Scritti politici e autobiografici/La guerra che torna

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La guerra che torna

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59 anni di galera agli intellettuali piemontesi Agli ordini del popolo di Spagna
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LA GUERRA CHE TORNA1


È triste dover parlare di guerra senza riferirsi al passato. Ed è anche pericoloso, perché si rischia di venir fraintesi e di incorrere nei fulmini dei pacifisti candidi.

I pacifisti candidi trasportano, nell’analisi della situazione internazionale, i metodi cari alla Christian Science o al dottor Coué. Più la situazione si aggrava, più essi ti impongono di ripetere: Ça passe.

E... si ça ne passe pas? Se l’edificio della pace crolla nelle sue fondamenta? Allora, silenzio. Proibito di constatare che le fondamenta sono crollate, proibito di dire che la guerra, cancellata dal vocabolario, messa fuori legge dal patto Kellog, ma riapparsa in America e in Asia, ritorna ad essere un’ipotesi possibile, probabile, forse fatale anche in Europa. [p. 117 modifica]

Proibito. Perché la pace è prima di tutto fede. E la fede non si discute.

Diffusissima nei paesi anglosassoni, questa sorta di pacifismo ha attraversato recentemente la Manica per innestarsi in larghi settori della sinistra democratica e socialista in Europa. Siamo sinceri: per impiantarsi in Francia.

La sinistra francese, pur di non constatare il fallimento obbiettivo della sua politica dopo l’avvento hitleriano e l’uscita clamorosa della Germania dalla Società delle Nazioni, preferisce continuare a supporre che la sua politica possa ancora, per un miracolo pietoso, trionfare. La sua ostinazione è tanto maggiore quanto più si procede dal centro verso l’estrema. Daladier non aveva probabilmente illusioni e si limitava a manovrare. Renaudel ne conserva un discreto numero. Ma Blum le ha ancora o fa mostra di averle pressoché tutte.

La situazione diventa così paradossale: coloro che più hanno contribuito a dimostrare che fascismo e guerra sono sinonimi, che la Lega delle Nazioni non può funzionare che tra nazioni democratiche, che il disarmo materiale senza disarmo morale è una trappola, che il controllo del disarmo è impossibile senza l’attiva collaborazione delle organizzazioni operaie libere, che il capitalismo porta nel suo seno la guerra - sono oggi i più recisi nel pretendere che si possa nonostante tutto ottenere una pace seria e un disarmo effettivo [p. 118 modifica]con la Germania hitleriana e il fascismo italiano, per non parlare delle altre dittature europee.

Questa politica pare che si voglia giustificare nel nome di Marx.

Povero Marx.


A costo di essere fraintesi e lapidati vogliamo dire quello che tutti hanno sul cuore in Europa da quando Hitler comanda in Germania: l’illusione della pace è finita. La meccanica pacifista, ginevrina, è schiantata. La pace torna ad essere quello che fu sempre nella storia: uno stato negativo e precario, una parentesi tra due guerre, una guerra, come Clausewitz diceva, che continua sotto forme mutate.

A meno di un capovolgimento totale, la guerra viene, la guerra verrà. Verrà perché è fatale che le stesse cause abbiano a produrre gli stessi effetti, perché milioni di giovani sono allevati nel delirio a volerla, perché i fascismi, padroni di mezzo continente, vi saranno trascinati come alla prova suprema o alla risorsa estrema, perché la miseria e la fame furono sempre, come Proudhon ci ha insegnato, il più potente motivo di guerra, perché la lotta tra fascismo e antifascismo si avvia al giudizio di Dio, perché la vecchia Europa - ecco il punto - che credevamo seppellita con dieci milioni di morti sui campi di battaglia, risorge.

La Germania di Hitler, è la Germania di Guglielmo II. Quel che le manca in potenza guerresca, le sovrab[p. 119 modifica]bonda in audacia, in disperazione, in follia. Prima di essere nazionalsocialista è pangermanista. E il suo socialismo è bene quello che si usava chiamare «di guerra», cioè disciplina ferrea imposta a tutte le classi nel campo dei consumi e dell’indirizzo produttivo. Il piatto unico precede la carta del pane. Quanto ai discorsi pacifisti di Hitler, ai tronchi di ulivo offerti goffamente alla Francia all’indomani del colpo di scena ginevrino, nulla di nuovo: Guglielmo II si compiaceva, prima del ’14, di gesti analoghi. Si dice che Guglielmo II non volesse la guerra mondiale e addirittura piangesse alla notizia della dichiarazione di guerra britannica. Probabilmente Hitler piangerà alla notizia di tutte le dichiarazioni di guerra. La sua tragedia, la tragedia della Germania, è proprio la buona fede. Se fosse, come il suo inascoltato maestro Mussolini, un cinico, potremmo sperare che rinsavisse. Ma non può rinsavire e andrà fino in fondo all’abisso.

