Scritti politici e autobiografici/59 anni di galera agli intellettuali piemontesi

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59 anni di galera agli intellettuali piemontesi

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59 anni di galera agli intellettuali piemontesi
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59 ANNI DI GALERA AGLI INTELLETTUALI PIEMONTESI

ACCUSATI DI APPARTENERE A «G. L.»1


Prof. Giua 15 anni-Avv. Foà 15 anni-Dott. Massimo Mila 8 anni - Perelli, padre e figlio, 8 anni ciascuno - Prof. Augusto Monti 5 anni. - Stupendo contegno degli imputati.

La stampa fascista ignora il processo, mentre annuncia la medaglia d’argento ai figli del duce “per valore assoluto„.

                    Io vidi gente sotto infino al ciglio,
               E il gran centauro disse: E’ son tiranni
               Che dier nel sangue e nell’aver di piglio:
                    Quivi si piangon li spietati danni.
                                                            Dante, Inferno, Canto XII

(Nel primo girone del settimo cerchio il poeta colloca i violenti contro il prossimo immersi nel sangue bollente).

Un processo impressionante! Stupendo e orribile insieme. L’Italia sbirra, borbonica, ducesca, contro l’Ita[p. 108 modifica]lia libera e fiera. Fascisti illusi, invertebrati, accecati, che credete che l’eroismo stia in Africa, giù il cappello dinanzi a questi eroi autentici, fatti pallidi dalla prigionia nella cella senza sole e senz’aria in cui il vostro duce, la vostra polizia li rinchiude per anni ed anni, sino alla turbercolosi e, per alcuni, alla morte. Giù il cappello.

Ecco qua, un padre: Michele Giua. Quarantacinque anni, professore universitario. Arrivato, arrivatissimo, a furia non di inchini e servilismi, ma di sgobbo in biblioteca e in laboratorio, e, in guerra, di rischi. Fronte austriaco, non fronte abissino.

I suoi peccati mortali? Questi: aver rifiutato il giuramento, aver distrutto «la carriera». Avere un figlio che si permette, in liceo, anno IX, di andare in galera. Aver visitato questo figlio in esilio. Avere scritto al figlio. Avere visto gli amici di questo figlio.

Quindici anni! E con lui arrestata la moglie per un mese intero, la madre di due figli piccoletti rimasti soli a casa.

Giua fa coppia con un giovane trentenne, Vittorio Foà. Giurista, economista, ha osservato sul vivo, nel fatto, l’ingiustizia fatta al lavoratore. La macchina del regime egli l’ha vista funzionare nei dettagli, con quegli occhi che è così difficile, in Italia, tener aperti.

Non organizzazione, non cospirazione, non attentati. Povero, Vittorio Foà lavorava da mane a sera. Arrestarono lui, il fratello, il padre. Il fratello ha perduto il posto; lui, 15 anni. [p. 109 modifica]

E fanno 30.

Massimo Mila. Un giovane dall’apparenza esile, fine, anima delicata di poeta e di musicista, alpinista, accademico - oh, Italiani sportivi e guerrieri -, autore, a ventiquattro anni, d’un libro sul melodramma verdiano che lo rivelava uno dei primi critici musicali e scrittori d’Italia. Sì, Massimo Mila aveva conosciuto da giovanissimo Gobetti e la famiglia di «Rivoluzione Liberale». Sì, Massimo Mila aveva per amici degli antifascisti, perché non poteva avere che amici intelligenti. Dallo stato totalitario evadeva sulle ali della musica. Sgobbava per vivere, con la mamma e la sorella a carico, dando lezioni, redigendo enciclopedie, sempre sereno e dolce, con quel non so che di cherubino.

Otto anni, gli avete dato.

E fanno 38.

I Perelli, figlio e babbo. Il babbo impiegato di prefettura nella città provinciale, Cuneo. Il figlio segnato come pecora nera era stato processato e assolto dal Tribunale Speciale, dopo sei mesi di prevenzione nel 1932.

Sedici anni a una famiglia. Sedici anni di galera.

E fanno 54.

