Rime varie (Alfieri, 1912)/II. Loda le bellezze di una signora

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II. Loda le bellezze di una signora

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II. Loda le bellezze di una signora
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II [v].1

Loda le bellezze di una signora.

Negra lucida chioma in trecce avvolta;
Greca fronte, sottili e brune ciglia;
Occhi, per cui nessuna a lei somiglia,
Cui morrò per aver visti una volta;24

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Bocca, ch’è d’ogni rosa or ora colta,
Piú odorosa, piú fresca, e piú vermiglia;
Voce, che amor, diletto, e maraviglia
Infonde e imprime in cor di chi l’ascolta;8
Riso, che al par gli uomini, e i Numi bea;3
Eburneo sen, vita leggiadra e snella;
Bianca morbida man, tornìte braccia;11
Breve piè, di cui segue Amor la traccia;4
E di spoglie sí belle alma piú bella:
Mostrato ha il Cielo in voi quant’ei potea.514



Note

  1. «In seguito poi di questi tre primi sufficienti sonetti [Il ratto di Ganimede, La lotta di Ercole e Antéo, Venere e Marte] come se mi si fosse dischiusa una nuova fonte, ne scaturii in quell’inverno troppi altri; i piú, amorosi, ma senza amore che li dettasse. Per esercizio mero di lingua e di rime avea impreso a descrivere a parte a parte le bellezze palesi d’un’amabilissima e leggiadra signora; né per essa io sentiva neppure la minima favilluzza nel cuore; e forse ci si parrà in quei sonetti piú descritti che affettuosi. Tuttavia, siccome non mal verseggiati, ho voluto quasi che tutti conservarli, e dar loro luogo nelle mie rime». (Aut., IV, 3). Questi sonetti, il primo dei quali esprime compendiosamente l’elogio di quelle bellezze della Signora che vengono, a parte a parte, descritte e lodate negli otto seguenti (tanti ne pubblicò l’A., ma ne scrisse sedici) furon composti nel dicembre del 1776 e nel gennaio dell’anno dopo: il 6 maggio del 1786 l’A. inviava da Martinsbourg alla Marchesa Carlotta Amoretti d’Ozà il biglietto che qui riferisco, e che trovasi pure nel ms., al termine de’ sonetti medesimi: »Questi primi versi nei quali, già son ben tre anni [questo tre dev’essere un errore materiale, perché ne erano passati dieci] io pittore allora più rozzo che forse or nol sia, piuttosto accennava che dipingeva le gentili forme della di lei gentile persona, paionmi essere di ragion sua. Quindi, nel far rassegna dei miei cenci poetici, avendoli ritrovati, e non del tutto dispiaciutimi, ho creduto dovessero alle di lei mani, prima che a quelle di ogni altro pervenire. A ciò con tanto maggior coraggio mi arrischio, che mi lusingo che in essi vi scorgerà piú assai che un amante, un rispettoso e caldo ammiratore delle di lei bellezze e virtú, qual sempre sono stato, e sono tuttavia».

    È evidente in questo sonetto dell’A. l’imitazione petrarchesca, non diretta però, sibbene traverso ad un celebre sonetto di Pietro Bembo, che non sarà inutile di riferire:

    Crin d’oro crespo, e d’ambra tersa e pura
    Ch’a l’aura su la neve ondeggi e voli:
    Occhi soavi e piú chiari che ’l Sole
    Da far giorno seren la notte oscura;
    Riso, ch’acqueta ogni aspra pena e dura;
    Rubini e perle, ond’escono parole
    Sí dolci ch’altro ben l’alma non vuole;
    Man d’avorio che i cor costringe e fura;
    Cantar, che sembra d’armonia divina;
    Senno maturo a la piú verde etade;
    Leggiadria non veduta unqua fra noi;
    Giunta a somma beltà somma onestade
    Fur l’esca del mio foco; e sono in voi
    Grazie, ch’a pochi il ciel largo destina.
  2. 4. Occhi, avendo visti i quali solo una volta, io ne morrò; è quella figura che dicesi di attrazione, per la quale una parola si accorda con quella che le sta piú vicina, anziché con l’altra da cui logicamente dipende.
  3. 9. Il Petrarca (Rime, CCLI):
    Le crespe chiome d’or puro e lucente
    E ’l lampeggiar de l’angelico riso
    Che solean fare in terra un paradiso.
  4. 11-12. Il Petrarca (Rime, XXXVII):
    Le man bianche sottili
    E le braccia gentili.
  5. 14. È in questo verso una reminiscenza del dantesco (Purg., VII, 15):
    «O gloria de’ Latin» disse «per cui
    Mostrò ciò che potea la lingua nostra».