Degli uffici (volgarizzamento anonimo): differenze tra le versioni

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e della scienza. E già noi abbiamo detto,
e della scienza. E già noi abbiamo detto,
della prima fonte dell’ ufficio.
della prima fonte dell’ ufficio.

Della Giustizia.



Delle tre ragioni le quali restano, lar-
ghissimamente si manifesta quella , per la
quale la compagnia degli uomini tra loro ,
e quasi la communione della vita , si con-
tiene. Della quale due parti sono: la giu-
stizia , nella quale è lo splendore grandis-
simo della virtù , per la quale sono nomi-
nati gli uomini buoni *, e a questa è con-
giunta la beneficenza , la quale medesima-
mente è lecito chiamare benignili, o vero
liberalità. Ma della giustizia è il primo do-
no , che alcuno a nessuno nuoca , se non é
provocato da ingiuria ; dipoi ch’egli usi le
cose comuni per comuni, e le privale come
per sue.

Ma da natura nessune cose sono priva-
te: ma sono private o per antica occupa-
zione, come addiviene a coloro, i quali per
lo passato entrarono nelle cose non posse-
dute ; o per vittoria, com’ è in coloro, i
quali le hanno acquistate per battaglia ; o
per legge j o per patto j o per condizione ;



ìS

o per sorte. Per la qual cosa è fatto che i
campi arpinati sieno detti degli Arpinali , i
tusculani de’Tusculani. £ simile è la divi-
sione delle possessioni private. Per la qual
cosa poicchè ciascuno possiede per suo di
quelle cose , le quali per natura erano state
comuni*, quello che ad alcuno tocca, quello



alcuno tenga. Per questo se alcuno a sé più
appetirà , costui violerà la ragione dell’ u-
mana compagnia.

Ma perchè , come da Platone fu scritto
egregiamente , non a noi soli noi siamo
nati , e del nascimento parte a sé ne attri-
buisce la patria , parte gli amici ; e come
piace agli stoici , quelle cose le quali nelle
terre sono generate , sono create all'uso de-
gli uomini ; e gli uomini sono fatti per ca-
gione degli uomini , acciocché essi tra loro
l’uno faccia prò all'altro ; in questo noi dob-
biamo seguire la natura per guida , e dob-
biamo recare in comune le utilità comuni ,
con permutazione di uffici , dando e riceven-
do ; e , sì colle arti , sì coll’ opera , sì colle
facultà , noi dobbiamo legare la compagnia
degli uomini tra loro.



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CAPO VII.

Della Fede.




Ma il fondamento della giustizia è la fede:
cioè la costanza e la verità di quello che noi
abbiamo detto , o abbiamo pattuito. Per la
qual cosa , benché questo forse parrà a qual-
cuno duro , nientedimeno noi avremo ardire
di seguitare gli stoici , i quali studiosamente
cercano donde le parole sieuo dette : e cre-
deremo che la fede sia chiamata, perchè e’
si fa quello che è detto.

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CAPO Vili.

Due ragioni d'ingiustizia.

Ma due ragioni sono d'ingiustizia: l’una
di coloro i quali muovono l’ingiuria ; l’altra
di coloro, da’ quali non è rimossa l'ingiu-
ria, se da loro si può , quando a loro essa è
fatta. Imperocché chi ingiustamente fa im-
peto contro ad alcuno , commosso o da ira
o da qualche perturbazione, costui par che
metta le mani addosso al compagno. Ma chi



30

non si difeude e non si oppone all’ ingiuria ,
se egli può, tanto è in vizio, quanto se egli
abbandonasse il padre e la madre , o gli ami-
ci, ola patria.



CAPO IT.

Diverse ragioni cC ingiurie.

£ quelle ingiurie, le quali a studio sono
fatte per cagione di nuocere, spesso proce-
dono da paura : quando colui il quale pensa
nuocere a altri , teme cbe se egli non fa
quello, esso non sia preso da qualche in-
comodità. Ma la grandissima parte sono as-
salili al fare l' ingiuria , acciocché essi ac-
quistino quelle cose, le quali eglino hanno
desiderate : nel qual vizio larghissimamente
sì manifesta l’avarizia.

