Satire (Alfieri, 1903)/Satira decimaquinta. Le imposture

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Satira decimaquinta. – Le imposture

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Vittorio Alfieri - Satire (1777-1798)
Satira decimaquinta. – Le imposture
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SATIRA DECIMAQUINTA.

LE IMPOSTURE.

Ἀλλ᾽ αὕτη ὑμῶν ἐστιν ἡ ὥρα, καὶ ἡ ἐξουσία τοῦ σκότους.

San Luca, XXII, 53.

Il vostro tempo è ben questo: il regnar delle tenebre.


Frati, Fratocci, e Fraterni-genía
Muratoria Gesuitica o Gallesca;
Eleusínia o Cibèlica manía;
Giansenística; Ammònica; Bramésca;
Trofònica; Druídica; Dervítica;
Voi che deste agli stupidi sempr’esca,
Tutta volgendo vostra vil politica
Al comandar di dritto o di rimbalzo
A gente da voi fatta paralitica;
Mentr’io qui la risibil Setta incalzo,
Che Illuminata in oggi osa nomarsi,
Fo di voi tutte un fascio, e il rogo io v’alzo. —
Negli antri o in selve o in grotte radunarsi
Di fioche lampe mistiche al barlume,
Nascondendosi assai per più mostrarsi;
Scudo e base e pretesto, un qualche Nume
Sempre tenersi; e con gli oscuri carmi
Ripristinare il Sibillin costume;
Abbominar con sacro orror l’empie armi;
Pietà Giustizia ed Eguaglianza e Zelo
Caritativo ch’ogni fiel disarmi,
E tutte in somma, sotto un cupo velo,
L’alte virtù preconizzar furtivi,
Quasi che a Pluto trasmigrasse il Cielo;
E proseliti a mille invitar quivi,
I ricchi e chiari ed ingegnosi a un fine,
E ad altro fin gli stolti non mai vivi;
E di questi alle torme ampie asinine
Di un arcano sognato empir gli orecchi,
Cui s’uom penètra a Dio si rende affine;

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(Cencinquant’anni han gli uni e non son vecchi;
Gli altri a cena i lor morti per balocco
Chiamano; e gli altri fan dell’oro a secchi)
Di grado in grado quindi erger l’alocco
A lor posticcie dignità emblematiche,
Che petulante il faccian quanto sciocco;
Snudare, a chi il ginocchio, a chi le natiche;
E cazzuola, e archipenzolo, e martello;
E cerimonie insipide enimmatiche;
E biascicarsi il nome di Fratello;
Ed ai cenni ai saluti ai paroloni
L’un l’altro riconoscersi a pennello;
E recitar le debite lezioni;
E sradicarsi le impalmate destre;
E ai non Illuminati dir minchioni:
Così avvien che lo Stolto s’incapestre
Dell’Iniquo nei lacci; orrida lega,
Ch’è quintessenza del mal far terrestre.
Poi, più a stento arruolar chi più li prega
D’essere eletto del bel numer uno;
E pregar essi chi d’entrarvi niega;
Tra i più potenti ognor pescarne alcuno,
Perfin dei Re, del gran mistero all’amo;
Intrappolato in varie guise ognuno;
(Giudice, e Prete, e Militare, e Damo;
Ragazzi, e vecchi, e donnicciuole, e servi;
Tutt’a quest’alber mostrüoso è ramo.
Mandra è di talpe di conigli e cervi,
Da poche volpi affastellata in branco
Stivato sì, che all’uopo ha denti e nervi;
Occhi, non mai: che chi lor punge il fianco,
Spinger li vuol, dovunque via si schiude
A far grande se stesso e al nuocer franco.)
Ceppi assodar sovra non vista incude;
Quest’è il segreto lor solo ed intero;
E, in pie parole, avvolte opere crude.
Nè amanti mai nè settator del vero;
Nè propria hann’essi opinïon tenace
Sul Sacerdozio più che su l’Impero.
L’impulso stesso Inquisitor li face
Nelle Spagne; in Olanda Anabatisti:
Quaquari farsi in Albïon lor piace:
In Parigi si fan Filosofisti;
In Germania Evangelici; ed in Roma
(Finchè v’ha un Papa) rabidi Papisti.

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In ogni dove in somma, pur che doma
La Moltitudin sia dalle lor arti,
Cangian maschera ed inni ed armi e soma.
Se in dominio assoluto e senza parti
Solo un tiranno inespugnabil siede,
Coro a lui fan costor per più picchiarti;
E il confessano e l’ungon, s’ei ci crede;
O, s’ei Galleggia, gli sorridon blandi,
Maravigliando che più ch’Argo ei vede.
Ottimi, al buono; al rio Signor, nefandi
Mostransi: e quindi avvien che cotal Setta
A chi regnar si crede ognor comandi.
Ma, se mai la Tirannide, già inetta
Per impotenza o vetustà, dà loco
Al macchinar della Viltà negletta;
Gli Illuminati allor, scambiando il giuoco,
Osan, profani e fetidi servacci,
Di Libertà mentire il nobil fuoco:
E metton su in tal massa i compri stracci,
Che, i Grandi e i Ricchi affondandovi sotto,
A tutti hann’essi triplicato i lacci.
Ma sempre abbajan poi col volgo indòtto
Contro ai Tiranni, ch’ei leccavan pria;
Bastonando essi meglio, a scettro rotto. —
E così avvien che una servii Genía
Coi propri vizj e con l’altrui sciocchezza
Si sgombri ognor del dominar la via.
Ma troppo è antiqua la funesta ebbrezza,
Che i molti fa dei Pochi e Iniqui preda;
Onde il più dirne qui, saría mattezza.
Bastami sol, che chi ha i du’ occhi il veda;
E che, sdegnando i rei maneggi bui,
Ai vili e rei (che a ciò son nati) ei ceda
Il vil mestier dell’Aggavigna-altrui.