Racconti fantastici (Nodier)/Tesoro delle fave e fiore de' piselli
Questo testo è completo. |
◄ | Del fantastico in letteratura | Il sogno d'oro | ► |
RACCONTI FANTASTICI
TESORO DELLE FAVE
E
FIORE DE’ PISELLI
RACCONTO DELLE FATE.
Tutto quello che la vita ha di positivo e malvagio, |
C’era una volta un pover’uomo e una povera donna molto vecchi o che non avevano mai avuto figli, il che ora un gran dolore per essi, perchè prevedevano che fra qualche anno essi non avrebber più potuto coltivare le loro fave e andarle a vendere al mercato. Un giorno, in cui sarchiavano il loro campo di fave (era con una capannuccia tutto quanto possedevano, e io sarei contentone se avessi tanto) un giorno, dico, che essi sarchiavano per estirpare le male erbe, la vecchia scoperse in un canto, sotto il cespo più folto un fagottino molto ben fatto contenente un bellissimo bambino all’aspetto di otto o dieci mesi, ma che aveva almeno due anni per la ragione che egli era di già slattato. Tanto vero che non fece punto smorfie per accettare delle fave bollite ch’egli portò subito alla bocca in modo molto delicato. Quando per le esclamazioni di lei il vecchio corse dall’estremità del campo, e quando a sua volta ebbe guardato il bel bambino mandato dal loro buon Dio, il vecchio e la vecchia si misero ad abbracciarsi piangendo di gioia; poi fecero presto per ritornare alla capanna, poichè la guazza che s’abbassava, poteva nuocere al loro bimbo.
Quando furono di ritorno al focolare, provarono un altro contento; poichè il loro piccino tendeva le braccia Con un riso affascinante e li chiamava mamma e babbo come non ne avesse conosciuto altri. Il vecchio lo pigliò dunque sulle ginocchia e ve lo fece saltare dolcemente come le signorine che passeggiano a cavallo, dicendogli mille parole graziose, a cui il bambino rispondeva a modo suo per non essere in debito col vecchio in una conversazione tanto gentile. E nel frattempo la vecchia accese una bella fiammata di gusci di fave secche che rischia rava tutta la casa, per rianimare le piccole membra del nuovo venuto con un dolce calore, e preparargli un’eccellente pappa di fave in cui sciolse una cucchiaiata di miele che la fece un cibo delizioso... Poi coricò il bimbo avvolto nelle fasce di tela fina molto belle, sulla migliore cuccetta di paglia di fave che vi fosse in casa, perchè questa povera gente non ne conosceva l’uso delle piume e del piumino. Il bimbo vi si addormentò, saporitamente. Quando il piccino fu addormentato il vecchio disse alla vecchia. Una cosa m’inquieta, ed è il sapere come chiameremo questo angioletto, chè nè conosciamo i suoi parenti nè sappiamo da dove venga.
La vecchia, che aveva dello spirito, quantunque non fosse che una povera campagnola, rispose subito: Bisogna chiamarlo Tesoro delle Fave, perchè è nel nostro campo di fave che ci è venuto; ed è un vero tesoro perchè consolerà i nostri ultimi giorni. E il vecchio convenne che non potevasi immaginare di meglio.
Non vi dirò minutamente come trascorsero i giorni e gli anni seguenti, perchè ciò allungherebbe di molto la storia. Vi basti sapere che i vecchi vegliarono sempre intanto che Tesoro delle Fave cresceva a vista d’occhio sempre più bello. Non è ch’egli avesse ingrandito di molto: a dodici anni egli non era alto più di due piedi e mezzo; e quando lavorava nel campo di fave, che egli amava molto, voi l’avreste appena scorto dalla strada. Ma egli era così ben formato nella sua personcina, così avvenente d’aspetto e di fattezze, così dolce e tuttavia si risoluto nel parlare, così attillato nel suo gabbano celestino colla cinta rossa, e sotto il suo fino berretto delle domeniche coi pennacchi di fiori di fave, che non si poteva a meno di ammirarlo come un vero miracolo di natura, sicchè v’eran molti che lo credevano un genio o una fata.
Bisogna confessare che molte cose davano credito a questa supposizione del popolino. Prima di tutto la capannuccia e il suo campo di fave dove una vacca in addietro avrebbe trovato appena da brucare, erano diventati uno de’ più bei poderi del luogo, senza che se ne potesse dir come; perchè niente è più naturale del veder de’ gambi di fave germogliare e fiorire e delle fave maturar nel loro guscio; ma veder un campo di fave che ingrandisce senza che se nc sia aggiunto nulla per acquisto o per usurpazione fatta iniquamente sui poderi altrui, è di gran lunga superiore alla nostra intelligenza. E tuttavia il campo di fave s’andava ogni giorno allargando a mezzodì, allargando a nord, allargando a mattina, allargando a ponente ed i vicini avevano un bel misurare le loro terre dal conto essi risultavano sempre beneficati d’una pertica o due, di maniera che finirono naturalmente a credere che tutto il paese era in aumento.
D’altronde il campo era così fecondo che la capannuccia non avrebbe potuto contenerne la raccolta se non la si fosse notabilmente ingrandita; eppure la raccolta di fave era andata a male dà per tutto, a più di cinque leghe all’intorno, ciò che le rendeva carissime pel grande uso che di esse si faceva alla tavola dei ricchi e del re. In mezzo a quest’abbondanza, Tesoro delle Fave bastava a tutte le faccende, e rivoltando la terra, cernendo le sementi, mondando le piante, sarchiando, zappando, mietendo, sbaccellando e per di più conservati io accuratamente le siepi e le chiuse; e nel resto della giornata trattava coi compratori e regolava la vendita, perchè egli sapeva leggere, scrivere, conteggiare senza nulla aver appreso da alcuno, insomma egli era una vera benedizione.
Una notte mentre Tesoro delle Fave dormiva, il vecchio disse alla vecchia; — Ecco Tesoro delle Fave ci ha recato de’ vantaggi, poichè ne ha posti in grado di passar dolcemente i nostri ultimi anni senza lavorare. Facendolo erede di quanto possediamo, non avrem fatto che rendergli ciò che già gli appartiene; ma saremmo ingrati verso il buon figliuolo se non ci studiassimo di procurargli nella società una condizione più stimata di quella da mercante di fave.