Ma le ricchezze sono desiderate sì agli usi
necessari della vita , e sì all’ usare le vo-
luttà. Ma in chi è maggiore animo, in co-
storo la cupidità delle pecunie ragguarda
alla potenza, e alla facultà del farsi grato.
Come , novellamente , Marco Crasso negava
alcuua roba essere assai grande a colui, il



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quale nella repubblica volesse essere prin-
cipale, se de’ frutti di quella egli non po-
tesse nutricare 1' esercito. Dilettano ancora
i magnifici apparati , e i fornimenti del go-
verno della vita con eleganzia e copia. Per
le quali cose è fatto, che la cupidigia delle
pecunie sia infinita. Ma l’amplificazione della
roba tua non debbe essere ripresa , quando
essa non nuoce ad alcuno ; ma V ingiuria
sempre debbe essere fuggita.

Ma massimamente sono molti indotti , che
dalla dimenticanza della giustizia essi sono
presi , quando essi sono cascati nella cu-
pidigia degli imperii, degli onori, e della
gloria. Imperocché quello che è appresso
a Ennio , nessuna cupidigia del regno è
santa , e non e’ è fede , largamente si ma-
nifesta. Imperocché ciò che è in questo mo-
do , che in quello non si possono fare grandi
più uomini , in tal cosa molte volte si fa
tanta contesa , che malagevolissima cosa sia
conservare la santa compagnia. Tal cosa è
stata dimostrata ora dalla temerità di Caio
Cesare ; il quale ha rivolto tutte le ragioni
umane e divine, per acquistare quello prin-
cipato , il quale con errore di sua opinione



2 *

a sé aveva finto convenirsi. Ma in questa
tal virtù è molesto , che spesse volte negli
animi grandissimi, e negli splendidissimi in*
gegni , sono cupidigie dell’onore , dello im-
perio, della potenza, e della gloria : per
la qual cosa tanto più è da guardarsi, che
in lai cosa non si pecchi.

Ma in ogni ragione d' ingiustizia , molto
si differenzia, se per qualche perturbazione
di animo ( la quale molle volte è breve e
a tempo) o se con consiglio sia fatta l’ingiu-
ria , e pensatamente. Imperocché più leg-
giere sono quelle cose , le quali accaggiono
con subito movimento , che quelle le quali
sono fatte innanzi pensate, e con prepara-
zione. E del muovere ingiuria assai già ne
sia detto.

CAPO x.

Le cagioni della seconda ragione
dell' ingiustizia.

Più sogliono essere le cagioni del lasciare
la difesa , e dell’ abbandonare chi tu sei te-
nuto a difendere. Imperocché questi tali uo-
mini non vogliono ricevere nimicizie , o fati-



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a3

che ,*o spese; ovvero ancora, ciò non fanno
per pigrizia, o per dappocaggine, o perchè
essi non l’apprezzino: ovvero essi da certi
loro studi e occupazioni cosi sono impedi-
ti , che coloro i quali da loro debbono es-
sere difesi, gli abbandonano, e patiscono
che eglino sieno offesi. Adunque è da ve-
dere che non assai è quello che da Platone
fu detto contro i filosofi, che perchè eglino
si rivoltano nella investigazione del vero ,
e spregiano quelle cose le quali molti gran-
demente desiderano , per le quali essi tra
loro combattono, per questo essi stimano
essere giusti. Imperocché conciosiacchè egli-
no conseguitino l’uno modo della giustizia,
che essi non nuocono ad alcuno , essi ca-
scano nell’ altra ingiuria : imperocché im-
pediti dallo studio dello imparare, eglino
abbandonano chi da loro doveva essere di-
feso. E così coloro stimano, ch’eglino non
debbano andare a governare la repubblica,
se non costretti: più giusta cosa era, che
eglino andassi no di loro volontà ; imperoc-
ché quello è giusto il quale è fatto retta-
mente , se egli è volontario.

Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo

Versione delle 19:23, 3 dic 2017

latino

Marco Tullio Cicerone 1840 D Anonimo politica/filosofia/ Letteratura Degli uffici (volgarizzamento anonimo) Intestazione 15 marzo 2016 25% Da definire

Benchè, o Marco figliuolo, a te il quale già un anno hai udito Cratippo, e ciò in Atene, convenga abbondare di precetti e ammaestramenti di filosofia, per la somma autorità del dottore e della città; delle quali due cose , l una, cioè il dottore, te può accrescere di scienza ; e l’altra , cioè la città , di esempi ; nientedimeno come io , a mia utilità , sem- pre congiunsi le cose greche con le latine ; e non solo in filosofia , ma ancora nell’eser- citazione del dire ; quel medesimo mi pare che debba esser fatto da te ; acciocché tu sii pari nella facultà dell’una e l’altra orazione.

Nella qual cosa, com’ei pare, noi abbiamo arrecato grande aiuto agli uomini nostri : chè non solamente i rozzi delle lettere gre- che, ma ancora i dotti stimo avere acqui- stato, e all’ imparare e al giudicare.

Per la qual cosa imparerai dal principal filosofo di quegli dell’età nostra; e impare- rai quanto lungo tempo tu vorrai: ma tanto lungo tempo tu dovrai volere, insino a quanto a te non parrà poco di quanto tu ne faccia prò. Ma nientedimeno tu leggerai le cose nostre, non molto discordantisi da’ peripa- tetici ; imperocché noi vogliamo essere e so- cratici e platonici. Di essi fatti usa il giudicio tuo; imperocché niente io t’impedisco: ma tu farai l'orazione latina per certo più pie- na, dalle cose nostre le quali tu leggerai. jVla io non voglio che questo sia stimato es- sere stato detto arrogantemente. Imperocché io , concedente la scienza del filosofare a mol- ti , quello eh’ è proprio dell’oratore , dire at- tamente e con oi'dine e ornatamente , perchè in quello studio io ho consumato l’età mia, se quello a me io piglio , io paio attribuir- melo quasi di mia ragione.

Per Ja qual cosa molto , o Cicerone mio,


- 3

io ti conforto , che tu non solamente le ora- zioni mie studiosamente legga , ma ancora questi libri di filosofìa , i quali già a quegli quasi si sono pareggiati. Imperocché mag- gior forza è in quegli del dire *, ma ancora questo modo di dire è da essere amato , il quale è con equabilità , e temperato. E que- sto ancora io non veggo essere addivenuto ad alcuno greco, che colui medesimo si affa- ticasse e nell’ uno e nell'altro genere; e che egli conseguitasse e quel modo del dire nel foro, e questo quieto del disputare. Se già Demetrio Falereo non potesse essere in que- sto numero, disputatore sottile, e oratore poco veemente ; nientedimeno dolce in mo- do, che tu potresti conoscere ch’egli è di- scepolo di Teofrasto. Ma noi quanto nell'uno e 1’ altro modo abbiamo fatto prò , giudi- chinlo altri; l’uno e l’altro di certo abbiamo seguitato. E per certo io stimo che se Pla- tone avesse voluto trattare il modo del dire nel foro, egli avrebbe detto gravissimamen- te, e con molta copia. E se Demostene avesse tenute quelle cose, le quali egli aveva impa- rato da Platone , e avessele voluto pronun- ziare, egltT avrebbe potuto fare splendida-



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mente , e con ornato. Nel medesimo modo io giudico di Aristotile e di Socrate: l’uno e l'altro de'quali, dilettatosi del suo studio, spregiò l’altrui.

Ma conciosiacosacchè io avessi deliberato di scrivere a le, in questo tempo, qualcosa di filosofia, e molte cose da quinci innanzi ; io massimamente ho voluto cominciare da quello, che all’età tua fosse attissimo, e alla mia autorità. Imperocché, conciosiacosacchè molte cose sieno in filosofia e gravi, e utili, e diligentemente da’ filosofi disputate, e con abbondanza ; larghissimamente paiono mani- festarsi quelle , le quali da coloro sono state date e insegnate degli uffici. Imperocché nes- suna parte della vita, nè in fatti pubblici, nè in privati, nè in quegli del foro, o di ca- sa , se teco alcuna cosa facessi , o contrat- tassi con altrui, può mancare deH’ufficio: e nell'amar quello è posta ogni onestà della vita, e ogni bruttezza nello spregiarlo.

