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Ricordi delle Alpi/Parte Prima/IX

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Il mare

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IX.

Il Mare

«Pera colui, che primo al mar commise
Legno, e raccolse in fragil vela i venti.
Non padre a lui, nè bella madre rise
Allor che gli occhi aperse in fra i viventi.
Sotto l’alte onde, ch’ei primier divise.
Giaccia il rio nome, nè di dolci accenti
Musa risvegli mai l’empia memoria,
Nè nota il segni di verace storia.»

Camoens, I Lusiadi, C. IV.


Da oriente, festosa come ala di cigno remigante, la prima vela conturbò la faccia del mare, entro i cui gorghi fu udito un cupo lamento: la sete delle scoperte, o la curiosità più innocente si convertiva in sete di lucri e d’ambizione; onde all’apparire di questi conati seguia la morte con lo sterminato esercito de’ suoi mali. [p. 53 modifica]

La cresciuta potenza de’ Fenicî, agevolando gli scambî o i commerci, spinse navi veliere su tutte le coste del mare interno, ed oltre; e la signorìa delle acque cominciò a invogliare pertinace le ambizioni dei governi e de’ popoli. Ma le nazioni sorgono, trionfano e — obbliate le severe virtù — cadono in un periodo determinato, quasi individui; l’ala del tempo si stende fatale sugli uomini e sulle cose, e dalla vece continua del trasformarsi di natura deriva il lavoro della umana perfettibilità, risultante delle forze fisiche e intellettive del mondo.

Chi ha insegnato a Roma, ancor adulta, a fabbricarsi le prime triremi, che dovevano poscia asservire la di lei potente rivale? Gli avanzi sventurati de’ legni cartaginesi, che la fortuna del mare aveva sbattuto sui lidi del Lazio.

O mare! tu cessasti di essere l’amico dell’uomo dal giorno, che la furia delle più tristi passioni così rôse il suo cuore, che il nostro destino venne incontrastabilmente trascinato, come volle il filosofo, a stato continuo di guerra: d’allora, fremesti sui fianchi delle carene, che trasportavano l’immortale Genovese all’occidentale emisfero, le catene che avrebbero fatto lividi i polsi dell’infelice scuopritore. A Filippo II ingoiasti [p. 54 modifica]in un momento di rabbia la flotta potente, quasi ad insegnargli, che qualunque macchina ti passeggi sul dorso, non vi potea fronteggiare con lo orgoglio di re, nè battezzarsi invincibile.

Mare! le virtù di Salamina son ite; e allora certamente ti agitasti di generosa gioia per gli eroi, che fugavano il ladrone persiano: oh, perchè non ti colse sempre lo sdegno al vedere soccombere la virtù de’ più sacri principî, e sì spesso il feroce corsaro e il prepotente invasore riuscirono a portare sul tuo dorso ferro infame ai fratelli?

Il rombo furente delle tue ondate, che si fiaccano nell’irte scogliere, risponde: — E i tuoi padri, ch’han fatto i tuoi padri con la forza dei loro fasci e il volo delle loro aquile? La gloria, a cui gli uomini ergono are, è il trionfo della forza brutale; i Romani, un giorno popolo della terra grandissimo, nell’obblio dell’altrui diritto, e nell’ingiusto sprezzo pei barbari, seminarono i primi germi di loro sventura...

— A Parga, — così continuo a parlare l’oceano — l’inglese fu iniquo; e mi colse stupore, che il cielo non m’ingiungesse inghiottirmi sin l’ultimo legno della superba Albione. — Ma il destino delle sorti umane è fisso e irrevocabile. — Se fu bello e [p. 55 modifica]propizievole il vento che accompagno Marco Polo e Vasco de Gama, soffiò fatale e sterminatore nelle accese ire dei figli d’Italia, e

«. . . Eterno in sul suo capo
Ripioverà de’ miseri suoi nati
Lo sparso sangue cittadino, eterni
Anzi a te suoneran di Chiozza i nomi,
D’Arbia vermiglia e di Meloria infame.1»

Perchè nessuna guerra è più brutta della fratricida, nè ho provato mai maggior contentezza, che nel vedere svolgersi e affermarsi la potenza italiana. Ora, nella lance dei vizî e delle virtù passate, queste sembrano travolgere. A Lepanto, il trionfo della Croce salvò l’Occidente dall’invasione e dalla tirannia del Turco: e fu merito speciale delle italiane galee: io scrinai allora le onde pompose, per gioia verace; e poi mi dolsi, che il prode e infelice Cervantes incontrasse schiavitù lunga e penosa nell’avviarsi a’ Paesi Bassi.2»

Qui le acque presero ad agitarsi, quasi [p. 56 modifica]fastidite di questi parlari, e tacquero; ma io senza tema mi figuravo rispondere:

— Vi comprendo, vaghissime figlie del mare; allora la fede cristiana vincolava assai più gl’interessi dei popoli e gl’intenti dei governi: nelle Crociate l’Europa intiera si versò nell’Asia, e ne trasse i germi della civiltà moderna; e quando le invasioni turche l’assalsero, si trovò tanto forte per respingerle e domarle. Oggi le ragioni di non so quale politica tengono schiavo questo o quel popolo senza ricordare, come in Polonia, che ogni gente ha diritti a civiltà, e che l’uomo è dappertutto fratello; ma se, in fine, alla guerra tenga dietro la giustizia, e venga una volta il regno dell’amore, il mondo coglierà i frutti della fratellanza e della felicità sognata da lunghissimi anni.

A questo punto de’ miei pensieri mi sembro, che il mare si turbasse in modo sin allora non visto, e che i marosi, sollevatisi quasi alte montagne, celermente calmandosi, si stendessero spagliandosi in ischiuma verdastra e sanguigna, e che fosche fiammelle, a guisa di serpi attorcigliati, strisciassero velocissime fra il rompersi dell’onde rabbiose; e mi giungeva sino alle nari un orribile e schifoso puzzo di cadaveri. E allor vidi teschi spolpati con rari capelli collati oscenamente alle [p. 57 modifica]tempie, e orbite vaste, fosche di luce fosforescente; apparivano bocche schifosamente contratte, braccia supplici mosse da soli tendini e nervi, orrendi busti, e membra disperse lontano e d’ogn’intorno vaganti. Erano i miserrimi resti delle pugne navali, delle imprese fallite, de’ folli ardimenti del figli degli uomini. In quell’aere denso di vapore marino ecco apparire a caratteri di sangue i nomi delle principali battaglie di mare sostenute dall’ambizione o dalla malvagità dei potenti, fra cui ultime queste: Abukir, Trafalgar, Sinope e Sebastopoli.

Estrema mia visione fu questa. Uno sciame di conigli, uscito da foltissima macchia, si lanciò furibondo sulla riva, e si diede a ergere con molta prestezza una diga di rena lunga pochi piedi per frenare l’ira dell’indomito elemento; più accanito di tutti, il loro capo o re, cieco negli occhi e floscio in tutto il corpo, correva d’ogni lato per sollecitare e accendere quella follia. Ma in questa eccoti una sbuffata di acque spingersi innanzi, e sommergere e spegnere tutti quei risibili animalucci. Allora fra uno sghignazzamento di pungentissima ironia, udii queste voci: «Morte dell’esercito persiano e di Xerse re, che pretendeva domare l’Oceano, e flagellarlo per castigo.» [p. 58 modifica]

A cui si rispose: «Esempio alla stoltezza dell’umanità, che giornalmente s’attenta di sfondare il cielo co’ pugni, e punire il mare con la punta del piede!»

In quest’istante, i vivi raggi del sole, in alto, mi richiamarono ai sensi. Mi stropicciai bene gli occhi ridendo, e guardai ansio l’orologio: erano le dieci, e io non aveva sognato più di mezz’ora.

Ma quante cose in così poco tempo!


Note

  1. Mamiani, citato.
  2. L’autore del Don Quijote, de Cervantes Saavaedra, si trovò alla battaglia di Lepanto, 7 ottobre 1571, e cadde prigione d’una squadra algerina l’anno da poi. I particolari della sua lunga schiavitù sono raccolti nella sua novella: El cautivo.