Dimmi, Amore, colei che in roseo letto
Vezzosa altera giace, è donna, o Diva?
Agli atti, al volto, al prepotente aspetto,
Di Venere mi par la immagin viva;
Ma nel mirar quel dotto stuolo eletto,
Cui fa grazia di se, d’ogni altri schiva,
Per fermo (io dico in me) Minerva è quella;
Minerva a te, Cupido, ognor rubella.
Per man mi prende Amore, e non risponde:
E appressandosi lento all’alto toro,
Me spinge innanzi a forza, ed ei si asconde:
Io tremante mi arresto, e mi scoloro.
Tu tremi (il Dio mi dice) e n’hai ben d’onde;
Che sa piagar costei, non dar ristoro:
Ma, veggiam di qual ferro ell’abbia scudo
Contro il mio saettar possente e crudo.
Lei non visti miriamo. Ecco, che in mano
D’ampio volume ella si arreca il pondo:
Leggon gli occhi; lo spirto è già lontano;
Nè vuol veder del primo foglio il fondo;
Nè saper, se nel pieno, oppur nel vano,
Immobil stia, si aggiri, o libri il mondo;
Pria che il ciglio si chiuda, il libro serra:
Altri ne piglia, altri ne scaglia a terra.
Un le vien preso al fin, che i sensi tutti
A un tratto par che in lei richiami e desti;
Gli occhi, finor languidi immoti asciutti,
Soavemente a lagrimar son presti.
Chi fu, chi fu cagion de’ dolci lutti?
Casi acerbi d’amor forse leggesti?
Ride Cupido allor di quella altera;
E dice a me: scrivi d’amore, e spera.
Spero, sì, spero di ritrarre in carte
Quel che avvampar mi sento ardor nel seno:
Spero sull’aureo letto anch’io far parte
De’ tanti libri onde è coperto appieno;
Spero raccor le lagrimette sparte,
E far forza al bel ciglio almo sereno...
E forse, un dì pentita, anco dirai,
D’amor leggendo: ahi lassa! io non amai.