Sole d'estate/Il vestito nuovo
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IL VESTITO NUOVO
Per undici mesi e mezzo dell’anno la signora Lea risparmiava fino al centesimo, facendo anche qualche piccolo imbroglio sulle spese domestiche, per lasciarsi a sua volta rapinare, una volta tanto, dal sarto e dalla modista. Sarto di grande stile, modista elegantissima, celebre per le sue creazioni, che, secondo la sua espressione, donavano alle sue clienti. Uno solo era il vestito, uno il cappello; ma di quelli che veramente avrebbero donato leggiadria e giovinezza a qualsiasi donna, non alla povera signora Lea, già grigia e curva, sebbene non brutta, anzi con un colore di rosa appassita sul viso fine e dolce, e un pallore di gemme sbiadite per mancanza d’uso, negli occhi azzurri e nei denti fra le labbra stanche.
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Per il viaggio, poiché, si capisce, si trattava di un viaggio, ella intanto indossò il vestito dell’anno scorso, anche per non far vedere il nuovo al marito, che con premura paziente e affettuosa l’accompagnò alla placida stazione delle ferrovie vicinali.
— Non hai dimenticato nulla, Lea?
— Nulla, nulla, caro.
Nulla aveva dimenticato, di quello che voleva portare con sé: e d’altronde il treno partiva subito, premuroso e nello stesso tempo tranquillo: treno fatto apposta per viaggiatori come la signora Lea, gente cioè equilibrata e calma, con figli grandi già ben sistemati, con la coscienza pura: gente la cui giornata è trascorsa sempre un po’ grigia, con uno di quei cieli velati che fanno sperare e mai dànno il sole, ma il cui tramonto si presenta mite, con la promessa di un crepuscolo e di una notte infinitamente sereni.
Eppure, appena il piccolo treno s’è arrampicato sulla prima altura, e il vento d’occidente ha chiuso le sue ali fastidiose, la signora Lea, che lo sa, che lo aspetta, sebbene trepidante come i fedeli che attendono il rinnovarsi di un miracolo, rivede il sole nel suo più indicibile splendore. È il sole al tramonto, già lievemente roseo, ma ancora con tutti i suoi raggi; e l’anfiteatro immenso delle valli, e le corone dei monti se ne illuminano con una gioia d’aurora. Il treno adesso sfiora appunto la costa di un poggio, soverchiato da altri ed altri poggi ancora, e la donna, che s’è alzata quasi senza accorgersene e drizzata sulle spalle, rivede dal finestrino, sotto i suoi occhi iridescenti, la fantasmagorìa dei versanti coltivati, con radure che sembrano tappeti orientali, e orti sanguinanti di pomidoro, e vigne e distese di grano dorato: ma sopra tutto la incanta la cresta delle chine verdognole ancora sparse di reliquie vulcaniche che l’orafo del tempo ha lavorato come filigrane d’argento.
Fantasmagorìe, sì; poiché alla svolta della strada tutto sparisce: sparisce il sole, l’orizzonte si fa quasi scuro, la valle si ritira e sprofonda dietro le siepi d’acacia della scarpata, e, d’improvviso, a sinistra, sopra la linea ferroviaria, si solleva un paesaggio più che infernale: uno di quei paesaggi che si vedono riprodotti in qualche giornale illustrato popolare, in mezzo all’articolo di un geologo da strapazzo, col titolo, per esempio: «paesaggio del pianeta Sirio».
Nei panorami lunari e in quelli di Marte, c’è almeno la speranza di un colore equoreo, di una trasparenza di luce: qui tutto invece è morto, opaco e arido. Monti di sassi ferrigni chiudono il breve orizzonte, e da essi precipitano, come getti vulcanici, cascate di pietre scure, che giunte al basso si accumulano, formando colline, promontori, baluardi, e altissime dune in cima alle quali, in un’atmosfera fumosa, uomini neri si agitano come demoni.
Un tetro edifizio sorge in mezzo a questa bolgia: una specie di torre del tormento, un luogo misterioso di supplizio: una scala di ferro, mobile, sale e scende sui fianchi della torre, con un rumore di torrente; e un torrente vi precipita, infatti, accompagnato da nuvole di un fumo denso che altro non è che polvere di pietre stritolate: e pietre stritolate sono le onde del torrente, e tutto è pietra, intorno: anche gli uomini intenti a quest’opera diabolica, e i bovi, i carri, le macchine, tutto sembra balzato dalle viscere del monte, e che sia la forza di espulsione del monte, e non la volontà industre dell’uomo, a creare quel caos che però, a misura che il piccolo treno vi procede sotto scivolando quasi timido, si placa, si ricompone, si armonizza, quasi, prendendo, sul margine alto della strada, forme di piramidi compatte, alle quali il sole, d’un tratto ricomparso sull’orizzonte, dà luccicori di brage.