E questa è comune quistione di tutti i filosofi: imperocché chi è, il quale, quando egli non ha alcuni precetti dell’ufficio , abbia ardire chiamarsi filosofo ? Ma e’ sono alcune discipline, le quali , preposti i fini de'beni


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e de’ mali, rivoltano e abbattono ogni uf- ficio. Imperocché chi ha ordinato il sommo bene , che niente gli abbia congiunto con la virtù , e quello egli misura con suoi com- modi , e uou con 1’ onestà ; costui se a sé egli consenta , e alcuna volta non sia vinto dalla bontà della natura, è fatto che eg i non può amare l’amicizia, nè la giustizia» nè la liberalità. E chi giudica il dolore essere sommo male , in nessuno modo può essere forte; uè temperato può essere chi fa che la voluttà è il sommo bene.

Le quali cose , benché così sieno manife- ste, ch’esse non abbino bisogno di dispu- ta; nientedimeno in un altro luogo da noi sono state disputate. Queste discipline adun- que , se a sè esse vogliono essere consen- zienti , niente esse possono dire dell’ uffi- cio. Nè alcuni precetti possono essere dati fermi, e stabili, e congiunti alla natura, se non da coloro i quali dicono , che solo l’o- nestà debba essere per sè medesima deside- rata ; o da coloro i quali dicono, che quella virtù spezialmente e grandissimamente debba essere per sè medesima desiderata. Adun- que questo è proprio ammaestramento de-



6

gli stoici e accademici e peripatetici ; dap- poiché la sentenza di Aristone e Pirrone ed Erillo , già molto fa , è stata confusa e abbattuta. I quali nientedimeno avrebbono la ragion loro di disputare dell’ ufficio , se eglino a vessi no lasciato qualche elezione delle cose, acciocché si potesse andare all’inven- zione dell'ufficio. Adunque in questo tempo, e in questa quislione, noi spezialmente se- guitiamo gli stoici , non come interpetri , ma come noi vogliamo ; delle fonti loro , con arbitrio e giudizio nostro, attigneremo quanto ci parrà.

CAPO I.

Dell' ufficio , e come si divide.

Piaceci adunque , perché ogni disputa ha a essere dell’ ufficio , innanzi diffinire che cosa sia ufficio : la qual cosa io mi ma- raviglio essere stata lasciata da Panezio. Imperocché ogni ordinamento , il quale di qualche cosa è preso dalla ragione , debbe procedere dalla diffinizione ; acciocché s’in- tenda ciò che sia quello , del quale si di-


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sputa. Ogni quistione dell’ufficio è doppia r uno modo è il quale s' appartiene al line de’ beni ; l’ altro è il quale è posto ne’ pre- cetti , pe’ quali l’ uso della vita possa es- sere confermo in tutte le parti. Del modo di sopra questi sono gli esempi : se tutti gli uffici sono perfetti o no ; e se alcuno di loro è maggiore che l’altro ; e altre cose simili a queste. Ma quegli uffici de’ quali si danno i precetti , benché essi s' appar- tengano al fine de’beni , nientedimeno meno appariscono di cosi essere , perchè essi più ragguardano all’ ammaestramento della vita comune ; de’ quali uffici noi in questi libri dobbiamo con dichiarazione disputare.

E ancora un altra divisione è degli uffi- ci. Imperocché e' si chiama alcuno ufficio mezzo , e alcuno perfetto. Il perfetto uf- ficio io stimo che noi chiamiamo retto; il quale i Greci chiamano catartoma , cioè se- condo dirittura ; ma questo mezzo eglino chiamano comune. E questi uffici così dif- fiuiscono ; chè quello ufficio che sia retto , diffiniscono essere perfetto ; e quello che è mezzo , dicono essere quello , del quale possa essere data probabile ragione perchè egli sia fatto.


s


capo n.


Della deliberazione in pigliare il consiglio.

Di tre parti adunque , come a Panezio pare , è la deliberazione del pigliare il con- siglio. Imperocché gli uomini dubitano , se quello che eglino hanno a fare sia onesto o brutto : e questo cade nella deliberazio- ne ; e in considerar questo , spesso gli ani- mi sono tirati in contrarie sentenze. E an- cora o essi cercano , o essi consigliano alla commodità e giocondità della vita , e alle facoltà delle cose, e alle copie, alle abbon- danze , e alla potenza ; colle quali cose e- glino possouo giovare a sé e a' suoi : e se quello fa utile, del quale eglino delibera- no: la quale deliberazione tutta cade nella ragione dell’ utilità.