Se dalla Germania volgiamo il capo altrove non troviamo che inquietitudini e conflitti latenti. Sul Danubio una lotta decisiva si ingaggia. Alla valanga hitleriana si oppone la vecchia Austria-Ungheria legittimista e reazionaria sotto il controllo mussoliniano. Il rimedio sta rivelandosi peggiore del male. Comunque né l’Anschluss né la restaurazione asburgica sono concepibili senza guerra.

Nei Balcani, bulgari, albanesi, croati, macedoni attendono l’occasione propizia per vendicarsi dei torti subiti e delle oppressioni crescenti. [p. 120 modifica]

La Russia, dopo sedici anni di rivoluzione, premuta dal Giappone e da Hitler, riprecipita nell’alleanza francese, quasi a dimostrare che neppure un così grande capovolgimento sociale la sottrae al magnetismo dei vecchi rapporti di forza.

L’Inghilterra, divisa tra l’Europa e l’impero, fino a ieri filotedesca ma oggi filofrancese per conservazione e ragionamento, che tutto subordina all’accordo con gli Stati Uniti e alla ripresa dei suoi commerci, è incapace di una politica decisa. In caso di complicazioni la ritroveremo sulle stesse posizioni del 1914. Rimarrà esitante fino all’ultimo istante, nella speranza di poter arbitrare, limitare e magari sfruttare il conflitto, certo rendendolo ancora più certo col suo atteggiamento enigmatico. E nell’attesa aumenterà le sue flotte sul mare e nell’aria.

La Francia, prudente e calma, che a pezzi e bocconi aveva concesso alla Germania democratica un lento risorgere e che ora solo si apprestava, in faccia alla Germania hitleriana (ironia della storia!), a distruggere con un’audace politica di disarmo le clausole militari del Trattato di Versailles, è risospinta alla intransigenza totale, alla politica dello stato maggiore.

Quanto all’Italia fascista, responsabile prima dell’immenso rigurgito, dopo aver provocato, sobillato, ricattato, ora paventa lo scatenarsi delle forze elementari che travolgeranno con sé l’Europa. Mussolini non è Bismark. Ama il piccolo giuoco e la vincita certa. [p. 121 modifica]

Al momento dello scoppio lo vedremo tremare e accodarsi, come sempre, all’Inghilterra.

Rinasce, contro tutte le volontà, l’Intesa. Rinasce la Triplice. Fallisce il disarmo, fallisce la Lega delle Nazioni; saltano i Patti Kellog e Mussolini; e Locarno ritorna ad essere una città sul Lago Maggiore...

Invano nei mesi venturi le cancellerie, gli esperti, i dittatori si affanneranno per ristabilire un ordine nel vecchio continente sconvolto. A meno di eventi imprevedibili, di crolli verticali di regimi, l’inevitabile, la guerra, verrà.


Non subito. Sarà tra due anni, come si prevede in Inghilterra. Tra cinque, magari tra dieci anni, quando la Germania si riterrà sufficientemente forte per sfidare l’Europa (o, secondo vuole la psicologia hitleriano-freudiana: per resistere all’Europa che l’accerchia) e sufficientemente abile per neutralizzare il mondo anglosassone; quando la corsa agli armamenti, la minaccia reciproca, il delirio patriottico avranno avvelenato la vita e la politica di tutti i popoli così da renderli tutti egualmente responsabili della catastrofe.

Potrebbe venire anche prima, magari sotto forma di una grossa operazione di polizia internazionale, qualora il riarmamento della Germania o un’altra qualsiasi complicazione determinassero un intervento armato delle potenze firmatarie del Trattato di Versailles; portassero cioè, per usare l’espressione che leggiamo fre[p. 122 modifica]quentemente su autorevoli organi britannici, alla guerra preventiva.

Ma la guerra preventiva è improbabile. Le guerre preventive sono operazioni strategiche che possono alle volte risparmiare una guerra sanguinosa e terribile a più lunga scadenza, ma non sono possibili, o difficilmente possibili, in regime di democrazia. In regime di democrazia le opinioni pubbliche, se non comandano, frenano, ritardano gli impulsi volontari. L’opinione pubblica in Francia e in Inghilterra è ostile alla guerra preventiva e anche ad una pressione economica e militare. Non vuole saperne, dopo l’esperienza della Ruhr, di avventure, di colpi di testa, di generali che riprendono a comandare; non vuole saperne di «ficcar lo viso a fondo», di essere costretta a riconoscere che la pace concepita come assenza di guerra, come stato negativo e passivo, è una pace precaria e poltrona che alla lunga cede all’assalto delle forze volontarie che portano alla guerra.

