volontari le porte [p. 188 modifica]della nostra città. Dietro di lui sarebbe venuto l’Esercito Nazionale con re Vittorio. Nella storia così avrebbe figurato più bella la liberazione di Roma e la sua restituzione all’Italia. Questo volevamo fare. Questo potevamo ottenere. Questo ci venne deliberatamente impedito.


Io non mancai di far conoscere a Garibaldi quanto noi del «Centro di Insurrezione» intendevamo di fare. Ed egli comprese e pienamente approvò. Ma non gli tacqui che se noi potevamo far assegnameuto sulla cooperazione del «Comitato di Azione» di Mazzini, avevamo, però, ostilissimi coloro che aveano avuto sino a poco prima il mestolo in mano nelle cose romane; che, nella realtà, essi giammai si sarebbero sinceramente acconciati alla attuazione di un programma che guastava le cose loro e dei fiorentini al Governo, con cui se la intendevano tanto; ed i quali aborrivano un fatto che avrebbe scemato il prestigio del loro partito.

Quando cadde il ministero Ricasoli e venne sostituito da quello del Rattazzi, che si annunciava per la Quistione Romana sì diverso da quello — ed era una illusione, perchè Rattazzi era, ancor più forse del Ricasoli, sotto l’influenza di Parigi — io non mancai di avversare presso lo stesso il Comitato Nazionale Romano raccomandando, fra l’altro, che si togliesse allo stesso il contributo mensile di diecimila lire, assai cospicua somma in quel tempo; il quale, in realtà, veniva speso per scopi del tutto contrari a quelli per i quali si credeva, generalmente, venisse dato. Questa mia azione si riseppe e l’odio contro di me divenne, in quei concittadini, da vivo che già era, addirittura mortale.

Nel tempo stesso, per la Quistione Romana, equivocamente si agitava Giuseppe Luciani emigrato romano, uomo audacissimo e senza scrupoli, morto in galera per l’assassinio di Raffaele Sonzogno. Egli teneva corrispondenza in Roma con uomini della sua stessa risma, scorie sociali che vengono fuori sempre, fra mezzo agli eroi, anche nelle più nobili delle [p. 189 modifica]rivoluzioni. Qualche brava persona, fra loro, ma fatta cieca dal fanatismo. Gente che si può anche adoprare, ma che deve esser sorvegliata e diretta, e non mai lasciata fiduciosamente agire indipendente. Io volli, pure su questa gente, in seguito, mettere in guardia Garibaldi. Ma non giunsi in tempo.

Andato a trovarlo a Vinci, sopra Empoli, patria di Leonardo, ove esso dimorava ospite nella Villa dei Martelli, mentre io entravo dal Generale, Giuseppe Luciani ne era uscito poco prima e scendeva il colle recando seco fondi e, peggio ancora, credenziali per Roma, che Garibaldi, troppo fiducioso, gli avea dato.

II mio avversare le due correnti, mi valse che l’odio votatomi giunse alle maggiori estremità negli uni e negli altri. Tanto che da più parti venni avvisato che entrambe le tristi congreghe avevano stabilito di sopprimermi ed aveano disposto tutto per farmi far la festa. Quasi contemporaneamente venni a conoscere che la Polizia avea deciso di arrestarmi a qualunque costo. Ed, al punto a cui s’era giunti, non poteva essere dubbia la mia sorte, se qualche santo non mi aiutava.


Ma non era davvero il momento, per me, di abbandonar la partita.

Comunque dovetti adoprar in modo che apparisse che io avessi lasciata Roma. Dovevo, per poter continuar l’opera mia sempre più necessaria, salvarmi dai pugnali dei nemici e dalle manette papali. Rimasi clandestino, continuamente fuggiasco nei più diversi travestimenti. Ero tanto serrato dappresso che, più di una volta, fui ad un pelo di esser colto. In pochi mesi io passai la notte in quarantasette diversi luoghi. Finalmente mi sentii sicuro in una camera al di sopra del mio studio di Via Margutta, dove, per due volte, tornò a far le sue solite e balorde sorprese in grande apparato la Polizia, mentre io tranquillamente me la dormiva di sopra. Per fortuna i poliziotti papalini, se erano ferocemente accaniti, erano però di poca accortezza. E non mancava per me di un certo romantico interesse questo mio continuo sfuggire a sbirri ed a sicarii. lo [p. 190 modifica]ebbi anche la gran fortuna di avere intorno gente assai fidata. Amici di ogni classe sociale, molti popolani: non un traditore!... Il portiere dello stabile nel quale si trovava il mio studio in Via Margutta, certo Michele Santolamazza, sua moglie e sua figlia mi furono preziosi e resero non pochi intelligenti e fedeli servigi, durante molti anni, alla causa della libertà di Roma.


Ma, a salvarmi da tanti pericoli, nei quali avrei molto probabilmente finito per lasciar la pelle, venne pure assai propizia una gravissima malattia. L’umidità di un muro fresco di uno dei tanti miei rifugi, nel quale avevo dormito più notti, acutizzò l’artrite di cui ho tanto nella mia vita sofferto. Per curarmi mi nascosi in casa di mia nipote Adele Narducci; medico mi fu il solito omeopatico dottor Ladelci.

Guarii abbastanza presto ed incontratomi in un dei nostri, certo Morelli, che non avea saputo più nulla di me, nel rivedermi mi abbracciò commosso ed estremamente maravigliato di vedermi vivo. Egli che sapeva quanto fossi esecrato dai nemici politici e come questi me l’avessero giurata, la mia scomparsa avea seriamente attribuito alla criminosa opera di questi.

Con altri amici mi avea pianto morto. E mi disse tutto lieto:

— La tua artrite ti ha salvata la vita!... Tutto il male non vien per nuocere.