Sermoni giovanili inediti/Sermone IV

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Sermone IV - Le arti

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Sermone III Sermone V

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SERMONE QUARTO.


LE ARTI.




La felice lodando arte de’ campi,
Non io vorrò che dispregiata e vile
L’officina rimanga, o sia che appresti
I validi strumenti, onde le pingui
5Zolle domate, i fecondati semi
Moltiplicando, colla mèsse lieta
Dell’avaro cultore empiano i voti;
O sia che l’irte spiche in bianco pane
Converta, o renda accomodati agli usi
10Della vita diversi i rozzi doni
Dell’agreste natura, ignoti in parte,
Ingrati o vani finchè manchi il nerbo
Delle arti industri; nè l’amica mano
Si stendano fra lor quasi sorelle,
15Che l’una all’altra porga, e insiem riceva
L’una dall’altra il ricambiato aiuto.
Errò dapprima per le selve oscure
L’uomo cacciando le belve selvagge;
E spesso dal sentier aspro tornando
20Dopo lungo vagar col dente asciutto.
Indi gli armenti al cenno della verga
Docili apprese per l’erboso piano
Pascolando guidare, e di più largo
E certo pasto e di più ricchi velli
25Fu lieto. Se non che presto veniva
Manco il fiorito pascolo all’acuto

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Avido morso, e per novello prato
Di pascol novo in cerca ad ora ad ora
Il gregge tramutavasi, nè ferma
30Avea stanza il pastor. Nè l’ampio giro
Della valle e del monte ognor bastava
Al governo del gregge unica speme
E del mite pastor cura diletta,
Che del poco vivevasi contento
35Quasi solingo là dove di molte
Biade la terra, poi che il sen dischiuse
Al duro aratro, biondeggiar fu vista
Al novello cultore e a cento e a cento
Non invidi compagni, onde ciascuno
40Ebbe certa dimora e vitto certo
Entro ai confini del tracciato solco.
Degno d’invidia allor che le fabbrili
Arti cresciute i rusticali arnesi
E le semplici vesti gli apprestaro
45Ed i fidati alberghi; e al carro grave
Dischiusero un sentier facile, e novi
Gli porsero tributi, un valor novo
Alla materia dando all’uopo scarsa
Un tempo e sorda. Del civil costume
50A poco a poco intorno si diffuse
Il benefico raggio, e già le folte
Genti fra lor cogli alternati cambi
Alternano gli uffici, onde partita
Fra molti l’opra al desïar risponde
55Meglio di tutti. I villereschi borghi,
L’ampie castella e le città superbe,
Circondate di mura, indizio danno
E fede e pegno dell’eterna legge,
Onde l’umana schiatta in suo cammino,
60Di numero possente e di virtude,

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S’avanza, e acquista faticando il regno,
Che ad essa il cielo più largo destina
Sulle create cose, allor che il braccio
Meno si stanchi e più ferva l’ingegno.
65Da sofistiche scole il campo in due
Parti diviso, delle opposte schiere
Il lungo vaneggiar fe manifesto;
Mentre l’una negava all’arti il vanto
Delle dovizie nostre, e l’altra chiusi
70Gli occhi teneva con amaro inganno
Della natura al verginal sorriso,
Che le sue grazie dispensar ricusa,
Quasi pudica donna altera e bella,
Onde con lungo studio e lungo amore
75Altri non vinca la ritrosa tempra.
All’uom che bagna di sudor la fronte
Sempre soccorre liberal natura,
Sia che la marra tratti e ne ridesti
Le pigre glebe, o col premuto mantice
80Il fuoco attizzi, all’aure fuggitive
O all’onda che precipita spumando
Di volubili rote il corso affidi,
O di stridenti seghe il moto alterni;
Sia che per l’ampio pelago dispieghi
85Le vele ai venti, o l’impeto governi
Che dilatata per sopposta vampa
L’acqua bollendo e vaporando acquista;
di placata folgore sull’ali
E per terra e per mar, dietro la traccia
90Del metallico filo, imponga il volo
Alla parola, che qual lampo arrivi,
Anzi del lampo la prestezza vinca.
Nasce da doppia fonte e si propaga
Quella che l’universo in sè racchiude,