E il terzo modo del disputare è , quando quello che pare utile, pare che combatta con quello eli’ è onesto. Imperocché conciosiaco- sacchè T utilità paia a sé rapire , e l' onestà pel contrario paia da sé rimuovere ; si fa che l'Animo nel deliberare si divida , e ar- rechi sollecitudine dubbiosa del pensare.


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9

In questa divisione ( conciosiacosacchè grandissimo vizio sia nel dividere, lasciare alcuna cosa ) due cose sono state lasciate. Imperocché non solamente e’ si suole delibe- rare , se egli è onesto o brutto ; ma ancora , preposti due onesti , se l’uno è più onesto che l’altro. E similmente, preposti due utili, si suole dubitare se l’uno è più utile che l’al- tro. E così quella ragione , la quale colui stimò di essere di tre parti , si trova dover es- sere distribuita in cinque. Primamente dun- que si disputerà dell’ onesto , ma in due mo- di ; e ancora con pari ragione dell'utile ; e dipoi della comparazione tra loro.

CAPO III-

Della forza della natura a fare C onesto,.

Da principio a ogni ragione d'animali è stato attribuito dàlia natura , ch’egli difenda' sé , e la vita , e il corpo ; e isoli i £1 quelle cose, le quali paino di dovere nuocere-, e- tutte quelle cose le quali sieno necessarie- •1 vivere, acquisti e trovi; come è fa pa- sciona, a i covaccioli, e altre simili cosce.


1 o

Ma comune cosa è di tutti gli animali l’ ap- petito della congiunzione , per cagione del procreare ; e alcuna cura di quelle cose , le quali sono state da loro procreate. Ma tra l’ uomo e la bestia è singolarmente que- sta differenza , che la bestia tanto si muove, quanto dal senso essa è mossa ; a quello eh e presente , e a quello che l’ è innanzi si ac- comoda , poco avvedentesi del preterito e del futuro: ma l’uomo, perchè egli è par- tecipe della ragione , per la quale egli vede le cose conseguenti , e conosce le cagioni delle cose, e i progressi di quelle, e quasi sa quelle cose le quali innanzi vadano, e agguaglia le similitudini , e alle cose pre- senti aggiugne e annoda le future ; facil- mente vede il corso di tutta la vita , e al governo di quella egli apparecchia le cose necessarie. Questa medesima natura colla iorza della ragione concilia 1’ uomo all’uo- mo , alla compagnia e del parlare e della vita : e ingenera , traile prime cose , uno pre- cipuo amore in coloro , i quali sono stati procreati ,• e commuovegli che le brigate degli uomini vogliano essere insieme , e tra se ricercarsi. E per queste cagioni tali ra-


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II


gunate si studiano trovare e acquistare quelle cose, le quali sovvengono al vivere, e al vestire , e al governarsi ; e non solamente a sè solo , ma alla moglie , a’ figliuoli , e a tutti quegli altri , i quali esse abbino cari , e debbino difendere. La quale cura desta ancora gli animi , e fagli maggiori al fare le cose.

E tra le prime cose nell’ uomo , è pro- pria cosa il cercare e T investigare il vero. E così quando noi siamo voti di necessarie cure e faccende, allora noi desideriamo ve- dere qualche cosa , e udire , e imparare ; e stimiamo che la cognizione delle cose o occulte o mirabili, sia necessaria al vivere beatamente. Per la qual cosa s’intende , che quello che è vero e semplice e puro , è attis- simo alla natura dell’ uomo.

A questa cupidigia del vedere il vero è aggiunto un certo desiderio del principato; che l’ animo bene informato dalla natura non voglia ubbidire ad alcuno , se non a \jhi insegna o ammaestra, o, per cagione di suo utile, legittimamente comanda e con giustizia. Della qual cosa è la grandezza del- l' anima , e lo spregiare le cose umane.


