Degli uffici (volgarizzamento anonimo): differenze tra le versioni

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Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo
Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo
24

studio delle loro cose familiari , e per odio •
di alcuni uomini , dicono che fanno loro
faccende , acciocché eglino non paiano di
fare ingiuria ad alcuno : i quali mancano
dell’uno modo dell’ ingiustizia , e incorrono
nell’altro. Imperocché essi abbandonano la
compagnia della vita ; perchè in colei nien-
te eglino conferiscono di studio, niente di
opera , e niente di facultà. Perché adun-
que, preposte due ragioni d'ingiustizia , noi
abbiamo aggiunto le cagioni dell’ una e del-
l’altra 5 e innanzi noi ordinammo quelle co-
se , nelle quali è contenuta la giustizia ; a-
gevolmente noi potremo giudicare che tem-
po sia di ciascuno ufficio, se già noi molto
non amiamo noi medesimi. Imperocché la
cura delle altrui cose è malagevole : benché
quel Cremete di Terenzio, nessuna cosa u-
mana stima da sé essere aliena. Ma nien- .
tedimeno perchè più noi pigliamo e cono-
sciamo quelle cose, le quali a noi accaggiono
prospere o avverse, che quelle le quali ad-
divengono agli altri ; le quali noi veggia-
mo , quasi interpostovi un lungo spazio ;
altrimenti noi giudicheremo di loro , che
dì noi. Per la qual cosa bene comandano



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<



2 $



coloro, i quali 'vietano che tu faccia alcuna
cosa , la quale tu dubiti se ella è giusta o
ingiusta : imperocché T equità per sé me-



Ma spesse volte accaggiono tempi, quando
quelle cose le quali massimamente paiono
essere degne del giusto uomo , e di colu
>1 quale noi chiamiamo uomo buono, sono
fatte contrarie: come è rendere il deposito
e fare la promessa. Le quali cose, perchè
esse si appartengono alla verità e alla fe-
de , negare alcuna volta e non osservare ,
si fa giusta cosa. Imperocché ei si confà
eh’ esse sieuo riferite a quelli fondamenti
della giustizia, i quali io posi nel princi-
pio : primamente eh’ ei non si nuoca ad al-
cuno ; dipoi che si serva all' utilità comune.
Quelle cose col tempo si mutano , e si muta
1' ufficio , e non è sempre il medesimo.



desima riluce; e il dubitare dimostra pen-
siero d’ingiuria.






CAPO XI.



T



Come P ufficio si muta , e non è sempre
il medesimo.



a





Mht




26

£ può ancora accadere che alcuna pro-
messa c convegna sia disutil cosa a essere fat-
ta , o a colui a chi è stato promesso , o a
colui il quale ha promesso. Imperocché se
( com’è nelle favole ) Nettuno non avesse
fatto quello ch'egli aveva promesso a Teseo-,
Teseo non sarebbe stato privato del suo fi-
gliuolo Ippolito. Imperocché, come si scri-
ve, di tre desiderate dimande, questa era
la terza, che adirato, egli desiderò della
morte di Ippolito : la quale impetrata , egli
cascò in grandissimi pianti.

Adunque quelle promesse non debbono
essere osservate , le quali sieno disutili a
coloro a’ quali tu V hai promesse : nè an-
cora se a te esse più nuocono , ch’esse non
fanno prò a colui , al quale tu hai promes-
so. Contro all’ ufficio è, il maggior danno
essere anteposto al minore. Come se tu a-
vessi ordinato andare avvocato a un fatto
presente, e in questo mezzo il tuo figliuolo
avesse cominciato ammalare gravemente ,
non è contro all’ufficio non fare quello che
tu avevi ordinato. E più si partirebbe co-
lui dall’ufficio, al quale tu avevi promesso-,
se si dolesse essere stato lasciato. Or chi già



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27

non vede che in quelle promesse non si deb-
ba stare, le quali alcuno, costretto da pau-
ra , o ingannato con fraude , avrà promes-
so? le quali, molle sono liberate per la ra-
gione del pretore , e alcune per le leggi.

" C ^ ' ' «li iV(

CAPO XII.

Della malizia nell' intcrpeirarc la ragione.

Fannosi ancora spesso ingiurie per una
certa calunnia, e per la troppa scaltrita e
maliziosa interpetrazione della ragione : on-
de , somma ragione , somma ingiuria , è
fatto proverbio già molto trito. Nel qual
modo ancora nella repubblica si fanno molti
peccati. Come colui, il quale quando le trie-
gue erano fatte per trenta di , rubava la
notte i campi ; e diceva , che le triegue e-
rano fatte de’ dì, e non delle notti. E an*
cora non debbe essere lodato , se egli è ve-
ro , quel nostro Fabio Labeone , ovvero
qualche altro (imperocché io non ho altro
che l’udito ) il quale, dato dal senato arbi-
tro a’ Nolani e a’ Napoletani de’ contini dei
loro campi , quando veane al luogo ordì-




2$

nato , parlò separatamente coll' una parie e
1' altra : e questo era , eh’ eglino non vo-
lessino o fare o appetire alcuna cosa cupi-
damente; e che piuttosto volessino andare
a dietro , che ire innanzi. E quando co-
loro ebbono fatto questo, come costui aveva
detto , nel mezzo avanzò alquanto spazio di
terreno : e così egli terminò i confini di co-
storo , come essi avevano detto ; e quello
ch'era avanzalo in mezzo, giudicò che do-
vesse essere del popolo romano. Ma questo
è ingannare e non giudicare. Per la qual cosa
in ogni faccenda debbe essere fuggita tale
sottigliezza.

CAPO XIII.

Degli uffici verso gl' ingiuriatiti.

Sono ancora certi uffici i quali debbono
essere osservati inverso coloro , da' quali tu
avrai ricevuto T ingiuria. Imperocché e’ ci è
il modo del vendicare , e del punire. E non
so se egli è assai , che colui il quale ha in-
giuriato , si penta dell'ingiuria; acciocché
< sso da quinci innanzi non più faccia tal
cosa, e gli altri sieno all'ingiuria più tardi.



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29

E nella repubblica spezialmente debbono
essere conservate le ragioni della guerra.
Imperocché conciosiacosacchè ei sieno due
ragioni di combattere, l’una per deputa-
zione , e l’ altra per forza 5 e conciosiaco-
sacchè quella propriamente s’appartenga al-
l’ uomo , e questa alle bestie ; si debbe ri-
fuggire a questa di dopo, se non è lecito
usare quella di sopra.

Per la qual cosa le guerre debbono es-
sere prese per questa cagione , che senza
ingiuria si viva nella pace. Ma, acquistata
la vittoria, debbono essere conservati colo-
ro , i quali non furono crudeli nella guer-
ra , nè disumani : come gli antichi nostri
ancora nella città ricevettono i Tusculani,
gli Equi, i* Volsci , i Sabini, gli Eurici ;
ma Cartagine e Numanzia mandarono a ter-
ra insino a’ fondamenti. Io non vorrei che
eglino avessino fatto così di Corinto : ma
io credo che alcuni considerarono all’ op-
portunità del luogo ; acciocché esso luogo
non potesse qualche volta confortare a muo-
ver guerra. Ma a mio parere sempre si con-
siglierà alla pace ; la quale niente sia da do-
vere avere d’ inganno. Nella qual cosa se




3o

a me fosse stalo obbedito, se noi non aves-
simo ottima repubblica, almeno noi l’avrem-
mo qualcuna , la quale ora è niuna. E a
coloro ancora si debbe fare prò , i quali
'per forza tu hai vinto: e coloro debbono
essei’e ricevuti , i quali, poste giù Tarmi ,
fuggiranno alla fede degli imperadori; ben-
ché dall’ ariete sieno state percosse le loro
mura. Nella qual cosa tanto appresso agli
antichi nostri fu amata la giustizia , che co-
loro i quali nella fede avessino ricevute le
città e le nazioni , vinte per la guerra, fus-
sino difensori di quelle, secondo il costu-
me degli antichi.

E l’equità della guerra santissimamente
è ordinata , per la ragione feciale del popolo
romano. Dalla qual cosa può essere inteso,
che niuna guerra è giusta , se non è quella
che è fatta per le cose addimandate , o che
innanzi essa sia stata denunziata , e coman-
data. Pompilio imperadore teneva la provin-
cia , nell’esercito del quale campeggiò il fi-
gliuolo di Catone, nuovo soldato. Ma con-
ciosiacosacchò a Pompilio paresse licenziare
una legione, licenziò ancora il figliuolo di
Catone, il quale campeggiava in quella. Ma

3i

perchè per voglia del combattere colui ri-
mase nell’ esercito ; Catone scrisse a Pompi-
lio, che se pativa che colui rimanesse nel-
l’esercito, ch’egli l'obbligasse col secondo
sacramento; perchè, perduto il primo, egli
non poteva di ragione combattere col nimi-
co. Così era somma osservanza nel muovere
la guerra.

Di Marco Catone vecchio ci è una pistola
al figliuolo: nella quale egli scrive, che egli
ha udito come egli è stato licenziato dal con-
sole, conciosiacchèegli era soldato nella guer-
ra macedonica ; adunque egli Pammunisce,
ch’egli si guardi, che egli non pigli la zuf-
fa. Imperocché egli dice , che e’ non è di ra-
gione, che colui il quale non sia soldato com-
batta col nimico.