«È ben da lamentare che egli sia troppo modesto per aver la laurea di dottore nell’università e una figura troppo piccola per essere generale.
— È un peccato, disse la vecchia, che egli non abbia studiato per imparare il nome latino di cinque o sei malattie; lo riceverebbero subito per medico.
— Quanto alle liti, continuò il vecchio, credo ch’egli non abbia troppo spirito, troppo buon senso perchè arrivi mai a comporne una sola. Notate che non si erano ancora inventati i filantropi.
— Ho sempre fissa in testa, riprese la vecchia che a tempo opportuno sposerà Fior de’ Piselli.
— Fior de’ Piselli, disse il vecchio crollando il capo, è troppo grande principessa per isposare un povero trovatello il cui patrimonio non si comporrà che di una capanna e d’un campo di fave. Fior de’ Piselli, mia cara, è partito per il sottoprefetto o per il procuratore del re, o fors’anche per lo stesso re se diventasse vedovo. Qui si parla di cose gravi, e voi non siete ragionevole.
— Tesoro delle Fave è più che noi due insieme, rispose la vecchia, dopo aver un pochino riflesso.
«D’altronde è un affare che riguarda lui solo, e sarebbe mal fatto spingere la cosa senza consultarlo.
Ciò detto il vecchio e la vecchia s’addormentarono profondamente.
Il giorno cominciava a spuntare, quando Tesoro delle Fave balzò dal letto per andare secondo il solito al campo, e fu molto stupito di non trovare che i suoi abiti festivi nel baule nel quale aveva riposto gli altri egli stesso prima di coricarsi.
— Eppure oggi è giorno di lavoro dovunque, se il calendario non isbaglia disse fra sè. Bisogna che mia madre abbia da festeggiare qualche santo di cui non abbia udito parlare in tutta la mia vita, per avermi preparato durante a notte il mio bel gabbano e il berretto di gala. Che sia fatto intanto come ella lo desidera, poichè in nulla la vorrei contrariare stante la sua età gravissima e, perchè il tempo perduto potrò ricuperarlo facilmente durante la settimana, levandomi più presto e tornando più tardi. Perciò Tesoro delle Fave s’abbigliò più galantemente che potè, dopo aver pregato Dio per la salute de’ suoi parenti e la prosperità delle sue fave.
Mentre si disponeva a uscire, non foss’altro che per dare un’occhiata alle sue siepi prima dello svegliarsi della vecchia e del vecchio, egli incontrò lei sulla porta, che portava un buon brodo ancor fumante, e lo pose sulla piccola tavola con un cucchiaio di legno: — Mangia, mangia, gli disse ella, non ti privare di questo brodo col miele e un tantino d’anice verde come l’amavi quand’eri bambino; perchè tu hai molto, ma molto cammino da percorrere, oggi.
— Questa è bella! disse Tesoro delle Fave, guardandola con aria stupita; ma dove mi mandate oggi?
La vecchia sedette sur un panchettino, e colle mani sulle ginocchia rispose ridendo: Nella società, Tesoretto mio, nella società! Tu finora non hai visto altro che noi e due o tre cattivi rivenduglioli, ai quali vendi le fave per provvedere alle spese della casa da quel bravo figliuolo che sei; ma siccome un giorno, se il prezzo delle fave si sostiene, sarai un gran signore, è necessario, piccino mio, che tu faccia delle conoscenze nella grande società. Bisogna che ti dica ohe vi è una grande città a tre quarti di lega di qua, dove s’incontrano ad ogni piè sospinto dei signori con abiti d’oro e delle dame con vesti d’argento e mazzi di rose tutt’in giro.
La tua piccola figura così graziosa e si sveglia non mancherà di colpire d’ammirazione; e io sarei molto sorpresa se la giornata passasse senza che o in corte, o negli uffici, tu non ottenessi una di quelle professioni onorevoli con cui molto si guadagna e non si lavora. Mangia dunque, mangia, carino, e non ti privare di questo brodo col miele e un tantin di anice verde.
Siccome tu conosci meglio il valor delle fave che quello delle monete, continuò la vecchia, tu venderai sul mercato questi sei quartucci scelti e molto abbondanti.
«Non ne misi di più per non caricarti troppo, ma son tanto care le fave che sarai ben imbarazzato di portarne il prezzo se ti pagassero tutto in oro. Intendiamo poi io e tuo padre, che tu ne impieghi una meta nello sollazzarti onestamente, come si conviene alla tua età, o nella compera di qualche gioiello squisitamente lavorato proprio a ricrearti alla domenica, come un orologio d’argento con ciondoli di rubino o di smeraldo, balocchi di avorio e trottole di Norimberga. Il resto della somma depositerai alla cassa.
«Va dunque, tesoretto mio. poichè hai bevuto il tuo brodo, e bada a non perder tempo a rincorrere le farfalle, poichè noi morremmo di dolore se tu non fossi ritornato prima di notte. Tien sempre la strada maestra e guardati dai lupi.
— Voi sarete obbedita, mamma, rispose Tesoro delle Fave abbracciando la vecchia; quantunque amassi meglio di passar la giornata al campo. Quanto ai lupi, io li ucciderò col mio zappino bidente.
Ciò detto, appese bravamente alla cintura la sua arma e parti con passo risoluto.
— Ritorna di buon’ora; gli gridò a lungo la vecchia, cui doleva già d’averlo lasciato partire.
Tesoro delle Fave camminò, camminò, facendo delle terribili sgambate, come un uomo di cinque piedi, e guardando di qua e di là, le cose d’apparenza a lui sconosciute che si trovavano lungo la via: poichè non aveva pensato mai che la terra fosse così grande e così curiosa.
Però quand’ebbe camminato più d’un’ora, il che arguiva dall’altezza del sole, stupito di non essere ancora alla città, dal passo svelto tenuto fin allora, gli sembrò che gli si gridasse:
— Bu, bu, bu, bu, bu, bu, tuì! fermo, signor Tesoro delle Fave, ve ne prego! — Chi mi chiama? disse Tesoro delle Fave, mettendo fieramente la mano sullo zappino.
— Per carità, fermatevi, signor Tesoro delle Fave! bu, bu, bu, bu, bu, bu, tui! son io ohe vi parlo.
— Davvero?! disse Tesoro delle Fave, volgendo lo sguardo sulla sommità di un pino vecchio, cavernoso e mezzo morto, sul quale un mastro barbagianni si cullava goffamente al soffio del vento: e che abbiamo noi a districare insieme, mio bell’uccello?