Monti. Sa Mussolini chi è Augusto Monti? Lo chieda ad Agnelli. La coscienza più pura, più nobile di Torino. Alla sua scuola è passata l’aristocrazia dello ingegno. Monti è l’Alain italiano. Scrittore, poeta, combattente. Adorava la scuola. A cinquant’anni la dovette lasciare, perché non respirava più. Viveva dando [p. 110 modifica]lezione ai figli di Agnelli - sì, di Agnelli - e scrivendo libri tersi come gioielli. Riceveva di quando in quando i vecchi allievi. E certo l’esempio di dignità era contagioso. Mais faut-il donc mourir pour prouver que l’on est sincère? Arrestare Monti è come arrestare Alain in Francia, Mellon in Inghilterra. Alain coltiva i fiori del suo giardino e scrive «Propos». Monti, lo avete incatenato per cinque anni.

E fanno 59.

Non erano, no, solertissima «ovra», costoro dei rivoluzionari professionali. G. L. ha avuto ed ha nelle sue file rivoluzionari per temperamento e capacità. Ma non sono questi. Questi sono il fiore dell’intelligenza italiana, gli uomini che danno a un paese l’aria, la luce morale e intellettuale. L’anima della patria, le speranze della patria.

Sono antifascisti perché il pensiero non può essere fascista, perché l’intelligenza non può sacrificare all’irrazionale. Sono antifascisti perché la dignità non può tollerare la visione del tiranno e della folla incatenata o ubriaca che sfila tristemente in parata od osanna.

Sono uomini liberi. Il loro crimine è di non saper vivere nello stato totalitario, di non avere la schiena fatta a scala mobile. Delitto di stato? Certo. Ma delitto che senza conseguenze, e, anzi, con molti applausi e favori, commisero per vent’anni, il caro Duce, e il babbo del Duce, e il fratello del Duce, e tutta la famiglia dei Duci, ducini, sottoduci, sovversivi rientrati, che han messo giudizio, pancia e vettura. E ora, con [p. 111 modifica]la benedizione dei vescovi, predicano l’ordine e condannano a pene mostruose Pesenti, Guernandi, Rossi, Bauer, Cianca e quanti (quanti, solo lui, il Duce, lo sa), che da dieci anni vegetano nel nucleo vitale dello stato fascista, la galera.

Non rivoluzionari professionali, ma intellettuali strappati ai libri, agli affetti, a qualche raro compagno. C’erano forse, tra questi compagni, anche degli operai, di quelli che a lavorare a catena imparano a odiare tutte le catene e prima fra tutte quella che fa di un operaio moderno un paria sociale. E certo queste confidenze quanto mai innocenti tra intellettuale e operaio eran segnate sul libro nero della Imperial Regia Questura fascista di Torino, dove l’ideale degli ideali è di far vivere tutta Torino in catena come alla Fiat, senatore Agnelli, Thaon di Revel e altri pochi esclusi.

E ora sentite il processo. Una cosa straordinaria, non unica, ma certo rara nel salone pesante di quel Palazzo di Giustizia che, costruito a forza di scandali e di frodi, la frode, lo scandalo supremo doveva ospitare, il Tribunale Speciale.

Due giorni è durato il processo: 27 e 28 febbraio.

Tutti gli imputati, salvo lo Zanetti, assolto, si sono portati magnificamente, ciascuno assumendo tutte le sue responsabilità, e ciascuno cercando di scaricarne gli altri. Ma erano così poche, piccole, modeste quelle responsabilità, che l’accusa annaspava.

Agli sciagurati in montura che giudicavano appariva strana, incomprensibile la sproporzione tra la piccolez[p. 112 modifica]za delle accuse e il contegno fierissimo, diritto, degli accusati.

— Non avete fatto che questo?

— Sì, non ho fatto che questo. Ma sono antifascista. Ma credo nella libertà.

Così, senza pose, senza iattanze.

E allora l’accusa, per tenere in piedi il suo edificio di menzogne o di esagerazioni assurde, precipita nel ridicolo, nel miserabile.

Contesta, ad esempio, ad Augusto Monti, quando i Giua padre e madre furono imprigionati, di essere andato lui a prendere i bambini, di averli accompagnati a scuola.

— Dunque voi solidarizzavate col padre.

Monti non aveva voluto avvocato. Tanto a che serve l’avvocato, al Tribunale Speciale? Si alzò in piedi e disse:

— Certamente l’ho fatto, e me ne onoro. E mi vergogno che in un paese che si vanta di essere civile si possa apporre ad accusa di avere avuto pietà di due ragazzi rimasti soli in casa. Sì, signori: li ho accompagnati a scuola e al cine, e ho rammaricato di non essere più ricco (è povero come Giobbe, Monti), ché li avrei presi in casa e avrei fatto di più per loro.