Non vuole saperne sopratutto - e chi potrebbe condannarla? - di agire contro la Germania in base al Trattato di Versailles. Il Trattato di Versailles è condannato nella coscienza dei popoli. Una guerra preventiva fatta in nome del Trattato di Versailles sarebbe un’impresa miserabile, che non sanerebbe il male, ma lo aggraverebbe, che isolerebbe non la Germania, ma la Francia, e che ben lungi dall’abbattere il regime hitleriano lo rafforzerebbe in modo definitivo.

Una sola politica di intervento, volta a far rispar[p. 123 modifica]miare al mondo un nuovo massacro, sarebbe concepibile ed accettabile: un intervento rivoluzionario; un intervento che avesse lo scopo preciso e proclamato di appoggiare una rivoluzione antifascista in Germania, una sollevazione a Vienna, a Milano.

Una Francia democratica e socialista che in un momento importante della lotta civile in Germania interviene e innalza in faccia a Hitler un governo tedesco libero e rivoluzionario, che a sua volta con un’armata di operai tedeschi si ricongiunge ai fratelli ribelli in patria; una Francia che assume l’impegno solenne di fronte al mondo di abbandonare il Reno senza un centesimo di indennità, non appena un governo libero e umano si sia costituito e che promette la parità nel disarmo e la revisione pacifica dei trattati al libero popolo tedesco.

Sogni, si dirà. Sogni, ammettiamo anche noi. Le democrazie di governo in Europa non sono da tanto. Bisognerebbe che per lo meno in Francia e in Inghilterra esistessero dei partiti di democrazia socialista veramente rivoluzionari, composti di democratici e di socialisti che avessero fede nei loro principii, nella loro missione universale, di rivoluzionari che non continuassero a baloccarsi con le formule pacifiste care ai soci delle società protettrici degli animali e con gli omaggi ipocriti e cervellotici alla teoria del non intervento.

Non intervento? E quando mai i rivoluzionari inalberarono la bandiera del non intervento? Quando mai [p. 124 modifica]affermarono che le tirannie, poggiassero pure su una tradizione di secoli e su un consenso passivo, erano affare interno dei popoli? Le autentiche rivoluzioni, quelle che si ispirarono a un principio universale, furono sempre intervenzioniste. Intervenzioniste la rivoluzione francese, la rivoluzione delle nazionalità, la rivoluzione russa. Financo Mazzini, Kossuth, Mickievitcz, Garibaldi che pure lottavano perché ogni popolo fosse libero di disporre del suo destino e maledicevano gli interventi della Santa Alleanza, di Luigi Filippo, di Napoleone, dichiararono bastarda e mendace la teoria del non intervento.

Dovremmo diventare partigiani del non intervento, noi antifascisti, socialisti, internazionalisti, noi che ci battiamo per superare le vecchie patrie, le stolte divisioni dei popoli, noi che per definizione neghiamo che la nostra rivoluzione possa trionfare nell’angusto quadro nazionale?

E quando mai i rivoluzionari furono pacifisti, nel senso sentimentale, tolstoiano della parola, nel senso in cui lo sono ad esempio gli obiettatori di coscienza? Marx, Plekhanov, Guesde, Kautski, Hyndman, Mehring, Lenin, come in un documentatissimo articolo della «Critique sociale» ricordava Boris Souvarine, hanno fatto assegnamento sulle guerre inevitabili per marciare all’assalto dello stato. E pur rifiutandosi di sposare la causa dell’una o dell’altra parte, si guardarono bene dall’assumere un atteggiamento di neutralità passiva e seppero di volta in volta distinguere [p. 125 modifica](Marx nel 1854-55, nel ’70, nel ’77; Lenin nel 1904) a quale parte fosse meglio augurare e anche facilitare la vittoria.

Sappiamo, a questo punto, l’accusa che si leva a seppellirci. Voi, antifascisti, dopo undici anni di regime fascista, volete la guerra, puntate sulla guerra, perché siete convinti che solo la sconfitta militare sarà capace di abbattere la dittatura feroce che vi opprime. Siete logici come rivoluzionari. Ma i popoli sono stanchi, schiacciati sotto il peso della guerra mondiale e della crisi. I popoli vogliono la pace a tutti i costi. I popoli sono anti-intervenzionisti, sono conservatori. I popoli - intendiamo riferirci alla psicologia francese - preferiranno subire i ricatti hitleriani piuttosto che liquidare oggi una partita che si può rinviare a domani.

Rispondiamo: no. Noi non puntiamo sulla guerra. Se non altro per averla fatta, l’aborriamo con tutte le nostre forze. Se dipendesse da noi, oggi, scegliere tra la rivoluzione a prezzo di una guerra e il perpetuarsi del fascismo coi benefici della pace, non esiteremmo. Ma l’alternativa non si pone. Il fascismo, non l’antifascismo, è la causa del fallimento della pace.