— Mi stupirei che mi aveste a riconoscere, replicò il barbagianni, poichè io v’ho reso servizio, ma a vostra insaputa, come deve fare un barbagianni delicato, modesto e dabbene; e ciò mangiando a uno a uno, con mio rischio e pericolo, le canaglie di topi, che rosicchiavano su per giù la metà del vostro raccolto ogni anno; ed è appunto per questo servigio che il vostro campo vi procura oggi di che comprare in qualche parte un piccolo regno se vi sapete contentare. Quanto a me, vittima infelice e disinteressata della devozione non ho pur un miserabile topo, essendosi i miei occhi talmente indeboliti al vostro servizio che a pena posso dirigermi anche di notte. Vi chiamai dunque, generoso Tesoro delle Fave, a fine di pregarvi che vogliate concedermi uno di questi buoni quartucci di fave che portate appesi al vostro bastone e che basterà a sostentare la mia triste esistenza fino alla maggiorità del mio primogenito che potete contare per vostro fedele.
— Questo, signor barbagianni, gridò Tesoro delle Fava distaccando dall’estremità del bastone uno dei tre quartucci di fave che gli appartenevano, è il debito della riconoscenza ed io ho il piacere di soddisfarlo.
Il barbagianni calò abbasso, prese cogli artigli e col becco il quartuccio e con un colpo d’ala lo portò sull’albero.
— Oh, come volate via presto! riprese Tesoro delle Fave.
«Posso chiedervi signor barbagianni, se sono ancora lontano dalla città, ove mia madre m’invia?
— State per entrarvi, amico mio, disse il barbagianni; e andò ad appollajarsi altrove.
Tesoro delle Fave si rimise in cammino alleggerito di uno dei suoi quartucci di fave ma quasi sicuro che non l’andrà molto a giungere alla meta; ma non aveva ancor fatti cento passi che si sentì chiamar di nuovo:
— Beeh, beeh, beeh, beeh! Fermatevi, signor Tesoro delle Fave, ve ne prego, — Credo di conoscere questa voce, disse Tesoro delle Fave, rivolgendosi. Oh, sì davvero! è quella cattivella sfrontata della capretta montanara che gironzava sempre intorno al mio campo co’ suoi piccini per rapirmi qualche buon boccone, Eccovi dunque, signora ladruncola.
— Che parlate voi di rubare, bel Tesoro! ah le vostre siepi sono troppo folte, i vostri fossi troppo profondi e le vostre chiuse troppo serrate per questo! Tutto ciò che si poteva fare era di brucar le cime di qualche foglia che se ne usciva tra le giunture del graticcio; e ciò con grande beneficio delle piante che noi rimondiamo, come dice un proverbio volgare: «Dente di montone porta danno; dente di capretta abbondanza».
— Basta, basta! esclamò Tesoro delle Fave, e il male che vi ho desiderato possa capitar subito a me! Ma che avete per fermarmi e che potrei fare che vi fosse grato, signora capretta?
— Ahime! rispose costei, versando dei lagrimoni… Bee, bee, beeeee!… Gli è per dirvi che un tristissimo lupo ha divorato mio marito, il capretto, e che l’orfanella e me siamo nella più squallida miseria, dopo che il poverino non va più a foraggiare per noi, di guisa che la disgraziata capretta è in procinto di morire di fame se voi non l’aiutate, io vi chiamavo adunque, nobile Tesoro delle Fave, a fine di pregarvi di darci in carità uno di questi buoni quartucci di fave che portate appesi al vostro bastone e che basterebbero a confortarci mentre attendiamo i soccorsi dei nostri parenti.
— Ecco, signora Capretta, gridò Tesoro delle Fave, distaccando dalla punta del bastone uno dei quartucci di fave che ancora gli appartenevano ; questa è opera di beneficenza e di pietà che mi onoro di compiere.
La capretta afferrò il quartuccio colla punta delle labbra, poi con un balzo disparve dalla macchia.
— Oh come ve ne andate presto! riprese Tesoro delle Fave. Potrei chiedervi, vicina mia, se sono ancor lontano dal luogo dove mia madre mi manda?
— Voi ci siete di già, gridò la capretta internandosi nei cespugli.
E Tesoro delle Fave si rimise in cammino alleggerito di due quartucci di fave, cercando collo sguardo le mura della città; quando s’accorse da certo rumore che si faceva sul margine del bosco di essere pedinato.
S’avanzò tosto da questo lato col suo zappino aperto in mano; e buon per lui perchè, il compagno che lo scortava cautamente altri non era che un vecchio lupo, la cui fisonomia non prometteva nulla di grazioso.
— Siete dunque voi, bestia maligna, disse Tesoro delle Fave, che mi riservate l’onore di figurare alla vostra cena? Fortunatamente il mio zappino ha due denti che ben valgono tutti i vostri senza farvi torto; e bisognerà che teniate per detto, compar mio, che oggi voi cenerete senza di me. E chiamatevi anche avventurato, se v’accomoda che non vendichi sul vostro villano corpaccio, il marito della capretta, il padre della caprettina, e la cui famiglia è ridotta per la vostra crudeltà in una desolante miseria. Lo dovrei forse e lo farei se non fossi educato all’orrore del sangue fino al punto di risparmiar quello d’un lupo.
Il lupo che tutto aveva ascoltato, umilmente, levando gli occhi al cielo come per chiamarlo in testimonio, uscì in una lunga e lamentevole esclamazione:
— Potenza divina, che m’avete dato abito da lupo, disse singhiozzando, voi sapete se nel mio cuore ho nutrito mai delle malvagie inclinazioni! Voi siete padrone tuttavia, monsignore, aggiunse fiducioso colla testa rispettosamente tesa verso Tesoro delle Fave, di disporre della mia triste vita, che rimetto nella vostre mani, senza paura e senza rimorsi. Morirò contento per mano vostra, se vi piace immolarmi in espiazione dei delitti pur troppo accertati della mia razza, poichè io vi ho sempre amato teneramente e perfettamente onorato, dal tempo in cui pigliavo un dolce piacere di accarezzarvi nella culla, mentre la signora vostra madre era fuor di casa. Voi foste fin d’allora di così buono e maestoso aspetto che, vedendovi appena si sarebbe indovinato, che sareste diventato un principe possente e magnanimo come siete. Vi prego soltanto di credere, prima di condannarmi, che io non ho mai lordate le mie zampe sanguinose nell’assassinio dello sfortunato sposo della capretta. Allevato nei principii di astinenza e di moderazione, a cui non derogai in tutta la mia vita da lupo, io era allora in missione per ispargere le sante dottrine della morale fra le tribù lupesche che appartengono alla mia comunità per ritornarle man mano coll’insegnamento e coll’esempio alla pratica del regime frugale che è lo scopo essenziale della perfettibilità dei lupi. Io vi dirò di più, monsignore, lo sposo della capretta fu amico mio, accarezzavo in lui delle felici disposizioni e viaggiavamo sovente insieme, discorrendo alla buona, poiché egli aveva molto spirito naturale e gusto ad imparare. Una maledetta questione di precedenza (voi sapete quanto il carattere della sua nazione è permaloso a questo riguardo) cagionò la sua morte, me assente, ed io non me ne sono ancora consolato!