I giudici - militari, quasi tutti - erano commossi alle lacrime. Così pure il difensore d’ufficio. Nell’aula, veramente «sorda e grigia», era passato un soffio di umanità. [p. 113 modifica]

La sera del 27 la posizione degli imputati era grandemente migliorata. Ma il 28 mattina l’accusa torna alla carica. Non potendo colpirli su fatti precisi, li rende responsabili di quanto ha fatto, fa, ha detto e dice «Giustizia e Libertà», «questa associazione sovversiva, questo giornale organo di tutti i denigratori dell’Italia all’estero, ecc. ecc.». Qualche giudice avrebbe voluto indulgere.

Ma gli ordini sono gli ordini. Tutti, meno uno, sono condannati, anche Augusto Monti. Cinquantanove anni per sei imputati. Per Giua il procuratore aveva chiesto 24 anni. Il Tribunale li ridusse a 15.

Quindici anni! Lettore, e tu, turista italiano di passaggio che leggi questo piccolo foglio con qualche apprensione, e tu, italiano che lo leggi in Italia di nascosto in edizione lillipuziana, riesci a immaginare che cosa significhino quin-di-ci an-ni di ga-le-ra, per avere amato la libertà? Pensa: alzarsi alle 6, pulire la cella, lavarsi in un catino di coccio infinitesimale, infilarsi la tenuta del carcerato, aspettare una brodaglia nera che chiamasi caffè (da Kaffa, Abissinia), fare i sei passi, andare, e non sempre, all’aria per un’ora che si riduce spesso a mezzora, rientrare in cella, leggiucchiare un libro - uno alla settimana e della biblioteca del carcere -, poi aspettare la spesa: tre lire al giorno; ma chi le ha? -, e un pappone, una minestra orrenda che deve servirti per tutto il giorno, e una forma di pane mal cotto che ti resta nel gozzo, poi - poi -, che cosa fai, carcerato, della tua giornata, [p. 114 modifica]del pomeriggio eterno che comincia alle 11? Che cosa fai? Leggi. Sì, leggi, rileggi, ingurgiti per mesi, per anni. Poter almeno lavorare, come prescrive il codice Rocco. Ma «le leggi son...». Poter almeno scrivere, prendere un appunto. Ma no. Né penna, né lapis, né carta sono ammessi. Puoi ritrovarti per qualche ora con qualche compagno. Parli, parli. Poi anche il parlare ti stanca. E ti imprigioni nella tua prigione interiore. Alle quattro o alle cinque, dopo aver tremato o sudato o spasimato per la primavera e una fetta di cielo o di stelle, passa il controllo per la seconda, la terza volta. Conti i giorni passati dall’ultima visita (una al mese), pensi alla lettera settimanale. Sogni. Tutto è grigio e attendi. E se non sai attendere, impazzisci. Alla sera ti infili nella tua branda; guardi, se puoi, le chiazze sul muro bianco sporco, le iscrizioni dei tuoi predecessori, e preghi il sonno di venire presto a liberarti.

Ma il sonno stenta tanto a venire, in prigione.

E così di seguito, per una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette settimane come nella canzone dei bambini; e così di seguito, per mesi e anni.

Eppure, quando a Bauer e a Rossi chiesero se volessero domandare la grazia, la risposta fu:

— No.

«Dove sventola la bandiera italiana, quivi è la libertà», disse nel primo proclama africano De Bono.

Anche a Regina Coeli, a Civitavecchia sventola la bandiera d’Italia. E le vie d’Italia sono tutte pavesate. [p. 115 modifica]Ma la libertà non c’è. La libertà è morta in Italia. E perché rinasca, Giua, Foà, Mila, Perelli padre e figlio, Augusto Monti hanno accettato senza battere ciglio cinquantanove anni di galera.

Cari amici e compagni nostri, come siete bravi. E come soffriamo di questo esilio e di questa lentezza nell’agire. Ma voi lo sapete, voi ce lo diceste. Lenta, difficile è la rinascita. Perché sia rinascita, deve venire dal paese, dal popolo, dai giovani.

Verrà.

Note

  1. Da «Giustizia e Libertà»: 20 marzo 1936.