Sono i cumuli delle selci destinate alle grandi strade del traffico umano.
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Col sole erano riapparsi i boschi di castagni, le valli, i monti che nelle linee degli altipiani turchini davano l’illusione del mare. La donna però guardava sempre a sinistra, come affascinata dal tragico incanto delle piramidi e dei bastioni di selci: finché ai suoi occhi velati, eppure splendenti di una gioia lagrimosa, non apparve una casetta rossa, triangolare, con tre alberelli davanti. Aveva anch’essa qualche cosa di cabalistico, la casetta a punta, con i tre alberi a punta, incisa sul grigio della roccia, sulla quale anzi, tranne la facciata, pareva si sprofondasse.
E alla volta di essa, appena scesa nell’attigua stazione, dove uno sgangherato autobus aspetta invano qualche viaggiatore, la signora si avvia, coi suoi due lievissimi fardelli, seguendo un sentiero in salita, a volte formato di scalini di pietra, a volte pianeggiante sul dorso erboso della china. Anima viva non la precede né la segue: solo l’accompagna la sua lunga ombra che sembra un uccello fantastico, con le ali grottesche dei due allegri fardelli. E di un uccello che ha perduto l’uso e la potenza del volo, ma ancora ne ricorda l’ansito e la voluttà, la signora Lea sente la leggerezza, o almeno la nostalgia: e il profumo delle acacie, i gridi dei fringuelli che salgono dalla valle, quello stesso odore di pietra che emana da ogni cosa, le pare esalino dal suo cuore, col suo respiro ansante di beatitudine.
Poiché ogni sasso, ogni ciuffo di erba, ogni ruga del luogo, e il luogo stesso, tutto è di nuovo suo, come trenta, come cinquanta anni prima. La casetta rossa è di nuovo sua; là è nata, là è morto suo padre, che è stato il primo a scavare le pietre dal monte; là vive ancora la sua vecchia mamma, per la quale ella è sempre la fanciulla di quindici anni che dall’orlo del muricciuolo fissa, al tramonto, i mucchi di selci e sogna di scendere con essi, dalla cima solitaria dei monti, alle grandi strade battute dal ritmo delle passioni umane.
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Oltre il muricciuolo, prima di arrivare alla casetta, in una svolta ripida, ella un tempo aveva un punto di osservazione, sicuro e riparato anche nei giorni d’inverno. Era una buca, un tentativo di scavo non riuscito, a poco a poco trasformatosi in una specie di grotta: una frangia meravigliosa di ginestre fiorite ne inghirlandava l’apertura, e il sole ne verniciava l’interno col suo ultimo chiarore. Ella si fermò là: depose il suo bagaglio su una sporgenza di roccia, si volse a guardare. Laggiù, sotto la linea della strada ferrata, è il piccolo paese già tutto nero nella sua conca, con la chiesa arcigna, la piazza dove stazionano come cariatidi i vecchi che pare non debbano morire mai, la fontana che sembra un grande calamaio traboccante inchiostro sbiadito: un brivido di tristezza ancora le raffredda il sangue al pensiero di dover passare una sola giornata in quel luogo di lenta agonia; e per riconfortarsi solleva gli occhi e guarda di nuovo il sole. Il suo disco di rubino è sospeso sul calice di cristallo viola della cima del monte: un attimo, e tutto si scioglie in una fiamma che a sua volta lentamente si spegne.
Ma la luce era rimasta dentro di lei: e le traspariva dagli occhi, dai capelli, dai denti, dalle labbra ancora pure. Con incoscienza, anzi con un po’ di follìa adolescente, ella aprì la valigietta e ne trasse il vestito, scuotendolo contro l’orizzonte, del quale aveva un po’ il colore rosso già smorto, come una vecchia bandiera di giovinezza. E lì, nella nicchia che già conosceva altre sue trasformazioni, si tolse il vestito logoro di un anno di vita affaticata, e indossò il nuovo. — Per la mamma, — brontolava: — perché la mamma mi veda sempre giovane e viva.
Sentiva bene, però, che si trasformava così per lei stessa, come ad ogni nuova stagione anche i vecchi uccelli si rivestono di nuove piume, per riprender forza al volo della vita.