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Ma nè quella è piccola forza della na- tura e della ragione , che solo questo ani- male conosce che cosa sia ordine , e che cosa sia quella la quale si confà ne' detti e ne' fatti, e che è misura. E così nessuno altro animale conosce la bellezza e la pu- litezza di quelle cose , le quali sono cono- sciute per l’aspetlo, nè la convenienza delle parti. La qual similitudine , la natura e la ragione dagli occhi trasferendo allonimo, molto più ancora stima dovere esser con- servata la bellezza , e la costanza , e l’or- dine ne’ consigli e ne’ fatti: e guardasi che nessuna cosa esso faccia effeminatamente, e con isconvenienza : e ancora che cosa non faccia, o non pensi alcuna cosa libidinosa- mente , nè in tutti i fatti , e in tutte le opinioni. Per le quali cose si congrega e fassi quell’ onesto , che noi cerchiamo : il quale se non fosse nobilitato, nientedimeno sarebbe onesto: e quello che in verità noi diciamo , che benché da nessuno egli fosse lodato , nientedimeno egli per natura sa- rebbe laudabile.


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« i


CAPO IV.


Belle quattro virtù , onde nascono gli uffici.


Tu, o Marco, ora vedi la forma di essa onestà : la quale se cogli occhi fosse vedu- ta , maravigliosi amori , come disse Pla- tone , commoverebbe. Ma ogni cosa che é onesta , quella nasce da alcuna delle quat- tro parti: imperocché o esso onesto si ri- volta nel ragguardamento del vero, e nella sollecitudine di quello ; o in difendere la compagnia umana , e nell’ attribuire a cia- scuno il suo, e nella fede delle cose contrat- tate 5 o nella grandezza e fortezza dell’ a- nimo invitto ed eccelso ; o nell’ ordine e modo di tutte le cose , le quali si fanno o diconsi , nel quale è la modestia e la tem- peranza.

Le quali quattro cose , benché tra loro sieno avviluppate e collegate, nientedimeno di ciascuna per sé nascono certe ragioni di uffici. Come , da quella parte la quale prima fu descritta , nella quale noi pognia- mo la sapienza e la prudenza , in quella dentro è il cercare e il trovare la verità :



H

e di queste virtù questo è il proprio dono.

Imperocché come ciascuno massimamente conosce quello , che in ciascuna cosa sia ve- rissimo , e il quale acutissimamente e bene può e vedere e sviluppare la ragione , co- stui rettamente suol essere tenuto pruden- tissimo e saviissimo. Per la qual cosa a co- stei è suggetta la verità , quasi materia la quale essa tratti, e nella quale essa si ri- volghi.

Ma alle altre tre , che restano , sono pre- poste le necessità all’ acquistare e al difen- dere quelle cose , nelle quali è contenuto il governo della vita ; acciocché e la con- giunzione e la compagnia degli uomini sia conservata; e l’eccellenza e grandezza del- l’animo riluca , sì nell’ accrescere le abbon- danze , e nell' acquistare l'utilità e a sé e a' suoi ; sì molto più nello spregiare quelle. Ma l’ ordine , e la costanza , e la modera- zione , e altre cose le quali sono simili a queste , si rivoltano in quella ragione , alla quale debba essere dato un certo fare, e non solamente il rivoltare la mente. Impe- rocché quando noi aggiugneremo un certo modo e ordine alle cose, le quali sono trat-


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i5

tate nella vita , noi conserveremo la con- venienza e 1' onestà.

capo v.

• L- a « c: ■ jj*,S ’WV» oJib

Della Prudenza.

De’ quattro luoghi, ne' quali noi abbiamo diviso la natura e la forza dell’onesto , quello primo , il quale sta nella cognizione del ve- ro , massimamente tocca la natura umana. Imperocché tutti siamo tirati e siamo me- nati alla cupidigia della cognizione e della scienza ; nella quale noi stimiamo esser cosa bella eccellere : ma trascorrere , errare , essere ingannato , e non sapere , noi diciamo essere cosa trista e brutta. In questa ra- gione naturale e onesta , due vizi debbono essere schifati : l’ uno , che noi non abbia- mo le cose incognite per le conosciute ; il qual vizio chi lo vorrà fuggire ( ma tutti debbono volere) aggiugnerà, al considerare le cose, tempo e diligenza. L’altro vizio è, che alcuni mettono troppo grande studio, e troppo molta opera nelle cose oscure e malagevoli, e nientedimeno non necessarie.