E al vedere, il lupo piangeva di tutto cuore nè più nè meno della capretta.
— Voi però mi seguivate, disse Tesoro delle Fave, senza rimettere le doppie punte dello zappino.
— È vero, monsignore, rispose il lupo , ridendo sotto i baffi, vi seguivo nella speranza di interessarvi per le mie dottrine benevoli e filosofiche in qualche luogo più conveniente alla discussione.
Lasso! dicevami, se monsignor Tesoro delle Fave, la cui riputazione è sì grande e così accreditata nel paese, volesse contribuire da parte sua alla buona riuscita del mio disegno di riforma, se ne avrebbe ora una bella occasione; garantisco io che ciò non gli costerà che uno dei quartucci di buone fave che porta appeso al suo bastone per allettare una vera table d’hóte di lupi, di lupe e di lupicini alla vita granivora e per salvare delle innumerevoli generazioni di caprette e di capretti, di caprettini e di caprettine.
— È l’ultimo de’ miei quartucci, pensò Tesoro delle Fave, ma che n’ho io a fare dei balocchi, dei rubini e delle trottole? e che ò mai un piacere infantile in confronto di una buona azione?
— Ecco il tuo quartuccio di fave! gridò egli staccando dalla cima del bastone l’ultimo quartuccio che sua madre avevagli dato pe’ suoi minuti piaceri, ma senza chiudere il suo bidente. E il resto del mio patrimonio, aggiunse, ma non provo rammarico a privarmene; anzi ti sarò riconoscente, amico lupo, se ne farai il buon uso che mi hai detto.
Il lupo vi ficcò dentro i suoi artigli e lo portò d’un tratto verso la sua tana.
— Oh come partite in fretta replicò Tesoro delle Fave. Potrei chiedervi messer lupo se sono lontano dalla città dove mia madre mi mandò?
— Tu ci sei da gran tempo, rispose il lupo, ridendo e tu vi resterai ben mille anni senza veder altro che quel che hai visto.
Allora Tesoro delle Fave si rimise in cammino alleggerito de’ suoi tre quartucci di fave e cercando sempre nello sguardo le mura della città che non si mostravano mai, e già cominciava a cedere alla stanchezza e alla noja, quando delle grida acute che partivano da un piccolo sentiero remoto, risvegliarono la sua attenzione. Egli accorse al rumore.
— Che c'è? disse colla sua arma in mano, e chi abbisogna di soccorso? parlate, poiché non vi vedo.
— Son io, signor Tesoro delle Fave, rispose una vocina dolcissima, è Fior de’ Piselli che vi prega di liberarla dall’imbarazzo in cui si trova; non c’è che di volere, senza che v’abbia a costare.
— Eh veramente, signora, io non uso badar quanto mi costerà il far piacere. Potete disporre di tutto quello che ho del mio, eccetto i tre quartucci di fave che porto appesi al mio bastone, perchè non appartengono a me, ma a mia madre e a mio padre e ho dato or ora i miei a un venerabile barbagianni, a un sant’uomo di lupo che predica come un eremita o alla più interessante deile caprette montanare; sicché non mi resta neppure una fava da potervi offrire.
— Voi celiate! riprese Fior de’ piselli un po’ piccata. Chi vi parla delle vostre fave, signore? non ho bisogno dello vostre fave, grazie a Dio, non saprei a che servirebbero. Il favore che vi chiedo si è di mettere il dito sul bottone del mio calesse per alzarne il buffetto, sotto il-quale sto per soffocare.
— Non cercherei di meglio, signora, ripigliò Tesoro delle Fave, se avessi l’onore di vedere il vostro calesse di cui non vi ha ombra in questo sentiero che mi parrebbe d’altronde poco viabile pei cocchi. Pure non andrà molto a scoprirlo, perché vi sento vicinissima.
— E che! esclamò ella scoppiando in una risata, voi non vedete il mio calesse! correte rischio di schiacciarlo correndo come uno stordito! vi sta dinanzi, amabile Tesoro delle Fave, ed è facile riconoscerlo dalla sua apparenza elegante che assomiglia ad un cece.
— Talmente l’apparenza d’un cece, mormorò Tesoro delle Fave, accoccolandosi, che mai e poi mai avrei da me potuto vedere in esso altro che un cece.
Non per tanto un’occhiata bastò a Tesoro delle Fave per accorgersi che esso era un grossissimo cece più rotondo d’un arancia e più giallo d’un limone sostenuto da quattro ruoticine d’oro e munito di un elegante valigia fatta con un guscio di pisello verde e lustro come un marocchino.
Egli mise subito la mano sul bottone e la portiera si apri.
Fior de’ Piselli ne zampillò come un grano di balsamino, e cadde lesta e giuliva sui talloni. Tesoro delle Fave si rialzò attonito, poichè mai nulla aveva immaginato di bello come Fior de’ Piselli. Era infatti il visuccio più compito che un pittore possa trovale: occhi lunghi come mandorle, violetti come le barbabietole, dagli sguardi acuti come lesine e una bocca fine e scherzosa che non ischiudevasi che per iscoprire dei denti bianchi quanto l’alabastro e lucenti come lo smalto. Il suo vestito corto, un po’ rigonfio, chiazzato di fiamme rosee come i fiori che spuntano sui piselli, arrivava appena a metà delle gambe ben tornite coperte da calze bianche di seta piene, come se a infilarle si avesse adoperato l’argano, e terminate da piedini gentili che non si poteva vederli senza invidiare la felicità del calzolaio che li aveva di sua mano imprigionati nel raso.
— Di che ti stupisci? disse Fior de' Piselli. — Ciò che prova, fra parentesi che in quel momento Tesoro delle Fave non aveva l’aria gran fatto spiritosa. Tesoro delle Fave arrossì; ma si rimise ben tosto.
— Stupisco, rispose modestamente, che una principessa tanto bella e press’a poco della mia statura abbia potuto stare in un cece.
— Mal a proposito, disprezzate il mio calesse, riprese Fior de’ Piselli. Quand’è aperto vi si viaggia comodissimamente; ed è un caso che non vi sia stato anche il mio grande scudiero, il mio elemosiniere, il mio governatore, il mio segretario dei decreti e due o tre delle mie ancelle. Amo però passeggiare sola, e questo capriccio mi valse l'accidente or ora accadutomi. Non so se in società avete incontrato mai il re dei Grilli, un tipo riconoscibilissimo alla sua maschera nera e pulita, come quella di Arlecchino, a due coma dritte e mobili e a certa sinfonia di pessimo gusto con cui usa accompagnare ogni minima parola. Il re dei Grilli mi faceva la grazia d’amarmi, egli non ignorava che la mia minorità scade oggi e che è uso delle principesse della mia casa di pigliar marito a dieci anni. Egli si è dunque trovato, secondo il solito sulla mia strada per importunarmi col baccano infernale delle sue risonanti dichiarazioni, ed io gli risposi come al solito chiudendomi le orecchie!
— Oh felicità! esclamò incantato Tesoro delle Fave, voi non sposerete il re dei Grilli!
— Io non lo sposerò, rispose Fior de’ Piselli con dignità. La mia scelta era fatta.
Appena gli fu nota la mia risoluzione, l’odioso Cri-Cri (è il nome di questo monarca) si slanciò con un salto sulla mia carrozza, come avesse voluto divorarla e ne fece brutalmente cadere il buffetto.
Maritati ora, mi disse, impertinente smorfiosa! maritati se puoi e se un marito ti può venire a cercare in questo equipaggio! Quanto a me fo caso del tuo reame e della tua mano quanto di un cece.
— Se mi poteste dire in qual buco si nasconde il re dei Grilli, esclamò furioso Tesoro delle Fave, l’avrei di già stanato col mio zappino e lo darei in vostra balia coi piedi e le mani legate. Pure comprendo la sua disperazione, aggiunse, lasciando cadere la sua fronte sulla mano. — Ma non pensate che è d’uopo ch’io vi accompagni fino ne’ vostri Stati per porvi al coperto dalle sue persecuzioni?
— Sarebbe necessario in fatti, magnanimo Tesoro delle Fave, se fossi lontano dalie mie frontiere, ma ecco la un campo di piselli muschiati dove io non conto che dei sudditi fedeli e a cui è interdetto ravvicinarsi al mio nemico.
Cosi dicendo battè la terra col piede e cadde sospesa colle due braccia a due gambi pendenti che s'inclinarono e si rilevarono sotto di essa, seminando i suoi capelli dei resti de’ loro fiori profumati.
Mentre Tesoro delle Fave si compiaceva a contemplarla (e vi dico io che ne avrei provato piacere anch’ io) essa lo fissava col lampo d’acciajo de’ suoi occhi, lo alfascinava all’incantevoie sorriso, così ch'egli avrebbe voluto morire per la gioja di vederla così, e non si sarebbe ancora mosso, se ella non l’avesse avvertito.
— È fin troppo l’averti trattenuto fin adesso, gli disse, perchè io so che il commercio delle fave è molto importante pei tempi che corrono; ma il mio calesse o meglio il vostro, vi farà riguadagnare il tempo perduto. Non mi offendete, vi prego, rifiutando un così piccolo dono. Di calessi simili ne ho de’ milioni nei granai del castello, e quando ne voglio uno nuovo, lo scelgo sulla colombaja in una manata di ceci, e do poi il resto ai sorci.
— Il più piccolo dei benefici di Vostra Altezza farebbe la gloria e la felicità della mia vita, rispose Tesoro delle Fave; ma ella non pensa ch’io sono incaricato delle provvisioni, Ora, io comprendo a meraviglia che per ben misurate che siano le mie fave, si avrebbe il mezzo di far entrare comodamente il vostro calesse in uno de’ miei quartucci, ma i miei quartucci nel vostro calesse, è una cosa impossibile, via.
— Prova, disse Fior de’ Piselli ridendo e baloccandosi fra i suoi fiori; prova e non sta a meravigliarti di tutto come un fanciullo che non ha mai veduto nulla.
In fatti Tesoro delle Fave non provò difficoltà alcuna a porre i tre quartucci nella cassa della vettura, essa ne avrebbe contenuto trenta e più. Egli ne fu un po’ mortificato.
— Io sono pronto a partire, signora, riprese sedendosi sovra un cuscino ben ripieno di borra e la cui grandezza permettevagli di accomodarsi molto gradevolmente in tutti i modi fino a sdrajarsi quant’era lungo se n'avesse avuto voglia.
Io devo all'affetto de’ miei genitori di non lasciarli inquieti sulla mia sorte in questa prima nostra separazione; e non aspetto che il vostro cocchiere, senza dubbio fuggito spaventato all’insulto grossolano del re dei Grilli, riconducendo la pariglia e trasportando le stanghe. Allora abbandonerò questi luoghi col rammarico eterno di avervi vista, senza speranza di rivedervi.