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95O l’umana fatica al Sol dispiega
Mirabile dovizia. Al senso parla
Dapprima, il so, con varïate e nuove
Imagini che al ben dello intelletto
Scala son fatte, allor che il cieco volgo
100Sì non disperda a vagheggiarle il tempo,
Che un’ombra vana delirando abbracci.
Della ricchezza il pregio si misura
Dal servigio che l’uomo attende e spera,
Ottiene e reca, stimolato ai fianchi
105Dal bisogno mutabile, che tregua
Mai non gli lascia e per la via l’incalza,
Che a più nobile meta il varco addita.
Il rigido censor, che i nomi danna
E i frutti coglie con discorde metro,
110Indarno accusa la sentenza nostra,
Che un felice di cose ordine in questa
Di bisogni di sforzi e di compensi
Vicenda interminabile lodando,
Della crescente civiltà si allegra.
115Il debole mortal, che al mondo nasce
Povero ignudo e di se stesso ignaro,
Trarre non può dal nulla un gran di polve;
Ma scorto al raggio d’immortal favilla
Combatte e vince, e le ribelli forze
120Degli elementi indocili domando,
Il suo trionfo e la possanza estende.
Fra l’umile officina e la superba
Villa si tace la querela antica:
Un dì superba, ora modesta e bella,
125Poi che del basso loco in cui giacea,
Pane chiedendo in atto di mendica,
Levossi in alto la fedel compagna
A confortarla di novella aita,

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E di più ricchi doni a far più lieta
130E più gentile e desïata mostra.
A che del monte la chiomata selva
Fra le nubi agitavasi non tocca
Ancor dai colpi dell’ignota scure,
Se il cavo tronco il lido non radea,
135Nè le conteste travi erano schermo
Ai minacciati lari, e indarno uscía
Da ripercossa selce una favilla?
A che di pietre, di metalli e marmi
Il riposto tesor quando la via
140Si chiuda ad esso, nè ad aprirla inviti
Di scalpelli, d’incudini e di magli
Un fragoroso suon che l’aure assordi?
Corre e ricorre fra le ordite fila
L’agile spola; e propagate intorno
145Crescon le piante dal tenace tiglio,
O dalle molli e lievi e bianche piume;
Cresce la foglia dell’amato gelso
Al baco avventuroso; e un novo armento
Di più morbidi velli il dorso ammanta.
150Indi la tela e il drappo si dipinge
Dei colori che l’Iride dispiega
Pel cielo in arco, e di leggiadre tinte
Recan tributo un fiore, un seme, un’erba,
Ruvide scorze e dispregiate barbe,
155la fronda dell’indaco disciolta,
O l’avara conchiglia, o il mal celato
Insetto che nell’onda ribollendo
Della sanguigna porpora rinnova
L’invidïato onor. Nè il terzo regno
160Della natura il suo tributo nega
All’industre pennel che tempra e mesce
Le rubiconde, azzurre e gialle tinte

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Sì che il mesto color della vïola,
O il volto rancio della tarda aurora,
165O il verde imiti della fresca erbetta.
L’arte, che spreme il lubrico licore
Dai pingui semi e dal fecondo ulivo,
Od i cerati favi e l’importuna
Delle belve pinguedine costringe
170Le timide a fugar ombre notturne,
Apprende come delle uccise belve
La pelle tratta dall’immondo speco
Resista ai colpi del sonante piede,
O in delicati ninnoli si muti
175Il duro corno, e le minugie vili
In corde sottilissime vibrando,
Al dolce tocco di maestre dita,
Spargano intorno armonici concenti,
Onde la innamorata anima vola,
180O volar crede, a più beata sfera.
Opra dell’arte sono il bianco foglio
Che i segni porta del pensiero impressi,
E il nitido sapon ch’ogni sozzura
Terge, od il vetro fragile che nove
185Meraviglie discopre e novi mondi.
Tanto può l’arte umilemente altera,
Luridi cenci a trasformare intenta,
E rancide reliquie e poca arena!
Di amene valli e collinette apriche
190Vanto non meni e delle chiare fonti
L’abitator dell’italo giardino,
Finchè al tiepido Sole in grembo ai fiori
Il fianco adagia, e sonnacchiando aspetta
Che dal soffio gentil scosso di un’aura
195Gli cada il frutto maturato al piede.
Il sereno del cielo e il bel sorriso