Quello ancora io considero, che colui il
quale nel proprio nome era perduelle , fusse
chiamato oste ; la leggerezza del vocabolo
mitigante la tristizia del fatto. Imperocché
appresso agli antichi nostri, oste era chia-
malo colui , il quale ora noi chiamiamo pe-
regrino. Questo dimostrano le dodici tavo-
le, ove era, il di ordinato coll'oste: e an-
cora , 1' eterna autorità inverso l' oste. Or



che può essere aggiunto a tanta mansuetudi-
ne , che colui col quale tu combatta , sia
chiamato con si piacevole nome? benché l’an-
tichità già ha fatto questo nome duro. Impe-
rocché e’ s’ è partito dal peregrino, ed è ri-
masto propriamente in colui , il quale con-
tra ci arreca l’ arme.

CAPO XIV.

Che le cagioni della guerra hanno a essere
giuste., e della Jede verso i nimici.

Ma quando e’ si combatte dell’imperio, e
per guerra è cercala la gloria , bisogna nien-
tedimeno che vi sieno le cagioni delle guer-
re, e quelle giuste 5 come poco innanzi io
dissi. Ma quelle guerre nelle quali è propo-
sta la gloria dell’ imperio, debbono essere
fatte meno acerbamente. Imperocché, come
quando noi contendiamo civilmente, altri-
menti noi contendiamo se egli è nimico, e
altrimenti se egli addimanda il medesimo che
noi: coll’uno è il combattimento dell’onore
e della dignità , coll’altro è del capo e della
fama. Co’ Celtiberi e Cimbri si faceva la



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guerra come con nimici; cioè chi rimanesse
vivo, e non chi signoreggiasse. Co’ Latini,
e Sanniti, con gli Affricani, con Pirro si
combatteva dell'imperio. Gli Affricani fu-
rono rompitori di fede - , Annibaie fu crude-
le ; tutti gli altri furono giusti. Di Pirro ci
è quella bella sentenza del rendere i prigio-
ni : A me io non addomando oro ; a me voi
non darete prezzo. Noi non facciamo merca-
tanzia della guerra , ma noi siamo combat-
tenti. Col ferro e non con oro combattiamo
Cuna parte e l' altra. Proviamo colla virtù
chi la fortuna padrona vuole che signoreg-
gi , o voi o io, e (juello che arrechi la sorte.
Alla virtù di chi la fortuna della guerra ha
perdonato , alla libertà di coloro a me è certa
cosa perdonare. Toglietevegli in dono , e dò-
vegli f, volenti i grandi Iddii. Questa sentenza
per certo fu di re , e degna della stirpe dei
discesi di Eaco.

E ancora se noi da ciascuni tempi condot-
ti, avremo promesso alcuna cosa a’ nimici,
in quello debbe essere conservata la fade.
Come nella prima guerra affricana, Regolo
preso da’ Cartaginesi , quando da loro ei fu
mandato a Roma per barattare i prigioni , e



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aveva giurato di tornare , se ciò non si face-
va. Primamente come egli venne nel senato ,
giudicò che i prigioni non si dovcssino ren-
dere ; dipoi , conciosiacosaccbè egli fosse rite-
nuto da'suoi , e dagli amici , e da' propinqui,
più tosto volle tornare al tormento , che fal-
lire la fede data al nimico. E degli uffici della
guerra assai già si è detto.

capo xy.

Della giustizia verso gl'inferiori.

Ricordiamoci poi che la giustizia ancora
inverso gl’ infimi debbe essere osservata. Ma
la condizione e fortuna de' servi è infima.
I quali servi , coloro i quali comandano
ch’eglino sieno usati come mercenai al ri-
scuotere l’opéra , e al dare al loro affare cose
giuste , non male comandano. Ma conciosia-f
cosacchè in due modi si faccia l’ingiuria , cioè
colla fraude e colla violenza ; la fraude pare
quasi proprietà della volpe , e la violenza
del lione : l’una e l’altra è alienissima dal-
l’ uomo ; ma la fraude è degna di maggiore
odio. Ma d’ ogni ingiustizia nessuna è più



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capitale , che quella di coloro , i quali quando
massimamente ingannano, quello fanno che
essi paiono essere buoni. Assai si è detto della
giustizia.

CAPO XVI.

•A(| w *i.' i > Vi l . li i ( Jit <■' O J * *1)

Della Liberalità.

• * ; 1 1 , M ì ;

Di quinci, come si era proposto, dicasi
della beneficenza e liberalità ; della quale
niente è alla natura dell’uomo più accomo-
dato. Ma essa ha molte cautele. Imperocché
prima si debba vedere che la benignità non
nuoca , e a coloro medesimi a’quali parrà do-
vere essere fatto benignamente, e agli altri:
dipoi che la benignità non sia maggiore che
la facultà : la terza è che a ciascuno si dia se-
condo la dignità. Imperocché questo è il fon-
damento della giustizia ; alla quale debbono
essere riferite tutte queste cose. Imperocché
coloro i quaii nel gratificare nuocono a chi
eglino mostrano volere fare prò , non deb-
bono essere chiamati beneficatori e liberali,
ma dannosi assentatori : e coloro i quali
nuocono agli altri , acciocché inverso altri
essi sieno liberali , sono nella medesima in-




36

giustizia , come se eglino la roba altrui con-
vertissino nella sua. Ma e sono molti cupidi
dello splendore e della gloria , i quali tolgono
a altri quello che a altri essi donino. A co-
storo pare essere beneficatori degli amici, se
coloro egli arricchiscono in qualunque mo-
do : ma questo tanto si discosta dall'uificio,
che all' ufficio niente possa essere più contra-
rio. Vuoisi adunque vedere che noi usiamo
quella liberalità , la quale faccia prò agli a-
mici , e non nuoca ad alcuno. Per la qual cosa
il trasferimento di Lucio Siila e di Caio Ce-
sare delle pecunie , da’ giusti padroni agli
alieni , non dehhe parere liberale; imperoc-
ché niente è liberale , che medesimamente
non sia giusto.

CAPO XVII.

Delle cause della seconda cautela.

L’ altra cautela era , che la benignità non
fosse maggiore che le facultà. Perchè coloro
i quali vogliono essere più benigni che non
patisce il fatto loro , primamente in questo
peccano , eh' essi fanno ingiuria a' prossimi.



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Imperocché costoro trasferiscono alle genti
aliene quella roba , la quale più ragionevol-
mente doveva essere in aiuto , e essere lascia-
ta a quegli prossimi. Ma in tale liberalità
molte volte è la cupidigia del rapire e dello
involare ; acciocché le abbondanze bastino
al donare. Ma egli è lecito che noi veggiamo
molti, i quali non tanto per natura liberali,
quanto indotti da una certa gloria , acciocché
essi paiano benefìcatori , fanno molte cose,
le quali paiono più venire da ostentazione
che da volontà. Ma tale simulazione è più
congiunta alla vanità , che alla liberalità o
onestà.

CAPO XVIII.

Che si debba osservare nella cautela.

La terza cosa fu proposta che nella be-
neficenza noi facessimo secondo la dignità.
Nella qual cosa i costumi di colui saranno
considerati, nel quale sia conferito il bene-
fìcio , e l'animo ancora inverso noi ; e an-
cora sarà considerata la comunione, e la
compagnia della vita con noi , e i beneficii
innanzi fatti inverso noi. Le quali cose, se




38

tutte concorreranno , è cosa da desiderarla;

se non , le più cagioni e maggiori avranno
più di peso.

Ma e perchè si vive cogli uomini non per-
fetti e pienamente savi ; ma con coloro, nei
quali si fa qualche cosa egregiamente , se
pure che ivi sono l’effìgie della virtù ; que-
sto ancora io stimo che debba essere inteso,
che uessuno di coloro debba essere spregia-
to , nel quale apparisca qualche dimostra-
zione di virtù ; e massimamente se egli sarà
ornato di queste virtù leggiere, cioè della
modestia , e temperanza , e di quella me-
desima giustizia, della quale già sono state
dette molte cose. Imperocché l’animo forte
e grande molte volte è più fervente in un
uomo non perfetto nè savio : ma quelle vir-
tù paiono più tosto toccare il buon uomo.
E queste cose ne’ costumi sono considerate.



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CAPO XIX.



O:



39

Della benevolenza e de' benejìcii per nostra
utilità dati 1 e che nella benijìcenza
si debba attendere accostumi.

Ma della benevolenza la quale alcuno ab-
bia inverso noi , quello prima è nell’ uffi-
cio, che a colui molto noi diamo, dal quale
molto noi siamo amati. Ma la benevolenza
noi giudicheremo npn come i giovanetti ,
con un certo ardore di amore , ma piutto-
sto con stabilità e costanza. Ma se i meriti
vi saranno , sicché la grazia sia da essere
renduta e non presa , maggiore cura debbe
essere aggiunta: perocché nessuno ufficio è
più necessario, che rendere la grazia. Chè
se , come dice Esiodo , tu debbi ( purché tu
possa ) rendere con maggiore misura quelle
cose , le quali tu hai ricevute per usare 5
or che dobbiamo noi fare , quando noi sia-
mo provocati del beneficio ? Or dobbiamo
noi fare come fanno i grassi campi , i quali
molto più rendono eh' essi non hanno ri-
cevuto? Imperocché se noi non dubitiamo
fare i beneficii inverso coloro , i quali noi



4o

speriamo doverci far prò ; or quali dobbia-
mo noi essere inverso coloro, i quali già a
noi hanno fatto prò ? Imperocché concio-
siacosaccbè due sieno le ragioni della libe-
ralità , luna del dare il beneficio, l'altra
del renderlo ; se noi diamo o no, è in no-
stra potestà ; ma il non renderlo , non é
lecito al buon uomo , se pure eh* egli lo
possa fare senza ingiuria.

: . ì. ’ . ..! òMoa

CAPO. XX.

Quale scelta si debba avere ne' ricevuti
beneficii.