— Buono! replicò Fior de' Piselli senza aver l’aria di por mente all'ultima parte del discorso di Tesoro delle Fave che mirava dritta alla conseguenza; buono! il mio calesse non ha nè cocchiere, nè stanghe, nè cavalli. Esso va a vapore e non v’ha ora che non faccia agevolmente cinquanta mila leghe. Ora vorrei sapere se sarai in pensiero per ritornare presso i tuoi quando ti piacerà. Basterà che tu ricordi bene il gesto e la parola di cui mi servo per avviarlo. — La valigia contiene molti e diversi oggetti che ti possono servire nel viaggio, e che ti appartengono assolutamente. Aprendola nel modo stesso come apriresti un guscio di pisello verde tu vi troverai tre scrigni della forma e della grossezza giusta d’un pisello ciascun dei quali è sospeso ad un filo leggero che li sostiene nel loro astuccio come de’ piselli nel baccello in guisa che non abbiano a urtarsi malamente nel movimento o nel trasporto. È un lavoro maraviglioso. Essi cederanno alla pressione del tuo dito come appunto il buffetto del mio calesse e non avrai che a seminare il contenuto per terra in un buco fatto colla punta del tuo zappettino per veder spuntare e nascere tutto che tu avrai desiderato. Non è questo un miracolo? Ricordati però bene che finito il terzo, non ho più nulla da offrirti perchè non ho qui che tre piselli verdi, come tu non avevi che tre quartucci di fave, e la più bella fanciulla del mondo non può dare che ciò che ella ha. Sei disposto ora a metterti in cammino?
Al segno affermativo di Tesoro delle Fave, che non si sentiva la forza di parlare, Fior de’ Piselli, fece schioccare il pollice della sua mano dritta contro il medio, gridando: Partite, cece!
E il cece era già a più di mille cinquecento chilometri dal campo muschiato di Fior de’ Piselli, mentre gli occhi di Tesoro delle Fave la cercavano ancora inutilmente. Ahimè! sospirò egli.
Sarebbe un far torto alla celerità del cece, dicendo che egli percorse lo spazio colla velocità di una palla d’archibugio. I boschi, le città, le montagne, i mari sparivano incomparabilmente più presto sul suo passaggio delle ombre chinesi di Serafino sotto la bacchetta del famoso mago Rotomago. Gli orizzonti più lontani appena si disegnavano ad un’immensa distanza erano già precipitati sotto il cece; e Tesoro delle Fave si sarebbe forzato invano di rivederli dietro di lui. Mentre egli si rivolgeva, crac! essi non v’eran più. Infine egli aveva più volte il vantaggio sul sole; più volte l’aveva raggiunto per sorpassarlo ancora nelle brusche alternative di giorno e di notte; quando Tesoro delle Fave sospettò d’aver lasciato da parte la città che andava a vedere e il mercato dove portava a vendete i suoi quartucci.
— Le molle di questa vettura sono un po’ sbrigliate, immaginò subito; poichè non si dimentichi che egli era dotato di uno spirito acuto. Essa è partita storditamente prima che Fior de’ Piselli avesse finito di spiegarsi sul mio indirizzo è non v’è ragione perchè questo viaggio finisca in tutta l'eternità, avendo quest’amabile principessa molto sventata, come lo vuol l’età sua, ben pensato a dirmi in qual modo il suo calesse si metteva in cammino, ma non ciò che bisogna fare per fermarlo.
Di fatto Tesoro delle Fave si era servito senza risultato di tutte le più sgarbate interiezioni da lui potute raccogliere, salvo la modestia, dalla bocca blasfematoria dei vetturini e de’ mulattieri, gente di povera educazione e di brutto linguaggio. Il maledetto oalesse correva sempre, correva come una saetta, e mentre egli cercava nella memoria tanto per variare, le apostrofi più eufoniche, quali non potrebbe insegnarne di migliori la retorica, il signor calesse tagliava le latitudini a gran corsa e passava sul ventre di dieci reami in un amen.
— il diavolo ti porti, cane d’un calesse! gridava Tesoro delle Fave, e il diavolo docilissimo non mancava di trasportare il veicolo dai tropici ai poli e dai poli ai tropici e di condurlo torno torno alla sfera senza riguardo al cambiamento insalubre delle temperature. Vi era di che arrostire o di gelare in un attimo; se Tesoro delle Fave non fosse stato dotato, come abbiamo più volte ripetuto d’un’ammirabile intelligenza.
— Vediamo, disse fra sè; poichè Fior de’ Piselli l’ha lanciato attraverso il mondo dicendo: Partite, cece!... lo si arresterà forse, dicendo il contrario. Quello era estremamente logico.
— Fermate, cece! gridò Tesoro delle Fave, facendo schioccare il pollice della mano dritta contro il medio, come aveva visto fare da Fior de’ Piselli.
Badate se un’accademia tutt'intera avrebbe cosi ben trovato! Il cece si fermò cosi prontamente che non l’avreste fermato meglio, ficcandolo contro terra con un chiodo. Tesoro delle Fave discese dal suo equipaggio, lo raccolse accuratamente e, dopo di averne tolta la valigia lo fe’ scivolare in una borsa di cuojo ch’egli aveva nella sua cintura per chiudervi i campioni delle fave.
Il posto in cui il calesse ai Tesoro delle Fave si era fermato per comando di lui non è descritto dai viaggiatori. Bruce lo pose alle sorgenti del Nilo, Douvelle al Congo e Caillé a Tomboctù. Era una pianura sconfinata secca, sassosa e selvaggia così che non vi si trovava un boschetto in cui ricoverarsi, nè un musco del deserto per posar la testa addormentata, nè una foglia nutriente e refrigerante per acquietare la fame e la sete. Tesoro delle Fave non se ne inquietò punto. Coll’unghia fendette acconciamente la valigia, ne staccò uno degli scrignetti di cui Fior de’ Piselli gli aveva fatta la descrizione. Poi l’apri come aveva fatto col calesse e seminandone il contenuto per terra colla punta del bidente:
— Nascerà ciò che potrà, disse egli, ma io avrei gran bisogno di un padiglione per coprirmi questa notte, non fosse che d’una pianta di piselli fiorita; d’una piccola cena per nutrirmi, non fosse che una pappa di piselli collo zucchero; e d’un letto per dormire non fosse che d’una piuma di colibrì. Tanto più che ora non potrei rivedere i miei cari, perchè mi sento stimolato dalla fame, stracco pel lungo viaggio. Tesoro delle Fave non aveva finito di parlare che vide sorgere dalla sabbia un superbo padiglione in forma di pianta di piselli che si alzò, ingrandì, si distese lontano, appoggiandosi a intervalli regolari su dieci pali d’oro, si sparse da ogni parte in graziosi paramenti di fogliame tempestati di fior di piselli e s’arrotondò in arcate innumerevoli, ciascuna delle quali sopportava al centro dell’arco un ricco lampadario di cristallo carico di candele profumate. Il fondo delle arcate era guarnito di specchi di Venezia, d’altezza smisurata senza il più piccolo difetto che riflettevano i lumi fino ad abbruciare la vista di un’aquila di sett’anni a una lega distante.
Sotto i piedi di Tesoro delle Fave una foglia di pisello caduta accidentalmente dalla vòlta, si allargò in magnifico tappeto chiazzato con tutti i colori dell’arcobaleno e con moltissimi altri ancora. Di più, esso portava candelabri, de’ tavolini di aloè e di sandalo, che parevan lì lì per rovinare sotto il peso dei pasticci e delle confetture, e sui quali stavano frutti canditi col maraschino attornianti elegantemente nelle loro coppe di porcellana dorata, un buon piatto di sugo di pisellini collo zucchero, marezzati alla superficie con uva di Corinto nera come lustrini, pistacchi verdi, confetti di coriandolo e fette d’ananasso.
In mezzo a tutta questa grazia di Dio Tesoro delle Fave non istentò tuttavia a riconoscere il suo letto, cioè la piuma di colibrì da lui desiderata e che scintillava in un canto come un diamante caduto dalla corona del Gran Mogol, quantunque fosse tanto piccolo che lo si sarebbe nascosto in un grano di miglio. Tesoro delle Fave pensò prima di tutto che questo lettino rispondeva poco alle comodità del padiglione; ma mentre ei la guardava essa si diede a moltiplicarsi e a moltiplicarsi si che egli ebbe ben presto uno strato di piume di colibrì all’altezza della mano, lettuccio di molli topazii, di flessibili zaffiri e di opali elastici in cui una farfalla posandovisi si sarebbe sprofondata.
— Basta, disse Tesoro delle Fave, basta, piuma di colibrì! con questo dormirò benissimo. È superfluo il dire se il nostro viaggiatore abbia festeggiato il suo banchetto e avesse voglia di riposarsi. L’amore gli trottava un po’ nella testa, è vero, ma dodici anni non sono l’età in cui l’amore tolga il sonno; Fior de’ Piselli vista appena non aveva lasciato al suo pensiero che l’impressione affascinante di cui il sonno soltanto gli poteva rendere la illusione. Ragione di più per dormire, se ve ne sovviene come a me. Tuttavia era troppo prudente per abbandonarsi a questa gioia poltrona prima di essersi assicurato dell’esterno del padiglione, il cui splendore bastava per attirare di lontano i ladri e le guardie del re. Ve n’ha in tutti i paesi. Uscì dunque dalla cinta magica col bidente aperto alla mano come il solito per fare il giro della tenda e assicurarsi della solidità del suo accampamento.
Appena fu pervenuto all’estremo confine segnato da una piccola fossa scavata dalle acque e che la capretta avrebbe saltata senza fatica, Tesoro delle Fave s’arrestò preso dal brivido di un coraggioso, poichè il vero coraggio ha dei terrori comuni alla nostra povera umanità e non ripiglia forza che mediante la riflessione. E v’era in fede mia, di che riflettere davanti lo spettacolo di cui parlo. Era una linea di battaglia dove rilucevano nell’oscurità d’una notte senza stelle, dugento occhi ardenti e immobili davanti ai quali correvano senza posa dalla dritta alla sinistra, dalla sinistra alla dritta e ai fianchi due occhi penetranti ed obliqui, la cui espressione indicava chiaramente la ronda d’un generale molto attivo. Tesoro delle Fave non conosceva nè Lavater nè Gall nè Spurzheim; egli non era della società frenologica: ma aveva lo schietto istinto di natura che insegna a tutti gli esseri creati a discernere da lontano la fisionomia d’un nemico; e però non ebbe guardato molto il comandante in capo di questa lupaglia affamata che riconobbe in lui il lupo codardo e piaggiatore che gli aveva destramente scroccato sotto colore di filosofia e di virtù l’ultimo de’ suoi quartucci.
— Messere lupo, disse Tesoro delle Fave, non ha perduto tempo per riunire il suo gregge o lanciarlo alle mie calcagna! Ma per qual mistero han potuto raggiungermi in tanti, se questi, furfanti non hanno pur essi viaggiato in un cece? — È probabilmente, riprese sospirando, che i segreti della scienza non sono ignoti ai cattivi, e pensandovi non sono lontano dal crederneli gli inventori essi stessi per meglio pigliare le buone creature nelle loro detestabili trappolerie.
Tesoro delle Fave era prudente nelle sue cose, ma subitaneo nelle risoluzioni, cavò la valigia dalla borsa in cui l’aveva riposta insieme al calesse, staccò il secondo de’ suoi piselli, l’aperse come aveva fatto col primo e col calesse, e ne seminò il contenuto nella terra colla punta del bidente. Nascerà ciò che potrà, disse, ma avrei gran bisogno questa notte d’una muraglia solida non fosse che quanto la capanna, e di un graticcio molto spesso, almeno forte quanto quello delle mie siepi per difendermi dai signori lupi.
E tosto si innalzarono, ma non muri di capanna, ma dei palazzi, e germogliarono davanti ai portici, ma non come quelli delle siepi, ma alte cancellate signorili d’acciaio azzurro a freccie e punte dorate, da cui nè lupi, nè tassi, nè volpi non sarebbero passati senza uccidersi o ferirsi la sottile punta del suo muso. Al punto in cui era allora la strategia lupesca, l’esercito dei lupi nulla poteva contro tali difese, sicchè dopo aver tentato d’assaltare qualche punto si ritirò in disordine. Rassicurato Tesoro delle Fave ritornò al padiglione, ma questa volta per un atrio di marmo attraverso peristilii illuminati come per nozze, scale che salivano e salivano e di gallerie senza fine. E fu contento di scorgere il suo padiglione di fior di piselli in mezzo ad un gran giardino verdeggiante e florido, e il suo letto di piume di colibrì, su cui suppongo dormì più felice di un re. Si sa che non esagero mai.