t6

Ma , schifati questi vizi , ciò che di cura e di opera sarà posto nelle cose oneste e degne di cognizione , quello sarà ragionevolmente lodato. Come in astrologia noi abbiamo o- dito aver fatto Caio Sulpicio ; e in geo- metria conoscemmo fare Sesto Pompeo ; e molti in loica ; e più in ragion civile : le quali arti tutte consistono nell' investigazio- ni del vero; per lo studio del quale, ri- muoversi dal fare le faccende , è contro al- l'ufficio. Imperocché ogni loda di virtù con- sista nel faccimeuto : dal quale nientedime- no spesso si fa intermissione , e molte ri- tornate sono date agli studi. Ancora il com- movimento della mente , il quale mai non si riposa , può contenere noi negli studi del pensare, ancora senza nostra opera. Ma ogni pensiero e movimento di animo sarà rivolto, o nel pigliare i consigli delle cose oneste , e appartenenti al bene e beata- mente vivere, o negli studi della cognizione e della scienza. E già noi abbiamo detto, della prima fonte dell’ ufficio.

Della Giustizia.


Delle tre ragioni le quali restano, lar- ghissimamente si manifesta quella , per la quale la compagnia degli uomini tra loro , e quasi la communione della vita , si con- tiene. Della quale due parti sono: la giu- stizia , nella quale è lo splendore grandis- simo della virtù , per la quale sono nomi- nati gli uomini buoni *, e a questa è con- giunta la beneficenza , la quale medesima- mente è lecito chiamare benignili, o vero liberalità. Ma della giustizia è il primo do- no , che alcuno a nessuno nuoca , se non é provocato da ingiuria ; dipoi ch’egli usi le cose comuni per comuni, e le privale come per sue.

Ma da natura nessune cose sono priva- te: ma sono private o per antica occupa- zione, come addiviene a coloro, i quali per lo passato entrarono nelle cose non posse- dute ; o per vittoria, com’ è in coloro, i quali le hanno acquistate per battaglia ; o per legge j o per patto j o per condizione ;


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o per sorte. Per la qual cosa è fatto che i campi arpinati sieno detti degli Arpinali , i tusculani de’Tusculani. £ simile è la divi- sione delle possessioni private. Per la qual cosa poicchè ciascuno possiede per suo di quelle cose , le quali per natura erano state comuni*, quello che ad alcuno tocca, quello


alcuno tenga. Per questo se alcuno a sé più appetirà , costui violerà la ragione dell’ u- mana compagnia.

Ma perchè , come da Platone fu scritto egregiamente , non a noi soli noi siamo nati , e del nascimento parte a sé ne attri- buisce la patria , parte gli amici ; e come piace agli stoici , quelle cose le quali nelle terre sono generate , sono create all'uso de- gli uomini ; e gli uomini sono fatti per ca- gione degli uomini , acciocché essi tra loro l’uno faccia prò all'altro ; in questo noi dob- biamo seguire la natura per guida , e dob- biamo recare in comune le utilità comuni , con permutazione di uffici , dando e riceven- do ; e , sì colle arti , sì coll’ opera , sì colle facultà , noi dobbiamo legare la compagnia degli uomini tra loro.


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CAPO VII.

Della Fede.



Ma il fondamento della giustizia è la fede: cioè la costanza e la verità di quello che noi abbiamo detto , o abbiamo pattuito. Per la qual cosa , benché questo forse parrà a qual- cuno duro , nientedimeno noi avremo ardire di seguitare gli stoici , i quali studiosamente cercano donde le parole sieuo dette : e cre- deremo che la fede sia chiamata, perchè e’ si fa quello che è detto.

! ■ X : !\ ;„'Y ; • ('J • . ■ . t • * i % ‘ ( I *!* *

CAPO Vili.

Due ragioni d'ingiustizia.

Ma due ragioni sono d'ingiustizia: l’una di coloro i quali muovono l’ingiuria ; l’altra di coloro, da’ quali non è rimossa l'ingiu- ria, se da loro si può , quando a loro essa è fatta. Imperocché chi ingiustamente fa im- peto contro ad alcuno , commosso o da ira o da qualche perturbazione, costui par che metta le mani addosso al compagno. Ma chi


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non si difeude e non si oppone all’ ingiuria , se egli può, tanto è in vizio, quanto se egli abbandonasse il padre e la madre , o gli ami- ci, ola patria.