Non puntiamo sulla guerra. Constatiamo che la guerra viene. Non riusciamo a far nostre le illusioni di Henderson e di gran parte della sinistra europea. Sappiamo che per qualche tempo ancora con i procedimenti dei falliti che tentano di procrastinare la di[p. 126 modifica]chiarazione di fallimento, si riuscirà a nascondere ai popoli la realtà della situazione.

Ma i popoli alla fine comprenderanno. Comprenderanno perché per quindici anni fu detto loro che la pace non è possibile senza il disarmo e senza l’organizzazione di una comunità internazionale capace di imporsi a tutti i dissenzienti. Quando vedranno che in luogo di disarmare si riarma, che su sette grandi potenze mondiali quattro sono fuori della Lega (e delle tre che restano una è l’Italia fascista!), che la Germania non ritorna a Ginevra, allora l’idea della fatalità della guerra, che nella psiche prebellica era latente ma velata dallo stesso scetticismo secolare sulla possibilità di una pace definitiva, si impadronirà dei popoli con una violenza, con un’angoscia così grandi da precipitare non la rivoluzione, come pensano certi estremisti, ma il conflitto.

E ancora! Non contiamo troppo sulla stanchezza dei popoli. I popoli che si dicono stanchi, proprio in ragione della loro stanchezza, della loro miseria, di questa crisi senza uscita, crederanno di trovare nella guerra la salvezza o almeno l’evasione dal tragico quotidiano. Vorremmo essere cattivi profeti, ma noi temiamo che già oggi quella parte del popolo tedesco che è fanatizzata da Hitler andrebbe alla guerra con frenesia, con gioia; come con tripudio vi andrebbe una parte della gioventù italiana. Mussolini non faceva solo della retorica quando diceva che egli avrebbe potuto portare la temperatura del popolo - o di quella parte di [p. 127 modifica]popolo che ne subisce l’influsso — a un grado mai visto. Perché sa che cosa ha seminato in questi anni. Sa quali valori, quali passioni ha agitato nella fantasia dei giovani. La solenne consegna delle mitragliatrici di guerra ai giovani avanguardisti nell’anniversario della Marcia su Roma, non fu una commemorazione, ma un auspicio, e come auspicio fu presentato. Che cosa volete capire voi, vecchi o giovani saggi dei paesi dove regna la ragione, la libertà, lo spirito critico, della mistica della dittatura, della mistica della servitù? Voi non potete capire. E se capite, subito dimenticate. Continuate a ragionare e ad agire come se la ragione avesse molti adepti in Europa, come se il fascismo fosse capace di rinsavire. E non vi accorgete che l’irrazionale sta perdendo anche voi.

La guerra viene, la guerra verrà.

Un solo modo esiste per scongiurarla: prevenirla. Prevenirla con un’azione risoluta, con un intervento rivoluzionario che nei paesi dove il fascismo domina rovesci le parti nella guerra civile.

In luogo di organizzare la guerra, o di subirla passivamente, aiutare la rivoluzione.

Questa è, nell’ora attuale, l’unica forma di pacifismo virile che si conviene a dei rivoluzionari; l’unico, l’unico metodo di salvare la pace.

Trionferà? Non crediamo. I rivoluzionari che hanno il coraggio di guardare in faccia le realtà sono rari in Europa. [p. 128 modifica]

Le diplomazie democratiche continueranno la loro vana schermaglia coi Mussolini e cogli Hitler.

I partiti socialisti continueranno ad invocare il disarmo, la pace, l’intesa dei popoli.

Intanto le fabbriche d’armi lavoreranno e gli stati maggiori perfezioneranno i piani di mobilitazione.

Nell’ora che nessuno può prevedere, per una causa che nessuno può anticipare, la nuova catastrofe piomberà sull’Europa.

Si rimpiangeranno allora le occasioni perdute, le iniziative trascurate, tutte le cecità e le impotenze del pacifismo sentimentale e teorico.

Ma sarà troppo tardi.

Quanto a noi, piccolo pugno di rivoluzionari italiani, la nostra strada è segnata. Non ci recheremo in pellegrinaggio al muro delle lamentazioni; e neppure aderiremo alla guerra. Ci serviremo della guerra contro il fascismo. Trasformeremo la guerra fascista in rivoluzione sociale.

Mussolini può lanciare sin d’ora il suo anatema contro i traditori della patria fascista.

Note

  1. Rossetti pubblicò questo articolo pochi mesi dopo l’avvento del nazismo in Germania, nel N.o 9 dei «Quaderni di Giustizia e Libertà», rivista del movimento, iniziata nel gennaio 1932.