All’indomani la sua prima cura fu di visitare la sontuosa dimora che si trovava in un pisellino, le minime bellezze della quale lo riempirono di meraviglia, poichè l'addobbo corrispondeva a perfezione coll’aspetto esterno. Egli esaminò minutamente la sua pinacoteca, il suo gabinetto d’antichità, il suo medagliere, la sua raccolta di insetti, di conchiglie, la biblioteca, deliziose meraviglie ancora nuove per lui. I suoi libri lo affascinavano per il gusto delicato che aveva presieduto alla loro scelta. Ciò che v’ha di più squisito nella letteratura e di più utile nelle scienze umane vi si trovava raccolto per il piacere e l’istruzione d’una lunga vita, come le Avventure dell’ingegnoso Don Chisciotte della Mancia, i capolavori della Biblioteca Azzurra della famosa edizione della signora Oudot, di ogni sorta di racconti con belle incisioni in rame, una collezione di viaggi curiosi e ameni di cui i più autentici eran quelli di Robinson e di Gulliver, eccellenti almanacchi pieni di aneddoti divertenti e di rassegne infallibili sulle fasi della luna e i giorni adatti alla seminagione: innumerevoli trattati scritti in modo chiarissimo e semplice sull’agricoltura, la floricoltura, la pesca colla lenza, la caccia colla rete e l’arte di addomesticare gli usignuoli; insomma tutto che si può desiderare quando siam giunti ad apprezzare il valore dell’uomo e del suo ingegno. Non v’erano d’altronde altri scienziati, altri filosofi, altri poeti per la ragione incontestabile che tutto il sapere, tutta la filosofia, tutta la poesia se non sono là invano ne cerchereste in altro luogo, io ve lo garantisco.
Mentre procedeva cosi nell’inventario delle sue ricchezze, Tesoro delle Fave si senti colpito dalla sua immagine riflessa in uno degli specchi di cui tutti i saloni erano adorni. Se lo specchio non mentiva, ei doveva essere cresciuto oh, prodigio! più di tre piedi dalla sera prima, e in fatti i baffi bruni che gli ombreggiavano il labbro superiore annunciavano chiaramente esser lì lì per passar da un’adolescenza robusta a una giovinezza virile. Questo fenomeno lo inquietava un po’, quando un pendolo superbo posto fra due specchiere, gli permise con suo gran rammarico di spiegarlo. Una delle lancette segnava la quantità degli anni e Tesoro delle Fave s’avvide senza punto poterne più dubitare che egli era in realtà invecchiato di sei anni.
— Sei anni! sciamò, disgraziato! I miei poveri genitori sono morti di vecchiaia e forse di stenti, forse, ahimè! son morti di dolore per la mia perdita! e morendo che mai avranno pensato dei mio crudele abbandono e della mia compassionevole sventura? Maledetto calesse! capisco ora come tu faccia molta strada, poiché tu divori anche molti giorni ne’ tuoi minuti! Partite dunque, partite cece! continuò levando il cece dalla borsetta, lanciandolo dalla finestra. Andate tanto lungi, dannato cece, che non vi riveda più. D’altronde non si è mai visto, secondo me dei ceci in forma di sedia da posta che fa cinquanta leghe all’ora.
Tesoro delle Fave discese gli scalini di marmo più triste che non avesse mai fatta la scala del granaio delie fave. Uscì dal palazzo senza pur vederlo, camminò nell’arida pianura, senza badar se i lupi non vi avessero bivaccato isolati per minacciarlo di un blocco e camminando fantasticava, si batteva la fronte col pugno e qualchevolta piangeva.
— E che avrei io a desiderare ora che i miei cari non sono più? disse egli rivoltando macchinalmente la sua valigia fra le dita. Or che da sei anni Fior de’ Piselli è maritata, poiché il giorno in cui l’ho vista compiva il suo decimo anno, ed era quella l’epoca del matrimonio, secondo l’uso delle principesse della sua casa! D’altra parte la sua scelta era fatta.
Che m’importa del mondo intiero, tutto il mondo per me non consisteva che in una capanna e un campo di fave che voi non mi renderete mai, pisellino verde, aggiunse distaccandolo dal suo guscio, perchè i giorni dolcissimi dell’infanzia non ritornan più. Andate, pisellino verde, andate ove Dio vi porterà, e producete ciò che voi dovete produrre in onore della vostra signora giacché non ho più i miei vecchi parenti, la mia capanna il mio campo di fave e Fiore de’ Piselli! Andate, pisellino verde andate ben lontano!
E lo lanciò con tanta forza che il pisellino verde avrebbe facilmente raggiunto il grosso cece, se la sua natura gliel’avesse permesso. Dopo questo, Tesoro delle Fave cadde oppresso dal dolore.
Quando si rialzò, l’aspetto della pianura era mutato. Era fino al più lontano orizzonte uno sconfinato mare di nebbie, o di ridente verdura, sulla quale ondeggiavano come flutti disordinati per l’esile soffio dei venticelli, dei bianchi fiori colla carena simili a quelli d’una barca e colle ali di farfalla, tinti di violetto come i fiori delle fave e di rosa come quelli de’ piselli, e quando il vento curvava insieme tutte le loro fronti ondeggianti, tutte queste gradazioni di colore si confondevano in una gradazione ignota, mille volte più bella di quella delle più belle aiuole.
Tesoro delle Fave si slanciò, poiché aveva tutto riveduto, il campo ingrandito, la capanna abbellita, suo padre e sua madre viventi che gli correvano incontro non già infermi, ma con tutta la forza delle loro gambe per dirgli che dal giorno della sua partenza ricevettero sempre ogni sera sue nuove con l’aggiunta di amorevolezze che confortavano la loro vita, e con buone speranze di ritorno, e il che li aveva preservati dal morire.
Tesoro delle Fave abbracciatili teneramente li prese a braccetto per accompagnarli al suo palazzo. Di mano in mano che si avvicinavano lo stupore del vecchio e della vecchia cresceva a mille doppi e Tesoro delle Fave aveva timore di turbare la loro gioia. Tuttavia non potè fare a meno di dire, sospirando: Ah, avete voi veduto Fiore de’ Piselli? Ma già ella è maritata da sei anni!
E che sono maritata con te, esclamò Fiore de’ Piselli aprendo il cancello a due battenti. La mia scelta era fatta allora, te ne ricordi? Entrate qui, ella continuò, baciando il vecchio e la vecchia che non rifinivano d’ammirarla, poiché era anch’ella cresciuta di sei anni, e la storia dice perciò che la ne aveva sedici. Entrate da vostro figlio; questo è un paese di spirito e d’immaginazione, dove più non s’invecchia nè si muore.
Era difficile il dar migliore notizia a questa povera gente. Le feste delle nozze si compirono con tutto lo splendore richiesto fra così illustri personaggi e la famiglia non cessò di essere un esempio perfetto d’amore, di costanza e di felicita.
È così che finiscono i racconti delle fate.