£ de’ beneficii ricevuti debbe essere fatta
6celta : e non è dubbio che a ciascuno gran-
dissimo , noi grandissimamente non siamo
tenuti. Nella qual cosa nientedimeno, pri-
mamente debbe essere pensato con che ani-
mo, studio, o con che benevolenza alcuno
avrà fatto quel beneficio inverso noi. Im-
perocché molti fanno molte cose senza con-
siderazione , o senza misura , inverso ognu-
no , o commossi da un subito impeto d’ani-
mo, e quasi dal vento. I quali beneficii non



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4 1

debbono essere stimati egualmente grandi ,
come quegli i quali sono fatti costantemen-
te , e con considerazione. Ma nell’allogare
i benefici! , e nel rendere la grazia , se tutte
le altre cose saranno pari , questo massima-
mente s 1 appartiene all’ ufficio , che , come
alcuno avrà specialmente bisogno di aiuto,
così a lui spezialmente noi aiutiamo. La qual
cosa pel contrario è fatta da molti : impe-
rocché da chi eglino molto sperano , ancora
se colui non ha bisogno di loro, nientedi-
meno a lui molto essi servono.

CAPO xxt.

Del principio e legami dell' umana
compagnia.

Ma ottimamente sarà conservata la con-
giunzione e compagnia umana , se come al-
enilo sarà congiuntissimo , così in lui mol-
tissima benignità sarà conferita. Ma che
principii della natura sieno della comuni-
tà e compagnia umana, mi pare che deb-
ba essere ripetito più da alto. Imperocché
il primo è quello il quale è ragguardalo nel-



la compagnia di tutta la generazione uma-
na ; e il legame di questo è la ragione e
il parlare: la qual cosa insegnando, impa-
rando , comunicando , disputando , giudi-
cando, concilia gli uomini tra loro, e con-
giugneli con una naturale compagnia. Nè
per alcuna cosa noi più da lungi ci disco-
stiamo dalla natura delle fiere , nelle quali
noi diciamo spesso eh’ è la fortezza; come
ne’ cavalli e ne'lioni : ma la giustizia , l’e-
quità, la bontà noi non diciamo essere in
loro ; imperocché esse sono senza la ragione
e il parlare.

E larghissimamente agli uomini tra gli
uomini j e a tutti tra tutti si manifesta que-
sta compagnia: nella quale debbe essere os-
servata la comunità di tutte quelle cose ,
le quali la natura ha generate al comune
uso degli uomini: come quelle cose, le quali
sono state' ordinate per le leggi e per ra-
gione civile, così sieno tenute e osservate,
com’è stato ordinato. Per le quali cose le
altre cose sieno osservate, com’è nel pro-
verbio de’ greci , le cose degli amici sieno
tutte comuni : imperocché tutte quelle cose
paiono essere comuni, le quali sono di quel-



43

la ragione , la quale da Ennio posta in una
cosa , può essere transferita in molte parti:
l'uomo il quale mostra al compagno errante
la via , quasi accenda il lume del lume suo,
fa che niente meno a lui riluca , benché a
colui egli l'abbia acceso. Imperocché , per
una cosa , assai egli comandò , che ciò che
senza danno può essere accomodato , quello
sia attribuito ancora a uno , il quale noi
non conosciamo. Donde sono quelle cose
comuni : non vietare l’acqua corrente ; pa-
tire ch’ei si pigli il fuoco dal fuoco ; dare
il consiglio fedele , se alcuno deliberante
farà di qualcosa a te la dimanda : le quali
cose sono utili a coloro i quali le ricevono,
e non moleste a chi le dà. Per la qualcosa
queste cose debbono essere usate da noi ,
e sempre debbe essere arrecata qualche cosa
all’utilità comune. Ma perchè le abbondanze
degli uomini in particolarità sono piccole,
e la moltitudine è infinita di coloro i quali
ne abbisognano , la liberalità volgare debbe
essere riferita a quel fine di Ennio , che
nientedimeno a se riluca : acciocché e' sia
facoltà, per la quale noi siamo liberali in-
verso i nostri.



44



CAPO XXII.



Della diversità de'gradi della generazione
umana.

Ma i gradi della compagnia umana sono
più. Imperocché, acciocché noi ci partiamo
da quella infinita, più pressa compagnia è
quella della medesima gente, e uazione ,
e lingua , per la quale massimamente gli
uomini si congiungono. Più a dentro è
a essere della medesima città: imperocché
molte cose sono a' cittadini tra loro co-
muni , come il foro , le chiese , i portici ,
le vie, le leggi, le ragioni, i giudici)*, il
ragunarsi a consigliare; le usanze, oltre a
questo, e le familiarità , e molte cose e ra-
gioni contratte con molti. Ma più stretta
collegazione della compagnia è de 1 propin-
qui : imperocché da quella smisurata com-
pagnia della generazione umana , si conchiu-
de in una piccola e stretta.

Imperocché conciosiacosacchè questo sia
comune della natura degli animali , che
essi abbiano la libidine del procreare , la
prima compagnia è in esso matrimonio; la



■a



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45

prossima è ne’figliuoli ; dipoi si fa una casa,
e tutte le cose comuni : e questo è il prin-
cipio della città, e quasi il semenzaio del-
la repubblica. Seguitano i congiugnimenti
de’ fratelli : dipoi de’ figliuoli de’ fratelli e
delle sorelle •, i quali quando non possono
capere in una casa, escono in altre case,
come in colonie. Seguitano di quinci i ma-
ritamenli e parentadi , de’ quali vengono
più propinqui ; il quale distendimento e
schiatta è origine delle repubbliche.

Ma la congiunzione del sangue lega gli
uomini cou benevolenza e carità. Imperoc-
ché egli è grande cosa avere le medesime
cose fatte per commemorazione degli an-
tichi , usare i medesimi sacrificii , avere i
sepolcri comuni. Ma di tutte le compa-
gnie nessuna è più eccellente , nessuna è
più ferma , che quando gli uomini buoni,
simili di costumi , sono congiunti con fami-
liarità. Imperocché quell’ onesto , il quale
spesso noi diciamo, noi muove, benché in
altri noi lo ragguardiamo ; e noi fa amici
a colui, nel quale pare che sia quell’ one-
sto. E benché ogni virtù noi alletti , e fac-
cia che noi amiamo coloro ne’ quali essa



46

mostri essere ; nientedimeno la giustizia e
la liberalità fa quello massimamente.

Ma niente è più amabile nè più accop-
piato che la similitudine de’buoni costumi:
imperocché in chi sono i medesimi studi ,
e le medesime volontà , in costoro si fa che
l'uno egualmente si diletti dell'altro, come
di sè medesimo. E fessi quello che vuole
Pitagora nell'amicizia , che uno si faccia di
più. Grande è ancora quella comunità la
quale è fatta pe'beneGcii di qui e di lì dati
e ricevuti ; i quali mentre che sono scam-
bievoli e grati , coloro tra chi eglino sono,
sono legati con ferma compagnia.

Ma quando tu avrai attornialo tutte le
cose con l'animo e con la ragione , nessuna
di tutte le società è più grata , nessuna più
cara , che quella la quale è colla repubblica
e ciascuno di noi. Cari sono i padri e le
madri , cari i figliuoli , cari i propinqui ,
e familiari ; ma sola la patria ha abbrac-
ciato tutte le carità di tutte le cose : per
la quale ciascuno uomo non dubita mori-
re , se a quella egli dovrà fare prò. Per
la qual cosa più è da essere maledetta la
crudeltà di costoro , i quali con ogni scel-



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leralezza hanno lacerato la patria; e in gua-
stare quella insino al fondo , sono e furono
occupati.

Versione delle 19:24, 3 dic 2017

latino

Marco Tullio Cicerone 1840 D Anonimo politica/filosofia/ Letteratura Degli uffici (volgarizzamento anonimo) Intestazione 15 marzo 2016 25% Da definire

Benchè, o Marco figliuolo, a te il quale già un anno hai udito Cratippo, e ciò in Atene, convenga abbondare di precetti e ammaestramenti di filosofia, per la somma autorità del dottore e della città; delle quali due cose , l una, cioè il dottore, te può accrescere di scienza ; e l’altra , cioè la città , di esempi ; nientedimeno come io , a mia utilità , sem- pre congiunsi le cose greche con le latine ; e non solo in filosofia , ma ancora nell’eser- citazione del dire ; quel medesimo mi pare che debba esser fatto da te ; acciocché tu sii pari nella facultà dell’una e l’altra orazione.

Nella qual cosa, com’ei pare, noi abbiamo arrecato grande aiuto agli uomini nostri : chè non solamente i rozzi delle lettere gre- che, ma ancora i dotti stimo avere acqui- stato, e all’ imparare e al giudicare.

Per la qual cosa imparerai dal principal filosofo di quegli dell’età nostra; e impare- rai quanto lungo tempo tu vorrai: ma tanto lungo tempo tu dovrai volere, insino a quanto a te non parrà poco di quanto tu ne faccia prò. Ma nientedimeno tu leggerai le cose nostre, non molto discordantisi da’ peripa- tetici ; imperocché noi vogliamo essere e so- cratici e platonici. Di essi fatti usa il giudicio tuo; imperocché niente io t’impedisco: ma tu farai l'orazione latina per certo più pie- na, dalle cose nostre le quali tu leggerai. jVla io non voglio che questo sia stimato es- sere stato detto arrogantemente. Imperocché io , concedente la scienza del filosofare a mol- ti , quello eh’ è proprio dell’oratore , dire at- tamente e con oi'dine e ornatamente , perchè in quello studio io ho consumato l’età mia, se quello a me io piglio , io paio attribuir- melo quasi di mia ragione.

Per Ja qual cosa molto , o Cicerone mio,


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io ti conforto , che tu non solamente le ora- zioni mie studiosamente legga , ma ancora questi libri di filosofìa , i quali già a quegli quasi si sono pareggiati. Imperocché mag- gior forza è in quegli del dire *, ma ancora questo modo di dire è da essere amato , il quale è con equabilità , e temperato. E que- sto ancora io non veggo essere addivenuto ad alcuno greco, che colui medesimo si affa- ticasse e nell’ uno e nell'altro genere; e che egli conseguitasse e quel modo del dire nel foro, e questo quieto del disputare. Se già Demetrio Falereo non potesse essere in que- sto numero, disputatore sottile, e oratore poco veemente ; nientedimeno dolce in mo- do, che tu potresti conoscere ch’egli è di- scepolo di Teofrasto. Ma noi quanto nell'uno e 1’ altro modo abbiamo fatto prò , giudi- chinlo altri; l’uno e l’altro di certo abbiamo seguitato. E per certo io stimo che se Pla- tone avesse voluto trattare il modo del dire nel foro, egli avrebbe detto gravissimamen- te, e con molta copia. E se Demostene avesse tenute quelle cose, le quali egli aveva impa- rato da Platone , e avessele voluto pronun- ziare, egltT avrebbe potuto fare splendida-



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mente , e con ornato. Nel medesimo modo io giudico di Aristotile e di Socrate: l’uno e l'altro de'quali, dilettatosi del suo studio, spregiò l’altrui.

Ma conciosiacosacchè io avessi deliberato di scrivere a le, in questo tempo, qualcosa di filosofia, e molte cose da quinci innanzi ; io massimamente ho voluto cominciare da quello, che all’età tua fosse attissimo, e alla mia autorità. Imperocché, conciosiacosacchè molte cose sieno in filosofia e gravi, e utili, e diligentemente da’ filosofi disputate, e con abbondanza ; larghissimamente paiono mani- festarsi quelle , le quali da coloro sono state date e insegnate degli uffici. Imperocché nes- suna parte della vita, nè in fatti pubblici, nè in privati, nè in quegli del foro, o di ca- sa , se teco alcuna cosa facessi , o contrat- tassi con altrui, può mancare deH’ufficio: e nell'amar quello è posta ogni onestà della vita, e ogni bruttezza nello spregiarlo.

E questa è comune quistione di tutti i filosofi: imperocché chi è, il quale, quando egli non ha alcuni precetti dell’ufficio , abbia ardire chiamarsi filosofo ? Ma e’ sono alcune discipline, le quali , preposti i fini de'beni


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e de’ mali, rivoltano e abbattono ogni uf- ficio. Imperocché chi ha ordinato il sommo bene , che niente gli abbia congiunto con la virtù , e quello egli misura con suoi com- modi , e uou con 1’ onestà ; costui se a sé egli consenta , e alcuna volta non sia vinto dalla bontà della natura, è fatto che eg i non può amare l’amicizia, nè la giustizia» nè la liberalità. E chi giudica il dolore essere sommo male , in nessuno modo può essere forte; uè temperato può essere chi fa che la voluttà è il sommo bene.

Le quali cose , benché così sieno manife- ste, ch’esse non abbino bisogno di dispu- ta; nientedimeno in un altro luogo da noi sono state disputate. Queste discipline adun- que , se a sè esse vogliono essere consen- zienti , niente esse possono dire dell’ uffi- cio. Nè alcuni precetti possono essere dati fermi, e stabili, e congiunti alla natura, se non da coloro i quali dicono , che solo l’o- nestà debba essere per sè medesima deside- rata ; o da coloro i quali dicono, che quella virtù spezialmente e grandissimamente debba essere per sè medesima desiderata. Adun- que questo è proprio ammaestramento de-



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gli stoici e accademici e peripatetici ; dap- poiché la sentenza di Aristone e Pirrone ed Erillo , già molto fa , è stata confusa e abbattuta. I quali nientedimeno avrebbono la ragion loro di disputare dell’ ufficio , se eglino a vessi no lasciato qualche elezione delle cose, acciocché si potesse andare all’inven- zione dell'ufficio. Adunque in questo tempo, e in questa quislione, noi spezialmente se- guitiamo gli stoici , non come interpetri , ma come noi vogliamo ; delle fonti loro , con arbitrio e giudizio nostro, attigneremo quanto ci parrà.

CAPO I.

Dell' ufficio , e come si divide.

Piaceci adunque , perché ogni disputa ha a essere dell’ ufficio , innanzi diffinire che cosa sia ufficio : la qual cosa io mi ma- raviglio essere stata lasciata da Panezio. Imperocché ogni ordinamento , il quale di qualche cosa è preso dalla ragione , debbe procedere dalla diffinizione ; acciocché s’in- tenda ciò che sia quello , del quale si di-


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sputa. Ogni quistione dell’ufficio è doppia r uno modo è il quale s' appartiene al line de’ beni ; l’ altro è il quale è posto ne’ pre- cetti , pe’ quali l’ uso della vita possa es- sere confermo in tutte le parti. Del modo di sopra questi sono gli esempi : se tutti gli uffici sono perfetti o no ; e se alcuno di loro è maggiore che l’altro ; e altre cose simili a queste. Ma quegli uffici de’ quali si danno i precetti , benché essi s' appar- tengano al fine de’beni , nientedimeno meno appariscono di cosi essere , perchè essi più ragguardano all’ ammaestramento della vita comune ; de’ quali uffici noi in questi libri dobbiamo con dichiarazione disputare.

E ancora un altra divisione è degli uffi- ci. Imperocché e' si chiama alcuno ufficio mezzo , e alcuno perfetto. Il perfetto uf- ficio io stimo che noi chiamiamo retto; il quale i Greci chiamano catartoma , cioè se- condo dirittura ; ma questo mezzo eglino chiamano comune. E questi uffici così dif- fiuiscono ; chè quello ufficio che sia retto , diffiniscono essere perfetto ; e quello che è mezzo , dicono essere quello , del quale possa essere data probabile ragione perchè egli sia fatto.


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capo n.


Della deliberazione in pigliare il consiglio.

Di tre parti adunque , come a Panezio pare , è la deliberazione del pigliare il con- siglio. Imperocché gli uomini dubitano , se quello che eglino hanno a fare sia onesto o brutto : e questo cade nella deliberazio- ne ; e in considerar questo , spesso gli ani- mi sono tirati in contrarie sentenze. E an- cora o essi cercano , o essi consigliano alla commodità e giocondità della vita , e alle facoltà delle cose, e alle copie, alle abbon- danze , e alla potenza ; colle quali cose e- glino possouo giovare a sé e a' suoi : e se quello fa utile, del quale eglino delibera- no: la quale deliberazione tutta cade nella ragione dell’ utilità.

E il terzo modo del disputare è , quando quello che pare utile, pare che combatta con quello eli’ è onesto. Imperocché conciosiaco- sacchè T utilità paia a sé rapire , e l' onestà pel contrario paia da sé rimuovere ; si fa che l'Animo nel deliberare si divida , e ar- rechi sollecitudine dubbiosa del pensare.


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In questa divisione ( conciosiacosacchè grandissimo vizio sia nel dividere, lasciare alcuna cosa ) due cose sono state lasciate. Imperocché non solamente e’ si suole delibe- rare , se egli è onesto o brutto ; ma ancora , preposti due onesti , se l’uno è più onesto che l’altro. E similmente, preposti due utili, si suole dubitare se l’uno è più utile che l’al- tro. E così quella ragione , la quale colui stimò di essere di tre parti , si trova dover es- sere distribuita in cinque. Primamente dun- que si disputerà dell’ onesto , ma in due mo- di ; e ancora con pari ragione dell'utile ; e dipoi della comparazione tra loro.

CAPO III-

Della forza della natura a fare C onesto,.

Da principio a ogni ragione d'animali è stato attribuito dàlia natura , ch’egli difenda' sé , e la vita , e il corpo ; e isoli i £1 quelle cose, le quali paino di dovere nuocere-, e- tutte quelle cose le quali sieno necessarie- •1 vivere, acquisti e trovi; come è fa pa- sciona, a i covaccioli, e altre simili cosce.


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Ma comune cosa è di tutti gli animali l’ ap- petito della congiunzione , per cagione del procreare ; e alcuna cura di quelle cose , le quali sono state da loro procreate. Ma tra l’ uomo e la bestia è singolarmente que- sta differenza , che la bestia tanto si muove, quanto dal senso essa è mossa ; a quello eh e presente , e a quello che l’ è innanzi si ac- comoda , poco avvedentesi del preterito e del futuro: ma l’uomo, perchè egli è par- tecipe della ragione , per la quale egli vede le cose conseguenti , e conosce le cagioni delle cose, e i progressi di quelle, e quasi sa quelle cose le quali innanzi vadano, e agguaglia le similitudini , e alle cose pre- senti aggiugne e annoda le future ; facil- mente vede il corso di tutta la vita , e al governo di quella egli apparecchia le cose necessarie. Questa medesima natura colla iorza della ragione concilia 1’ uomo all’uo- mo , alla compagnia e del parlare e della vita : e ingenera , traile prime cose , uno pre- cipuo amore in coloro , i quali sono stati procreati ,• e commuovegli che le brigate degli uomini vogliano essere insieme , e tra se ricercarsi. E per queste cagioni tali ra-


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gunate si studiano trovare e acquistare quelle cose, le quali sovvengono al vivere, e al vestire , e al governarsi ; e non solamente a sè solo , ma alla moglie , a’ figliuoli , e a tutti quegli altri , i quali esse abbino cari , e debbino difendere. La quale cura desta ancora gli animi , e fagli maggiori al fare le cose.

E tra le prime cose nell’ uomo , è pro- pria cosa il cercare e T investigare il vero. E così quando noi siamo voti di necessarie cure e faccende, allora noi desideriamo ve- dere qualche cosa , e udire , e imparare ; e stimiamo che la cognizione delle cose o occulte o mirabili, sia necessaria al vivere beatamente. Per la qual cosa s’intende , che quello che è vero e semplice e puro , è attis- simo alla natura dell’ uomo.

A questa cupidigia del vedere il vero è aggiunto un certo desiderio del principato; che l’ animo bene informato dalla natura non voglia ubbidire ad alcuno , se non a \jhi insegna o ammaestra, o, per cagione di suo utile, legittimamente comanda e con giustizia. Della qual cosa è la grandezza del- l' anima , e lo spregiare le cose umane.


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Ma nè quella è piccola forza della na- tura e della ragione , che solo questo ani- male conosce che cosa sia ordine , e che cosa sia quella la quale si confà ne' detti e ne' fatti, e che è misura. E così nessuno altro animale conosce la bellezza e la pu- litezza di quelle cose , le quali sono cono- sciute per l’aspetlo, nè la convenienza delle parti. La qual similitudine , la natura e la ragione dagli occhi trasferendo allonimo, molto più ancora stima dovere esser con- servata la bellezza , e la costanza , e l’or- dine ne’ consigli e ne’ fatti: e guardasi che nessuna cosa esso faccia effeminatamente, e con isconvenienza : e ancora che cosa non faccia, o non pensi alcuna cosa libidinosa- mente , nè in tutti i fatti , e in tutte le opinioni. Per le quali cose si congrega e fassi quell’ onesto , che noi cerchiamo : il quale se non fosse nobilitato, nientedimeno sarebbe onesto: e quello che in verità noi diciamo , che benché da nessuno egli fosse lodato , nientedimeno egli per natura sa- rebbe laudabile.


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CAPO IV.


Belle quattro virtù , onde nascono gli uffici.


Tu, o Marco, ora vedi la forma di essa onestà : la quale se cogli occhi fosse vedu- ta , maravigliosi amori , come disse Pla- tone , commoverebbe. Ma ogni cosa che é onesta , quella nasce da alcuna delle quat- tro parti: imperocché o esso onesto si ri- volta nel ragguardamento del vero, e nella sollecitudine di quello ; o in difendere la compagnia umana , e nell’ attribuire a cia- scuno il suo, e nella fede delle cose contrat- tate 5 o nella grandezza e fortezza dell’ a- nimo invitto ed eccelso ; o nell’ ordine e modo di tutte le cose , le quali si fanno o diconsi , nel quale è la modestia e la tem- peranza.

Le quali quattro cose , benché tra loro sieno avviluppate e collegate, nientedimeno di ciascuna per sé nascono certe ragioni di uffici. Come , da quella parte la quale prima fu descritta , nella quale noi pognia- mo la sapienza e la prudenza , in quella dentro è il cercare e il trovare la verità :



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e di queste virtù questo è il proprio dono.

Imperocché come ciascuno massimamente conosce quello , che in ciascuna cosa sia ve- rissimo , e il quale acutissimamente e bene può e vedere e sviluppare la ragione , co- stui rettamente suol essere tenuto pruden- tissimo e saviissimo. Per la qual cosa a co- stei è suggetta la verità , quasi materia la quale essa tratti, e nella quale essa si ri- volghi.

Ma alle altre tre , che restano , sono pre- poste le necessità all’ acquistare e al difen- dere quelle cose , nelle quali è contenuto il governo della vita ; acciocché e la con- giunzione e la compagnia degli uomini sia conservata; e l’eccellenza e grandezza del- l’animo riluca , sì nell’ accrescere le abbon- danze , e nell' acquistare l'utilità e a sé e a' suoi ; sì molto più nello spregiare quelle. Ma l’ ordine , e la costanza , e la modera- zione , e altre cose le quali sono simili a queste , si rivoltano in quella ragione , alla quale debba essere dato un certo fare, e non solamente il rivoltare la mente. Impe- rocché quando noi aggiugneremo un certo modo e ordine alle cose, le quali sono trat-


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tate nella vita , noi conserveremo la con- venienza e 1' onestà.

capo v.

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Della Prudenza.

De’ quattro luoghi, ne' quali noi abbiamo diviso la natura e la forza dell’onesto , quello primo , il quale sta nella cognizione del ve- ro , massimamente tocca la natura umana. Imperocché tutti siamo tirati e siamo me- nati alla cupidigia della cognizione e della scienza ; nella quale noi stimiamo esser cosa bella eccellere : ma trascorrere , errare , essere ingannato , e non sapere , noi diciamo essere cosa trista e brutta. In questa ra- gione naturale e onesta , due vizi debbono essere schifati : l’ uno , che noi non abbia- mo le cose incognite per le conosciute ; il qual vizio chi lo vorrà fuggire ( ma tutti debbono volere) aggiugnerà, al considerare le cose, tempo e diligenza. L’altro vizio è, che alcuni mettono troppo grande studio, e troppo molta opera nelle cose oscure e malagevoli, e nientedimeno non necessarie.


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Ma , schifati questi vizi , ciò che di cura e di opera sarà posto nelle cose oneste e degne di cognizione , quello sarà ragionevolmente lodato. Come in astrologia noi abbiamo o- dito aver fatto Caio Sulpicio ; e in geo- metria conoscemmo fare Sesto Pompeo ; e molti in loica ; e più in ragion civile : le quali arti tutte consistono nell' investigazio- ni del vero; per lo studio del quale, ri- muoversi dal fare le faccende , è contro al- l'ufficio. Imperocché ogni loda di virtù con- sista nel faccimeuto : dal quale nientedime- no spesso si fa intermissione , e molte ri- tornate sono date agli studi. Ancora il com- movimento della mente , il quale mai non si riposa , può contenere noi negli studi del pensare, ancora senza nostra opera. Ma ogni pensiero e movimento di animo sarà rivolto, o nel pigliare i consigli delle cose oneste , e appartenenti al bene e beata- mente vivere, o negli studi della cognizione e della scienza. E già noi abbiamo detto, della prima fonte dell’ ufficio.

Della Giustizia.


Delle tre ragioni le quali restano, lar- ghissimamente si manifesta quella , per la quale la compagnia degli uomini tra loro , e quasi la communione della vita , si con- tiene. Della quale due parti sono: la giu- stizia , nella quale è lo splendore grandis- simo della virtù , per la quale sono nomi- nati gli uomini buoni *, e a questa è con- giunta la beneficenza , la quale medesima- mente è lecito chiamare benignili, o vero liberalità. Ma della giustizia è il primo do- no , che alcuno a nessuno nuoca , se non é provocato da ingiuria ; dipoi ch’egli usi le cose comuni per comuni, e le privale come per sue.

Ma da natura nessune cose sono priva- te: ma sono private o per antica occupa- zione, come addiviene a coloro, i quali per lo passato entrarono nelle cose non posse- dute ; o per vittoria, com’ è in coloro, i quali le hanno acquistate per battaglia ; o per legge j o per patto j o per condizione ;


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o per sorte. Per la qual cosa è fatto che i campi arpinati sieno detti degli Arpinali , i tusculani de’Tusculani. £ simile è la divi- sione delle possessioni private. Per la qual cosa poicchè ciascuno possiede per suo di quelle cose , le quali per natura erano state comuni*, quello che ad alcuno tocca, quello


alcuno tenga. Per questo se alcuno a sé più appetirà , costui violerà la ragione dell’ u- mana compagnia.

Ma perchè , come da Platone fu scritto egregiamente , non a noi soli noi siamo nati , e del nascimento parte a sé ne attri- buisce la patria , parte gli amici ; e come piace agli stoici , quelle cose le quali nelle terre sono generate , sono create all'uso de- gli uomini ; e gli uomini sono fatti per ca- gione degli uomini , acciocché essi tra loro l’uno faccia prò all'altro ; in questo noi dob- biamo seguire la natura per guida , e dob- biamo recare in comune le utilità comuni , con permutazione di uffici , dando e riceven- do ; e , sì colle arti , sì coll’ opera , sì colle facultà , noi dobbiamo legare la compagnia degli uomini tra loro.


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CAPO VII.

Della Fede.



Ma il fondamento della giustizia è la fede: cioè la costanza e la verità di quello che noi abbiamo detto , o abbiamo pattuito. Per la qual cosa , benché questo forse parrà a qual- cuno duro , nientedimeno noi avremo ardire di seguitare gli stoici , i quali studiosamente cercano donde le parole sieuo dette : e cre- deremo che la fede sia chiamata, perchè e’ si fa quello che è detto.

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CAPO Vili.

Due ragioni d'ingiustizia.

Ma due ragioni sono d'ingiustizia: l’una di coloro i quali muovono l’ingiuria ; l’altra di coloro, da’ quali non è rimossa l'ingiu- ria, se da loro si può , quando a loro essa è fatta. Imperocché chi ingiustamente fa im- peto contro ad alcuno , commosso o da ira o da qualche perturbazione, costui par che metta le mani addosso al compagno. Ma chi


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non si difeude e non si oppone all’ ingiuria , se egli può, tanto è in vizio, quanto se egli abbandonasse il padre e la madre , o gli ami- ci, ola patria.


CAPO IT.

Diverse ragioni cC ingiurie.

£ quelle ingiurie, le quali a studio sono fatte per cagione di nuocere, spesso proce- dono da paura : quando colui il quale pensa nuocere a altri , teme cbe se egli non fa quello, esso non sia preso da qualche in- comodità. Ma la grandissima parte sono as- salili al fare l' ingiuria , acciocché essi ac- quistino quelle cose, le quali eglino hanno desiderate : nel qual vizio larghissimamente sì manifesta l’avarizia.

Ma le ricchezze sono desiderate sì agli usi necessari della vita , e sì all’ usare le vo- luttà. Ma in chi è maggiore animo, in co- storo la cupidità delle pecunie ragguarda alla potenza, e alla facultà del farsi grato. Come , novellamente , Marco Crasso negava alcuua roba essere assai grande a colui, il


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quale nella repubblica volesse essere prin- cipale, se de’ frutti di quella egli non po- tesse nutricare 1' esercito. Dilettano ancora i magnifici apparati , e i fornimenti del go- verno della vita con eleganzia e copia. Per le quali cose è fatto, che la cupidigia delle pecunie sia infinita. Ma l’amplificazione della roba tua non debbe essere ripresa , quando essa non nuoce ad alcuno ; ma V ingiuria sempre debbe essere fuggita.

Ma massimamente sono molti indotti , che dalla dimenticanza della giustizia essi sono presi , quando essi sono cascati nella cu- pidigia degli imperii, degli onori, e della gloria. Imperocché quello che è appresso a Ennio , nessuna cupidigia del regno è santa , e non e’ è fede , largamente si ma- nifesta. Imperocché ciò che è in questo mo- do , che in quello non si possono fare grandi più uomini , in tal cosa molte volte si fa tanta contesa , che malagevolissima cosa sia conservare la santa compagnia. Tal cosa è stata dimostrata ora dalla temerità di Caio Cesare ; il quale ha rivolto tutte le ragioni umane e divine, per acquistare quello prin- cipato , il quale con errore di sua opinione


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a sé aveva finto convenirsi. Ma in questa tal virtù è molesto , che spesse volte negli animi grandissimi, e negli splendidissimi in* gegni , sono cupidigie dell’onore , dello im- perio, della potenza, e della gloria : per la qual cosa tanto più è da guardarsi, che in lai cosa non si pecchi.

Ma in ogni ragione d' ingiustizia , molto si differenzia, se per qualche perturbazione di animo ( la quale molle volte è breve e a tempo) o se con consiglio sia fatta l’ingiu- ria , e pensatamente. Imperocché più leg- giere sono quelle cose , le quali accaggiono con subito movimento , che quelle le quali sono fatte innanzi pensate, e con prepara- zione. E del muovere ingiuria assai già ne sia detto.

CAPO x.

Le cagioni della seconda ragione dell' ingiustizia.

Più sogliono essere le cagioni del lasciare la difesa , e dell’ abbandonare chi tu sei te- nuto a difendere. Imperocché questi tali uo- mini non vogliono ricevere nimicizie , o fati-


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che ,*o spese; ovvero ancora, ciò non fanno per pigrizia, o per dappocaggine, o perchè essi non l’apprezzino: ovvero essi da certi loro studi e occupazioni cosi sono impedi- ti , che coloro i quali da loro debbono es- sere difesi, gli abbandonano, e patiscono che eglino sieno offesi. Adunque è da ve- dere che non assai è quello che da Platone fu detto contro i filosofi, che perchè eglino si rivoltano nella investigazione del vero , e spregiano quelle cose le quali molti gran- demente desiderano , per le quali essi tra loro combattono, per questo essi stimano essere giusti. Imperocché conciosiacchè egli- no conseguitino l’uno modo della giustizia, che essi non nuocono ad alcuno , essi ca- scano nell’ altra ingiuria : imperocché im- pediti dallo studio dello imparare, eglino abbandonano chi da loro doveva essere di- feso. E così coloro stimano, ch’eglino non debbano andare a governare la repubblica, se non costretti: più giusta cosa era, che eglino andassi no di loro volontà ; imperoc- ché quello è giusto il quale è fatto retta- mente , se egli è volontario.

Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo 24

studio delle loro cose familiari , e per odio • di alcuni uomini , dicono che fanno loro faccende , acciocché eglino non paiano di fare ingiuria ad alcuno : i quali mancano dell’uno modo dell’ ingiustizia , e incorrono nell’altro. Imperocché essi abbandonano la compagnia della vita ; perchè in colei nien- te eglino conferiscono di studio, niente di opera , e niente di facultà. Perché adun- que, preposte due ragioni d'ingiustizia , noi abbiamo aggiunto le cagioni dell’ una e del- l’altra 5 e innanzi noi ordinammo quelle co- se , nelle quali è contenuta la giustizia ; a- gevolmente noi potremo giudicare che tem- po sia di ciascuno ufficio, se già noi molto non amiamo noi medesimi. Imperocché la cura delle altrui cose è malagevole : benché quel Cremete di Terenzio, nessuna cosa u- mana stima da sé essere aliena. Ma nien- . tedimeno perchè più noi pigliamo e cono- sciamo quelle cose, le quali a noi accaggiono prospere o avverse, che quelle le quali ad- divengono agli altri ; le quali noi veggia- mo , quasi interpostovi un lungo spazio ; altrimenti noi giudicheremo di loro , che dì noi. Per la qual cosa bene comandano


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coloro, i quali 'vietano che tu faccia alcuna cosa , la quale tu dubiti se ella è giusta o ingiusta : imperocché T equità per sé me-


Ma spesse volte accaggiono tempi, quando quelle cose le quali massimamente paiono essere degne del giusto uomo , e di colu >1 quale noi chiamiamo uomo buono, sono fatte contrarie: come è rendere il deposito e fare la promessa. Le quali cose, perchè esse si appartengono alla verità e alla fe- de , negare alcuna volta e non osservare , si fa giusta cosa. Imperocché ei si confà eh’ esse sieuo riferite a quelli fondamenti della giustizia, i quali io posi nel princi- pio : primamente eh’ ei non si nuoca ad al- cuno ; dipoi che si serva all' utilità comune. Quelle cose col tempo si mutano , e si muta 1' ufficio , e non è sempre il medesimo.


desima riluce; e il dubitare dimostra pen- siero d’ingiuria.




CAPO XI.


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Come P ufficio si muta , e non è sempre il medesimo.


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£ può ancora accadere che alcuna pro- messa c convegna sia disutil cosa a essere fat- ta , o a colui a chi è stato promesso , o a colui il quale ha promesso. Imperocché se ( com’è nelle favole ) Nettuno non avesse fatto quello ch'egli aveva promesso a Teseo-, Teseo non sarebbe stato privato del suo fi- gliuolo Ippolito. Imperocché, come si scri- ve, di tre desiderate dimande, questa era la terza, che adirato, egli desiderò della morte di Ippolito : la quale impetrata , egli cascò in grandissimi pianti.

Adunque quelle promesse non debbono essere osservate , le quali sieno disutili a coloro a’ quali tu V hai promesse : nè an- cora se a te esse più nuocono , ch’esse non fanno prò a colui , al quale tu hai promes- so. Contro all’ ufficio è, il maggior danno essere anteposto al minore. Come se tu a- vessi ordinato andare avvocato a un fatto presente, e in questo mezzo il tuo figliuolo avesse cominciato ammalare gravemente , non è contro all’ufficio non fare quello che tu avevi ordinato. E più si partirebbe co- lui dall’ufficio, al quale tu avevi promesso-, se si dolesse essere stato lasciato. Or chi già


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non vede che in quelle promesse non si deb- ba stare, le quali alcuno, costretto da pau- ra , o ingannato con fraude , avrà promes- so? le quali, molle sono liberate per la ra- gione del pretore , e alcune per le leggi.

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CAPO XII.

Della malizia nell' intcrpeirarc la ragione.

Fannosi ancora spesso ingiurie per una certa calunnia, e per la troppa scaltrita e maliziosa interpetrazione della ragione : on- de , somma ragione , somma ingiuria , è fatto proverbio già molto trito. Nel qual modo ancora nella repubblica si fanno molti peccati. Come colui, il quale quando le trie- gue erano fatte per trenta di , rubava la notte i campi ; e diceva , che le triegue e- rano fatte de’ dì, e non delle notti. E an* cora non debbe essere lodato , se egli è ve- ro , quel nostro Fabio Labeone , ovvero qualche altro (imperocché io non ho altro che l’udito ) il quale, dato dal senato arbi- tro a’ Nolani e a’ Napoletani de’ contini dei loro campi , quando veane al luogo ordì-



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nato , parlò separatamente coll' una parie e 1' altra : e questo era , eh’ eglino non vo- lessino o fare o appetire alcuna cosa cupi- damente; e che piuttosto volessino andare a dietro , che ire innanzi. E quando co- loro ebbono fatto questo, come costui aveva detto , nel mezzo avanzò alquanto spazio di terreno : e così egli terminò i confini di co- storo , come essi avevano detto ; e quello ch'era avanzalo in mezzo, giudicò che do- vesse essere del popolo romano. Ma questo è ingannare e non giudicare. Per la qual cosa in ogni faccenda debbe essere fuggita tale sottigliezza.

CAPO XIII.

Degli uffici verso gl' ingiuriatiti.

Sono ancora certi uffici i quali debbono essere osservati inverso coloro , da' quali tu avrai ricevuto T ingiuria. Imperocché e’ ci è il modo del vendicare , e del punire. E non so se egli è assai , che colui il quale ha in- giuriato , si penta dell'ingiuria; acciocché < sso da quinci innanzi non più faccia tal cosa, e gli altri sieno all'ingiuria più tardi.


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E nella repubblica spezialmente debbono essere conservate le ragioni della guerra. Imperocché conciosiacosacchè ei sieno due ragioni di combattere, l’una per deputa- zione , e l’ altra per forza 5 e conciosiaco- sacchè quella propriamente s’appartenga al- l’ uomo , e questa alle bestie ; si debbe ri- fuggire a questa di dopo, se non è lecito usare quella di sopra.

Per la qual cosa le guerre debbono es- sere prese per questa cagione , che senza ingiuria si viva nella pace. Ma, acquistata la vittoria, debbono essere conservati colo- ro , i quali non furono crudeli nella guer- ra , nè disumani : come gli antichi nostri ancora nella città ricevettono i Tusculani, gli Equi, i* Volsci , i Sabini, gli Eurici ; ma Cartagine e Numanzia mandarono a ter- ra insino a’ fondamenti. Io non vorrei che eglino avessino fatto così di Corinto : ma io credo che alcuni considerarono all’ op- portunità del luogo ; acciocché esso luogo non potesse qualche volta confortare a muo- ver guerra. Ma a mio parere sempre si con- siglierà alla pace ; la quale niente sia da do- vere avere d’ inganno. Nella qual cosa se



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a me fosse stalo obbedito, se noi non aves- simo ottima repubblica, almeno noi l’avrem- mo qualcuna , la quale ora è niuna. E a coloro ancora si debbe fare prò , i quali 'per forza tu hai vinto: e coloro debbono essei’e ricevuti , i quali, poste giù Tarmi , fuggiranno alla fede degli imperadori; ben- ché dall’ ariete sieno state percosse le loro mura. Nella qual cosa tanto appresso agli antichi nostri fu amata la giustizia , che co- loro i quali nella fede avessino ricevute le città e le nazioni , vinte per la guerra, fus- sino difensori di quelle, secondo il costu- me degli antichi.

E l’equità della guerra santissimamente è ordinata , per la ragione feciale del popolo romano. Dalla qual cosa può essere inteso, che niuna guerra è giusta , se non è quella che è fatta per le cose addimandate , o che innanzi essa sia stata denunziata , e coman- data. Pompilio imperadore teneva la provin- cia , nell’esercito del quale campeggiò il fi- gliuolo di Catone, nuovo soldato. Ma con- ciosiacosacchò a Pompilio paresse licenziare una legione, licenziò ancora il figliuolo di Catone, il quale campeggiava in quella. Ma

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perchè per voglia del combattere colui ri- mase nell’ esercito ; Catone scrisse a Pompi- lio, che se pativa che colui rimanesse nel- l’esercito, ch’egli l'obbligasse col secondo sacramento; perchè, perduto il primo, egli non poteva di ragione combattere col nimi- co. Così era somma osservanza nel muovere la guerra.

Di Marco Catone vecchio ci è una pistola al figliuolo: nella quale egli scrive, che egli ha udito come egli è stato licenziato dal con- sole, conciosiacchèegli era soldato nella guer- ra macedonica ; adunque egli Pammunisce, ch’egli si guardi, che egli non pigli la zuf- fa. Imperocché egli dice , che e’ non è di ra- gione, che colui il quale non sia soldato com- batta col nimico.

Quello ancora io considero, che colui il quale nel proprio nome era perduelle , fusse chiamato oste ; la leggerezza del vocabolo mitigante la tristizia del fatto. Imperocché appresso agli antichi nostri, oste era chia- malo colui , il quale ora noi chiamiamo pe- regrino. Questo dimostrano le dodici tavo- le, ove era, il di ordinato coll'oste: e an- cora , 1' eterna autorità inverso l' oste. Or


che può essere aggiunto a tanta mansuetudi- ne , che colui col quale tu combatta , sia chiamato con si piacevole nome? benché l’an- tichità già ha fatto questo nome duro. Impe- rocché e’ s’ è partito dal peregrino, ed è ri- masto propriamente in colui , il quale con- tra ci arreca l’ arme.

CAPO XIV.

Che le cagioni della guerra hanno a essere giuste., e della Jede verso i nimici.

Ma quando e’ si combatte dell’imperio, e per guerra è cercala la gloria , bisogna nien- tedimeno che vi sieno le cagioni delle guer- re, e quelle giuste 5 come poco innanzi io dissi. Ma quelle guerre nelle quali è propo- sta la gloria dell’ imperio, debbono essere fatte meno acerbamente. Imperocché, come quando noi contendiamo civilmente, altri- menti noi contendiamo se egli è nimico, e altrimenti se egli addimanda il medesimo che noi: coll’uno è il combattimento dell’onore e della dignità , coll’altro è del capo e della fama. Co’ Celtiberi e Cimbri si faceva la


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guerra come con nimici; cioè chi rimanesse vivo, e non chi signoreggiasse. Co’ Latini, e Sanniti, con gli Affricani, con Pirro si combatteva dell'imperio. Gli Affricani fu- rono rompitori di fede - , Annibaie fu crude- le ; tutti gli altri furono giusti. Di Pirro ci è quella bella sentenza del rendere i prigio- ni : A me io non addomando oro ; a me voi non darete prezzo. Noi non facciamo merca- tanzia della guerra , ma noi siamo combat- tenti. Col ferro e non con oro combattiamo Cuna parte e l' altra. Proviamo colla virtù chi la fortuna padrona vuole che signoreg- gi , o voi o io, e (juello che arrechi la sorte. Alla virtù di chi la fortuna della guerra ha perdonato , alla libertà di coloro a me è certa cosa perdonare. Toglietevegli in dono , e dò- vegli f, volenti i grandi Iddii. Questa sentenza per certo fu di re , e degna della stirpe dei discesi di Eaco.

E ancora se noi da ciascuni tempi condot- ti, avremo promesso alcuna cosa a’ nimici, in quello debbe essere conservata la fade. Come nella prima guerra affricana, Regolo preso da’ Cartaginesi , quando da loro ei fu mandato a Roma per barattare i prigioni , e


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aveva giurato di tornare , se ciò non si face- va. Primamente come egli venne nel senato , giudicò che i prigioni non si dovcssino ren- dere ; dipoi , conciosiacosaccbè egli fosse rite- nuto da'suoi , e dagli amici , e da' propinqui, più tosto volle tornare al tormento , che fal- lire la fede data al nimico. E degli uffici della guerra assai già si è detto.

capo xy.

Della giustizia verso gl'inferiori.

Ricordiamoci poi che la giustizia ancora inverso gl’ infimi debbe essere osservata. Ma la condizione e fortuna de' servi è infima. I quali servi , coloro i quali comandano ch’eglino sieno usati come mercenai al ri- scuotere l’opéra , e al dare al loro affare cose giuste , non male comandano. Ma conciosia-f cosacchè in due modi si faccia l’ingiuria , cioè colla fraude e colla violenza ; la fraude pare quasi proprietà della volpe , e la violenza del lione : l’una e l’altra è alienissima dal- l’ uomo ; ma la fraude è degna di maggiore odio. Ma d’ ogni ingiustizia nessuna è più


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capitale , che quella di coloro , i quali quando massimamente ingannano, quello fanno che essi paiono essere buoni. Assai si è detto della giustizia.

CAPO XVI.

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Della Liberalità.

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Di quinci, come si era proposto, dicasi della beneficenza e liberalità ; della quale niente è alla natura dell’uomo più accomo- dato. Ma essa ha molte cautele. Imperocché prima si debba vedere che la benignità non nuoca , e a coloro medesimi a’quali parrà do- vere essere fatto benignamente, e agli altri: dipoi che la benignità non sia maggiore che la facultà : la terza è che a ciascuno si dia se- condo la dignità. Imperocché questo è il fon- damento della giustizia ; alla quale debbono essere riferite tutte queste cose. Imperocché coloro i quaii nel gratificare nuocono a chi eglino mostrano volere fare prò , non deb- bono essere chiamati beneficatori e liberali, ma dannosi assentatori : e coloro i quali nuocono agli altri , acciocché inverso altri essi sieno liberali , sono nella medesima in-



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giustizia , come se eglino la roba altrui con- vertissino nella sua. Ma e sono molti cupidi dello splendore e della gloria , i quali tolgono a altri quello che a altri essi donino. A co- storo pare essere beneficatori degli amici, se coloro egli arricchiscono in qualunque mo- do : ma questo tanto si discosta dall'uificio, che all' ufficio niente possa essere più contra- rio. Vuoisi adunque vedere che noi usiamo quella liberalità , la quale faccia prò agli a- mici , e non nuoca ad alcuno. Per la qual cosa il trasferimento di Lucio Siila e di Caio Ce- sare delle pecunie , da’ giusti padroni agli alieni , non dehhe parere liberale; imperoc- ché niente è liberale , che medesimamente non sia giusto.

CAPO XVII.

Delle cause della seconda cautela.

L’ altra cautela era , che la benignità non fosse maggiore che le facultà. Perchè coloro i quali vogliono essere più benigni che non patisce il fatto loro , primamente in questo peccano , eh' essi fanno ingiuria a' prossimi.


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Imperocché costoro trasferiscono alle genti aliene quella roba , la quale più ragionevol- mente doveva essere in aiuto , e essere lascia- ta a quegli prossimi. Ma in tale liberalità molte volte è la cupidigia del rapire e dello involare ; acciocché le abbondanze bastino al donare. Ma egli è lecito che noi veggiamo molti, i quali non tanto per natura liberali, quanto indotti da una certa gloria , acciocché essi paiano benefìcatori , fanno molte cose, le quali paiono più venire da ostentazione che da volontà. Ma tale simulazione è più congiunta alla vanità , che alla liberalità o onestà.

CAPO XVIII.

Che si debba osservare nella cautela.

La terza cosa fu proposta che nella be- neficenza noi facessimo secondo la dignità. Nella qual cosa i costumi di colui saranno considerati, nel quale sia conferito il bene- fìcio , e l'animo ancora inverso noi ; e an- cora sarà considerata la comunione, e la compagnia della vita con noi , e i beneficii innanzi fatti inverso noi. Le quali cose, se



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tutte concorreranno , è cosa da desiderarla;

se non , le più cagioni e maggiori avranno più di peso.

Ma e perchè si vive cogli uomini non per- fetti e pienamente savi ; ma con coloro, nei quali si fa qualche cosa egregiamente , se pure che ivi sono l’effìgie della virtù ; que- sto ancora io stimo che debba essere inteso, che uessuno di coloro debba essere spregia- to , nel quale apparisca qualche dimostra- zione di virtù ; e massimamente se egli sarà ornato di queste virtù leggiere, cioè della modestia , e temperanza , e di quella me- desima giustizia, della quale già sono state dette molte cose. Imperocché l’animo forte e grande molte volte è più fervente in un uomo non perfetto nè savio : ma quelle vir- tù paiono più tosto toccare il buon uomo. E queste cose ne’ costumi sono considerate.


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CAPO XIX.


O:


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Della benevolenza e de' benejìcii per nostra utilità dati 1 e che nella benijìcenza si debba attendere accostumi.

Ma della benevolenza la quale alcuno ab- bia inverso noi , quello prima è nell’ uffi- cio, che a colui molto noi diamo, dal quale molto noi siamo amati. Ma la benevolenza noi giudicheremo npn come i giovanetti , con un certo ardore di amore , ma piutto- sto con stabilità e costanza. Ma se i meriti vi saranno , sicché la grazia sia da essere renduta e non presa , maggiore cura debbe essere aggiunta: perocché nessuno ufficio è più necessario, che rendere la grazia. Chè se , come dice Esiodo , tu debbi ( purché tu possa ) rendere con maggiore misura quelle cose , le quali tu hai ricevute per usare 5 or che dobbiamo noi fare , quando noi sia- mo provocati del beneficio ? Or dobbiamo noi fare come fanno i grassi campi , i quali molto più rendono eh' essi non hanno ri- cevuto? Imperocché se noi non dubitiamo fare i beneficii inverso coloro , i quali noi


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speriamo doverci far prò ; or quali dobbia- mo noi essere inverso coloro, i quali già a noi hanno fatto prò ? Imperocché concio- siacosaccbè due sieno le ragioni della libe- ralità , luna del dare il beneficio, l'altra del renderlo ; se noi diamo o no, è in no- stra potestà ; ma il non renderlo , non é lecito al buon uomo , se pure eh* egli lo possa fare senza ingiuria.

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CAPO. XX.

Quale scelta si debba avere ne' ricevuti beneficii.

£ de’ beneficii ricevuti debbe essere fatta 6celta : e non è dubbio che a ciascuno gran- dissimo , noi grandissimamente non siamo tenuti. Nella qual cosa nientedimeno, pri- mamente debbe essere pensato con che ani- mo, studio, o con che benevolenza alcuno avrà fatto quel beneficio inverso noi. Im- perocché molti fanno molte cose senza con- siderazione , o senza misura , inverso ognu- no , o commossi da un subito impeto d’ani- mo, e quasi dal vento. I quali beneficii non


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debbono essere stimati egualmente grandi , come quegli i quali sono fatti costantemen- te , e con considerazione. Ma nell’allogare i benefici! , e nel rendere la grazia , se tutte le altre cose saranno pari , questo massima- mente s 1 appartiene all’ ufficio , che , come alcuno avrà specialmente bisogno di aiuto, così a lui spezialmente noi aiutiamo. La qual cosa pel contrario è fatta da molti : impe- rocché da chi eglino molto sperano , ancora se colui non ha bisogno di loro, nientedi- meno a lui molto essi servono.

CAPO xxt.

Del principio e legami dell' umana compagnia.

Ma ottimamente sarà conservata la con- giunzione e compagnia umana , se come al- enilo sarà congiuntissimo , così in lui mol- tissima benignità sarà conferita. Ma che principii della natura sieno della comuni- tà e compagnia umana, mi pare che deb- ba essere ripetito più da alto. Imperocché il primo è quello il quale è ragguardalo nel-


la compagnia di tutta la generazione uma- na ; e il legame di questo è la ragione e il parlare: la qual cosa insegnando, impa- rando , comunicando , disputando , giudi- cando, concilia gli uomini tra loro, e con- giugneli con una naturale compagnia. Nè per alcuna cosa noi più da lungi ci disco- stiamo dalla natura delle fiere , nelle quali noi diciamo spesso eh’ è la fortezza; come ne’ cavalli e ne'lioni : ma la giustizia , l’e- quità, la bontà noi non diciamo essere in loro ; imperocché esse sono senza la ragione e il parlare.

E larghissimamente agli uomini tra gli uomini j e a tutti tra tutti si manifesta que- sta compagnia: nella quale debbe essere os- servata la comunità di tutte quelle cose , le quali la natura ha generate al comune uso degli uomini: come quelle cose, le quali sono state' ordinate per le leggi e per ra- gione civile, così sieno tenute e osservate, com’è stato ordinato. Per le quali cose le altre cose sieno osservate, com’è nel pro- verbio de’ greci , le cose degli amici sieno tutte comuni : imperocché tutte quelle cose paiono essere comuni, le quali sono di quel-


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la ragione , la quale da Ennio posta in una cosa , può essere transferita in molte parti: l'uomo il quale mostra al compagno errante la via , quasi accenda il lume del lume suo, fa che niente meno a lui riluca , benché a colui egli l'abbia acceso. Imperocché , per una cosa , assai egli comandò , che ciò che senza danno può essere accomodato , quello sia attribuito ancora a uno , il quale noi non conosciamo. Donde sono quelle cose comuni : non vietare l’acqua corrente ; pa- tire ch’ei si pigli il fuoco dal fuoco ; dare il consiglio fedele , se alcuno deliberante farà di qualcosa a te la dimanda : le quali cose sono utili a coloro i quali le ricevono, e non moleste a chi le dà. Per la qualcosa queste cose debbono essere usate da noi , e sempre debbe essere arrecata qualche cosa all’utilità comune. Ma perchè le abbondanze degli uomini in particolarità sono piccole, e la moltitudine è infinita di coloro i quali ne abbisognano , la liberalità volgare debbe essere riferita a quel fine di Ennio , che nientedimeno a se riluca : acciocché e' sia facoltà, per la quale noi siamo liberali in- verso i nostri.


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CAPO XXII.


Della diversità de'gradi della generazione umana.

Ma i gradi della compagnia umana sono più. Imperocché, acciocché noi ci partiamo da quella infinita, più pressa compagnia è quella della medesima gente, e uazione , e lingua , per la quale massimamente gli uomini si congiungono. Più a dentro è a essere della medesima città: imperocché molte cose sono a' cittadini tra loro co- muni , come il foro , le chiese , i portici , le vie, le leggi, le ragioni, i giudici)*, il ragunarsi a consigliare; le usanze, oltre a questo, e le familiarità , e molte cose e ra- gioni contratte con molti. Ma più stretta collegazione della compagnia è de 1 propin- qui : imperocché da quella smisurata com- pagnia della generazione umana , si conchiu- de in una piccola e stretta.

Imperocché conciosiacosacchè questo sia comune della natura degli animali , che essi abbiano la libidine del procreare , la prima compagnia è in esso matrimonio; la


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prossima è ne’figliuoli ; dipoi si fa una casa, e tutte le cose comuni : e questo è il prin- cipio della città, e quasi il semenzaio del- la repubblica. Seguitano i congiugnimenti de’ fratelli : dipoi de’ figliuoli de’ fratelli e delle sorelle •, i quali quando non possono capere in una casa, escono in altre case, come in colonie. Seguitano di quinci i ma- ritamenli e parentadi , de’ quali vengono più propinqui ; il quale distendimento e schiatta è origine delle repubbliche.

Ma la congiunzione del sangue lega gli uomini cou benevolenza e carità. Imperoc- ché egli è grande cosa avere le medesime cose fatte per commemorazione degli an- tichi , usare i medesimi sacrificii , avere i sepolcri comuni. Ma di tutte le compa- gnie nessuna è più eccellente , nessuna è più ferma , che quando gli uomini buoni, simili di costumi , sono congiunti con fami- liarità. Imperocché quell’ onesto , il quale spesso noi diciamo, noi muove, benché in altri noi lo ragguardiamo ; e noi fa amici a colui, nel quale pare che sia quell’ one- sto. E benché ogni virtù noi alletti , e fac- cia che noi amiamo coloro ne’ quali essa


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mostri essere ; nientedimeno la giustizia e la liberalità fa quello massimamente.

Ma niente è più amabile nè più accop- piato che la similitudine de’buoni costumi: imperocché in chi sono i medesimi studi , e le medesime volontà , in costoro si fa che l'uno egualmente si diletti dell'altro, come di sè medesimo. E fessi quello che vuole Pitagora nell'amicizia , che uno si faccia di più. Grande è ancora quella comunità la quale è fatta pe'beneGcii di qui e di lì dati e ricevuti ; i quali mentre che sono scam- bievoli e grati , coloro tra chi eglino sono, sono legati con ferma compagnia.

Ma quando tu avrai attornialo tutte le cose con l'animo e con la ragione , nessuna di tutte le società è più grata , nessuna più cara , che quella la quale è colla repubblica e ciascuno di noi. Cari sono i padri e le madri , cari i figliuoli , cari i propinqui , e familiari ; ma sola la patria ha abbrac- ciato tutte le carità di tutte le cose : per la quale ciascuno uomo non dubita mori- re , se a quella egli dovrà fare prò. Per la qual cosa più è da essere maledetta la crudeltà di costoro , i quali con ogni scel-


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leralezza hanno lacerato la patria; e in gua- stare quella insino al fondo , sono e furono occupati.