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Di primavera a noi dolce richiamo
E primo fanno negli aperti campi
Già delizia di Cerere e di Bacco,
200Benchè al dolce non far quasi devoti
Noi spesso offenda temerario un grido
Di stranie genti per invidia bieche.
Primo studio e conforto e primo amore
La felice de’ campi arte a noi sia,
205Ma non unico e solo. Allor che manchi
O langua il nerbo dei fabbrili ingegni,
La adunata materia il pregio attende
Dal lontano mercato, onde sovente
A terra giace misero rifiuto
210Delle genti che il monte o il mal separa.
Ma rivestita di novella tempra
Nuovo acquista valor dove le amiche
Arti sorelle a lei fanno corona,
Doppia porgendo all’opera mercede
215Del popol vario che in più densa schiera
Alla materia od al lavoro intenda.
Forse le braccia all’officina sacre
Rendon le zolle squallide ed ignude?
A te risponda l’affannosa turba,
220Che i pingui cólti lascia a passo lento,
Fuori cercando un’ozïosa marra
E un pan sudato. Alle ritrose porte
Batte talor delle città superbe
Timidamente e di consiglio priva,
225Di speranza e di aiuto; e tu sdegnoso
Le chiudi in faccia le ferrate porte,
Perchè agli aviti suoi campi ritorni
A lei cari e diletti infin che dato
Fu per essi tracciare un umil solco.
230Oh dura insania! Alla cagion riposta

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Del mal non badi e gli altrui danni aggravi,
Gli occhi tenendo della mente chiusi
Ai veraci rimedi, onde ciascuno,
Come détta l’ingegno, alla sua meta
235Liberamente gareggiando corre.
Qual recondita legge a noi dischiude
Al meglio il varco, e seguitando il vario
Ordine di bisogni e di fatiche,
Il guiderdone al sagrifizio adegua?
240Chi fra i remoti popoli diversi
Di costume, di numero e di loco
Gli uffici innumerevoli comparte
Sì che l’alterno desïar si appaghi
Coll’alterno ricambio? O chi rannoda
245Delle miniere l’improba fatica
All’arte che la gramola trattando
Colma i canestri del ritondo pane,
Onore e vanto delle parche mense?
Dalla fucina affumicata uscía
250Dapprima il ferro; indi il cultore adusto
Armò la destra dell’adunca falce,
Alla fremente macina porgendo
Alfin le biade sventolate e monde.
Quali non valicar pelaghi immensi
255Od ardue vette di montagne eccelse
La bionda lana e il candido cotone
E la droga gentil che li colora;
E quante non provar sorti e cimenti,
Pria che il morbido drappo a noi disciolto
260Di sè facesse varïata mostra?
Tempo già fu che a pubblico decreto,
Più che alunno alla scutica severa
Dell’accigliato e grave pedagogo,
Soggiacquer l’arti timide e bambine,

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265Quasi strozzate fra le strette fasce.
Pur del bel tempo antico una delusa
Od ipocrita gente ancor rimpiange
Le tiranniche usanze, e già si duole
Che non s’arresti e indietro non ritorni,
270Nè di più dense nubi il Sol coperto
Lasci la terra d’ogni luce muta.
Quando a libere gare è aperto il campo,
Allor si compie l’alta meraviglia
Che dell’ordine eterno è a noi suggello
275Nelle fervide lotte, onde s’affida
Cinger la fronte di più ricche palme
Chi meglio segua il corso di sua stella
E gli altri meglio nel cammino avanzi.
E dell’emule gare è questo il frutto,
280Che a più solerti cure ognun intenda
Coll’opra dell’ingegno e della mano,
Al loco adatte, alla possanza, all’uso,
E di più larghi e facili tributi
Del tesoro comune il pregio accresca.