CAPO IT.

Diverse ragioni cC ingiurie.

£ quelle ingiurie, le quali a studio sono fatte per cagione di nuocere, spesso proce- dono da paura : quando colui il quale pensa nuocere a altri , teme cbe se egli non fa quello, esso non sia preso da qualche in- comodità. Ma la grandissima parte sono as- salili al fare l' ingiuria , acciocché essi ac- quistino quelle cose, le quali eglino hanno desiderate : nel qual vizio larghissimamente sì manifesta l’avarizia.

Ma le ricchezze sono desiderate sì agli usi necessari della vita , e sì all’ usare le vo- luttà. Ma in chi è maggiore animo, in co- storo la cupidità delle pecunie ragguarda alla potenza, e alla facultà del farsi grato. Come , novellamente , Marco Crasso negava alcuua roba essere assai grande a colui, il


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quale nella repubblica volesse essere prin- cipale, se de’ frutti di quella egli non po- tesse nutricare 1' esercito. Dilettano ancora i magnifici apparati , e i fornimenti del go- verno della vita con eleganzia e copia. Per le quali cose è fatto, che la cupidigia delle pecunie sia infinita. Ma l’amplificazione della roba tua non debbe essere ripresa , quando essa non nuoce ad alcuno ; ma V ingiuria sempre debbe essere fuggita.

Ma massimamente sono molti indotti , che dalla dimenticanza della giustizia essi sono presi , quando essi sono cascati nella cu- pidigia degli imperii, degli onori, e della gloria. Imperocché quello che è appresso a Ennio , nessuna cupidigia del regno è santa , e non e’ è fede , largamente si ma- nifesta. Imperocché ciò che è in questo mo- do , che in quello non si possono fare grandi più uomini , in tal cosa molte volte si fa tanta contesa , che malagevolissima cosa sia conservare la santa compagnia. Tal cosa è stata dimostrata ora dalla temerità di Caio Cesare ; il quale ha rivolto tutte le ragioni umane e divine, per acquistare quello prin- cipato , il quale con errore di sua opinione


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a sé aveva finto convenirsi. Ma in questa tal virtù è molesto , che spesse volte negli animi grandissimi, e negli splendidissimi in* gegni , sono cupidigie dell’onore , dello im- perio, della potenza, e della gloria : per la qual cosa tanto più è da guardarsi, che in lai cosa non si pecchi.

Ma in ogni ragione d' ingiustizia , molto si differenzia, se per qualche perturbazione di animo ( la quale molle volte è breve e a tempo) o se con consiglio sia fatta l’ingiu- ria , e pensatamente. Imperocché più leg- giere sono quelle cose , le quali accaggiono con subito movimento , che quelle le quali sono fatte innanzi pensate, e con prepara- zione. E del muovere ingiuria assai già ne sia detto.

CAPO x.

Le cagioni della seconda ragione dell' ingiustizia.

Più sogliono essere le cagioni del lasciare la difesa , e dell’ abbandonare chi tu sei te- nuto a difendere. Imperocché questi tali uo- mini non vogliono ricevere nimicizie , o fati-


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che ,*o spese; ovvero ancora, ciò non fanno per pigrizia, o per dappocaggine, o perchè essi non l’apprezzino: ovvero essi da certi loro studi e occupazioni cosi sono impedi- ti , che coloro i quali da loro debbono es- sere difesi, gli abbandonano, e patiscono che eglino sieno offesi. Adunque è da ve- dere che non assai è quello che da Platone fu detto contro i filosofi, che perchè eglino si rivoltano nella investigazione del vero , e spregiano quelle cose le quali molti gran- demente desiderano , per le quali essi tra loro combattono, per questo essi stimano essere giusti. Imperocché conciosiacchè egli- no conseguitino l’uno modo della giustizia, che essi non nuocono ad alcuno , essi ca- scano nell’ altra ingiuria : imperocché im- pediti dallo studio dello imparare, eglino abbandonano chi da loro doveva essere di- feso. E così coloro stimano, ch’eglino non debbano andare a governare la repubblica, se non costretti: più giusta cosa era, che eglino andassi no di loro volontà ; imperoc- ché quello è giusto il quale è fatto retta- mente , se egli è volontario.

Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo