Degli uffici (volgarizzamento anonimo): differenze tra le versioni

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Ma di queste tre cose , eccellentissimo è che
Ma di queste tre cose , eccellentissimo è che
l’appetito ubbidisca alla ragione.
l’appetito ubbidisca alla ragione.

CAPO UH.



n5



Dell ordine delle cose , e dell opportunità
de' tempi.

Dopo le dette cose da noi , si dirà del»
r ordine delle cose, e dell’ opportunità de’
tempi. Ma in questa scienza si contiene quel*
la, che in greco si chiama eutaxia , cioè buon
ordine. E non è quella che noi interpre-
tiamo modestia , nella quale parola è il mo-
do ; ma quella è eutaxia , nella quale s’in-
tende essere la conservazione dell’ordine.
Adunque , acciocché questa medesima noi,
chiamiamo modestia , così si diffinisce dagli
stoici , che la medesima è scienza dell’ al-
logare nel luogo loro quelle cose, le quali
si fanno o diconsi. E cosi pare, che una me-
desima forza sia dell’ ordine e dell’ alloga^
zione: imperocché l’ordine così diffinisco*
no , eh’ esso è la composizione delle cose
ne’ luoghi atti e commodi ; e il luogo del-
l’ atto , dicono eh’ è opportunità di tempo.

Ma il tempo opportuno all' atto in greco
e detto eucheria , cioè opportunità di tempo;
* in latino occasione. Così si fa che questa







n6

modestia, la quale noi interpretiamo, come io
ho detto, sia scienza di opportunità di tem-
pi atti al fare. Ma questo può essere la me-
desima definizione della prudenza; della qua-
le nel principio noi dicemmo. Ma in questo
luogo noi cerchiamo della moderazione e tem-
peranza , e delle virtù simili di queste. A-
dunque quelle cose, che propriamente si ap-
partenevano alla prudenza , se ne disse nel
suo luogo : ma ora noi diremo quelle cose , le
quali proprie sono di queste virtù, delle quali
già molto ne abbiamo parlato: le quali s ap-
partengono alla vergogna , e all’approvazio-
ne di coloro, co’quali insieme noi viviamo.

Tale ordine adunque degli atti si debbe
pigliare, che come nel parlar costante, così
nella vita tutte le cose sieno tra loro atte
e convenienti. Imperocché ella è brutta co-
sa e molto viziosa, in un fatto severo in-
serirvi qualche sermone , degno di convito
delicato. Ma bene fece Pericle , quando
nella pretura per compagno avea Sofocle :
e conciosiacosa che costoro lussino in ragio-
namento del comune ufficio , e per accaso
passasse un bello fanciullo , e Sofocle di-
cesse : che bello fanciullo , o Pericle ! Pericle







”7

allora disse : al pretore , o Sofocle , e’ si

confà avere astenente non solo le mani , ma
ancora gli occhi. Ma questo medesimo So-
focle , se nel lodare coloro che giucavano di
persona, avesse detto tale cosa, ragionevol-
mente avrebbe mancato di riprensione. Tan-
ta è la forza del luogo e del tempo, che se
uno il quale abbia a dire la causa sua , per
la via e mentre eli’ e’ va , esso da sè si pruo-
va , o pensa qualche cosa attentamente, non
ha ripreso: ma se fa questo medesimo nel
convito , parrà inumano , e in ignoranza
brutta del tempo.

Ma quelle cose le quali molto si disco-
stano dall’umanità , come se uno cantasse

in mercato, o nella corte, o se alcuna al-
tra grande contrarietà fosse , facilmente si
conosce che non desiderano molto amino-
nizioni o precetti. Ma quegli che paiono
piccoli peccati , e facilmente non possono
essere intesi , da questi si debbe guardarsi
più diligentemente. Come ne’ suoni di cor-
de , o ne' zufoli , benché un poco si disco-
stino dal vero suono , nientedimeno da chi
intende tale errore suole essere conosciuto ;
così ancora si debbe vivere , che nella vita




1 18

niente si discosti dalle cose convenienti : e
ancora molto più che in quegli strumenti ,
quanto è maggiore e migliore la risonanza
degli alti nostri , che de' suoni.

Adunque come ne' suoni, gli orecchi co-
noscono ancora le minime cose, così ancora
noi, se noi vogliamo essere diligenti e forti,
e conoscitori de’ vizi , intenderemo spesso
grandi cose dalle piccole : e dallo sguardo
degli occhi, e dal raccorre o distendere le
sopracciglia, e dalla maninconìa, e dall'alle-
grezza, e dal riso, dal parlare, dall’innal-
zare o abbassare la voce , dallo stare cheto ,
e da tutte le altre simili cose, facilmente
noi giudicheremo quale di queste cose sia
fatta attamente, e quale si discosti dall’ uf-
ficio e dalla natura. Nella quale ragione di
atti non è incomodo giudicare per gli altri,
di che qualità ciascuna di queste cose sia ;
acciocché se alcuna cosa in coloro non si
confà , noi poi la schifiamo. Imperocché si
fa , non so in che modo , che più noi cono-
sciamo negli altri che in noi, se alcuna cosa
si pecca. E così, facilissimamente nell’im-
parare i discepoli sono corretti , quando i
maestri, per cagione di emendargli, imi-
tano i vizi loro.




CAPO LX11I.



”9



Che nelle cose dubbie dobbiamo
consigliarci co' dotti.

Non è cosa aliena, alle cose le quali nel
pigliare ci danno dubbio , aggiungervi uo-
mini dotti, e saputi perla pratica; e do-
mandare costoro quello, cbe di ciascuna ra-
gione d’ ufficio loro paia. Imperocché la
maggior parte degli uomini quasi suol es-
sere traportata , dov’ essa è meuata dalla
natura. Nelle quali cose si conviene vedere,
non solamente quello che ciascuno favelli ,
ma ancora che parere ciascuno abbia , e
perché cagione ancora a ciascuno così gli
paia. 'Imperocché come i pittori, e gli scul-
tori , e di quinci ancora i poeti , ciascuno
vuole che 1’ opera sua sia considerata dal
volgo; acciocché se alcuna cosa fusse ripresa
da' più, quella sia corretta ; e costoro da
sé e con gli altri cercano quello , che in
quella opera sia peccato ; cosi pel consiglio
degli altri , molte cose saranno fatte e non
fatte da noi , e mutate, e ricorrette.

Ma di qnelle cose non si diri alcuno pre-







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120

cetto, le quali si fanno secondo il costume e
secondo gl'istituti civili: imperocché di quel-
le cose già ne sono stati dati i precetti. £
non si conviene che alcuno sia menato da
questo errore, che se Socrate o Aristippo
abbino fatto alcuna cosa contra il costume
o usanza civile , o abbiano parlato , esso
pensi a lui essere lecito fare quello medesi-
mo. Coloro pe’ grandi e divini loro beni,
conseguitavano questa licenza. Ma la ra-
gione de’ cinici tutta si debbe levare via :
imperocché essa è inimica della vergogna ,
senza la quale niente può essere retto , e
niente onesto.




CAPO LXIV.

Che noi dobbiamo osservare la compagnia
di tutti gli uomini.



Ma coloro, de'quali la vita è conosciuta
nelle cose oneste e grandi, essenti in buo-
no parere della repubblica, e bene meri-
tati o meritanti , e ricevuti qualche onore
o signoria , noi dobbiamo osservare ed ama-
re con riverenza. Dobbiamo ancora attri-




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buire molto alla vecchiaia , e cedere a colo-
ro, che avranno magistrato; e fare diffe-
renza tra’l cittadino e il forestiere : e nel
forestiere considereremo, se quivi egli è ve-
nuto o pubblico o privato. E in somma
( acciocché particolarmente io non dica di
ciascuna cosa) noi dobbiamo amara , difen-
dere , e conservare la comune compagnia ,
e le ragunate degli uomini di ogni ragione.

CAPO LXV.

Quali arti e quali guadagni sieno onesti.

Già degli artelìcii e de’ guadagni’, così
quasi noi abbiamo inteso quali sieno da es-
sere tenuti liberali, e quali brunii Prima-
mente sono con vituperio riprovati que’
guadagni , i quali incorrono negli odii de-
gli uomini ; come quelli degli usurai , e de*
portitori. Ma illiberali e brutti sono i gua-
dagni, di tulli i mercenari, de' quali sono
comperate le opere, e non le arti : impe-
rocché in coloro il premio è un mercalare
la servitù. Brutti guadagni ancora si deb-
bono stimare quelli di coloro, i quali dai

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1 22

mercatanti m< rcatano quella cosa , la quale
immantinente rivendono : imperocché nien-
te fanno prò, se non è che essi mentiscono;
e nessuna è più brutta cosa che 1’ essere
bugiardo. Gli artefici tutti si rivoltano in
brutta arte: imperocché la bottega niente
può avere degno di uomo dabbene. E quel-
le arti ancora non saranno approvate , le
quali sono ministre della voluttà ; come so-
no pesciaiuoli , beccai , cuochi , facitori di
torte e camangiari , pescatori , come disse
Terenzio. E a questi aggiungi, se ti piace,
gli unguentai , i ballatoci , e tutto il giuoco
di dadi e tavole.

Ma quelle arti nelle quali è maggiore
prudenza , o cercasi non mezzana utilità ,
com’è la medicina, 1’ architettura , la dot-
trina delle cose oneste, son oneste a colo-
ro , all’ ordine de’ quali esse sono conve-
nienti. La mcrcatanzia , se ella é piccola , è
da essere stimata brutta ; ma se ella é gran-
de e copiosa, e da molti luoghi arrecante
molte cose, e a molti dividentele senza bu-
gia , non è da essere vituperata. E se essa,
saziata del guadagno, o vero più tosto con-
tenta , come spesso dal mare in porto , così



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del porto sì traporterà a’campi , e alle pos-
sessioni ; pare che ragionevolmente debba
essere lodata.



CAPO XXVI.

Che l' agricoltura in tutte le arti operative
è la più laudabile.

Imperocché di tutte le cose, per le quali
si guadagna alcuna cosa , nessuna è miglio-
re che T agricoltura , e nessuna più abbon-
dante , o più dolce , o più degna dell'uomo
libero. Della quale assai molte cose ne di-
cemmo in Catone maggiore : pigliane quel-
le cose ora , le quali s'appartengono a que-
sto luogo.

CAPO XXVII.

Della comparazione degli onesti.

Ma come gli uffici sieno menati da quel-
le parti , le quali sono della onestà , assai
mi pare che si sia sposto. Ma di quelle me-
desime cose che sono oneste , può spesse



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volte accadere contenzione, e comparazio-
ne di due onesti , quale sia più onesto. 11
quale luogo fu tralasciato da Panezio. Im-
perocché , avvegnadiochè 1’ onestà proceda
da quattro parti ; delle quali P una sia del-
la cognizione, l’altra della compagnia, la
terza della magnanimità , e la quarta della
moderazione *, necessario è che nello eleg-
gere l’ ufficio, noi spesso facciamo compa-
razione di queste cose tra loro.

Piaceci adunque, che quegli uffici sieno
più atti alla natura i quali vengono dalla
compagnia , che quegli che procedono dal-
la cognizione. E questo può essere confer-
mo con questo argomento: imperocché se
■a un savio addiverrà tale vita, eli’ esso sia
ricco , soprahbondandogli tutte le abbon-
danze di tutte le cose; benché costui con
sommo ozio seco consideri e contempli tut-
te le cose , le quali sieno degne di consi-
derazione ; nientedimeno se appresso a lui
sarà tanta solitudine, ch’esso non possa ve-
dere l’uomo, uscirebbe di questa vita. E
principale di tutta la virtù è essa sapienza,
la quale i Greci chiamano sofìa. E la pru-
denza é quella , la quale in greco è della



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Jronesis : ma noi intendiamo altra virtù es-
sere questa , la quale è scienza deli’ addo-
mandare e del fuggire le cose. Ma quella
sapienza la quale io chiamai principale , è
scienza di cose divine ed umane ; nella
quale si contiene la comunione e le com-
pagnia tra loro e degli uomini e degli dei.
E se questa è grandissima , come per certo
essa è, di necessità è che quello ufficio sia
grandissimo , il quale viene da compagnia
e comunione. Imperocché e’ si conviene che
la cognizione e la contemplazione della na-
tura , sia manca e quasi non finita , se e'
non seguita alcuno atto delle cose.

Ma quell’ atto massimamente è conosciu-
to, nel difendere i commodi degli uomini..
Adunque s’ appartiene alla compagnia della
generazione umana. Adunque questa com-
pagnia e comunione , è da essere prepo-
sta a quella cognizione. E questo ciascuno
ottimo , per opera lo dimostra e giudica.;
Imperocché chi è tanto cupido in ragguar-
dare e conoscere la natura delle cose , che
se a lui trattante e contemplante le cose
degnissime di considerazione , gli sia offer-
to il pericolo e 1’ avversità della patria ,






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alla quale si possa sovvenire e aiutare , es-
so non getti via e lasci tutte quelle cose ,
ancora se esso stimasse potere annoverare le
stelle, e misurare la grandezza del mondo?
£ questo medesimo farà , in un fatto o pe-
ricolo del padre, o dell'amico. Per le qua-
li cose s'intende , che agli studi e uffici della
scienza , sono da essere preposti gli uffici
della giustizia; i quali s’appartengono alla
utilità degli uomini : della quale niente
debbe all’ uomo essere più caro.

E coloro , de’ quali gli studi e tutta la
vita si rivolta nella cognizione delle cose ,
non si sono partiti dall’ accrescere l’ utilità
e i commodi degli uomini. Imperocché essi
hanno ammaestrato molti, per la qual cosa
essi fussino migliori cittadini , e più utili
a’ fatti loro , e della repubblica. Come Li-
sia discepolo di Pitagora ammaestrò Epa-
minonda : e Platone, Dione da Siracusa;
e così molli molti altri. E noi medesimi,
se alcuna utilità abbiamo arrecato alla re-
pubblica nostra, a quella venimmo ammae-
strati e adornati da’ dottori , e dalla dot-
trina.

E non solamente costoro , mentre che so-











i2 7

no vivi e presenti ammaestrano , e insegna*
no agli studiosi dello imparare ; ma questo
medesimo essi fanno ancora dopo la morte ,
co' libri eh' essi hanno lasciati. Imperocché
da costoro non è stato lasciato luogo alcu-
no addietro , il quale si appartenesse alle
leggi > 0 a ’ costumi , o alla disciplina della
repubblica: in modo che e' pare, che co-
storo abbiano conferito ogni lor ozio alle
faccende nostre. Così coloro dati agli stu*
di della dottrina e alla sapienza , spezia-
lissimamente conferiscono la loro pruden-
za e intelligenza , all’utilità degli uomini.
E per questa cagione ancora è meglio par-
lare copiosamente, purché si faccia con pru-
denza, che considerare acutissimamente sen-
za eloquenza. Imperocché la considerazio-
ne si rinvolta in sé medesima ; ma Telo*
quenza abbraccia coloro, co’quali noi siamo
congiunti in compagnia.

E come gli sciami delle pecchie , non sì
ragunano per cagione di fare i fiedoni; ma,
conciosiacosa che da natura sieno congrega-
bili , fanno quelli ; così gli uomini , e mol-
to più , per natura congregati , aggiungo-
no la sollecitudine del fare e del conside-



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128

rare. Adunque se quella virtù la quale e’ pel
difendere degli uomini , cioè per la com-
pagnia dell’umana generazione , non piglia
la cognizione delle cose ; quella cognizio-
ne parrà digiuna , e che sola si svaghi.
Ancora la grandezza dell'animo , rimota la
compagnia e la congiunzione umana, è una
fierezza è disumanità. E così si fa che la
compagnia e comunione degli uomini , vin-
ca lo studio della cognizione.

E non è vero quello che da alcuni si di-
ce , che per le necessità della vita, per-
chè noi non potessimo senza gli altri fare
e conseguitare quelle cose, le quali lana-
tura desiderasse , per questo questa com-
pagnia e congiunzione sia tra gli uomini :
e che se tutte le cose, le quali s’apparten-
gono al vivere e governo nostro, a noi fos-
sino amministrate , com’ essi dicono, qua-
si da una vergola divina 5 allora ciascuno
d’ottimo ingegno, lasciale tutte le faccen-
de, darebbe sé tutto alla cognizione e alla
scienza. Non è così : imperocché quello ta-
le fuggirebbe la solitudine, e cercherebbe
il compagno dello studio suo, e vorrebbe
ora insegnare , ora imparare , alcuna volta







129

(lire. Adunque ogni ufficio che s'appartiene
al difendere la congiunzione e compagnia u-
mana , debb' essere preposto a quello uffi-
cio, il quale si contiene nella scienza e co-
gnizione.

Quello ancora forse si dovrebbe sapere ,
se questa congiunzione, la quale è massima-
mente atta alla natura, sia da essere sempre
ancora preposta alla moderazione e alla mo-
destia. A noi non piace. Imperocché e’ sono .
alcune cose , parte sì brutte , e parte sì
scellerate , che quelle il savio non dovrà
fate , per cagione ancora del conservare la
patria. Quelle cose, le quali sono molte,
Posidonio le raglino. Ma alcune di queste '
sono sì brutte e sì scellerate , che al dirle
ancora paiono brutte. Adunque queste tali
cose non piglierà il savio per ragione della
repubblica 5 nè la repubblica vorrà che per
sè esse sieno prese. Ma il fatto è più com-
niodo che questo , che da noi si ragiona :
imperocché e’ non può accadere tempo, che
alla repubblica s’appartenga, che il savio
faccia alcuna di tali cose.

Per la qual cosa questo sia in effetto nel-
lo eleggere gli uffici , che questa ragione



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di uffici eccella , la quale è contenuta nella
compagnia umana. Imperocché, che l'alto
considerato segua la cognizione e la prudeu-
za, così si fa che il fare consideratamente
di più pregio sia , che il considerare con
prudenza. E queste cose basti avere dette
insino a qui. Imperocché egli è stato ma-
nifestato il luogo, eh' ei non è difficile , nei
cercare l'ufficio , vedere quale ufficio sia da
essere preposto all'altro. Ma in essa comu-
nione sono i gradi degli uffici, pe’ quali si
può intendere quale avanzi l’altro : che i
primi uffici sono tenuti agl’ iddìi immortali ,
i secondi alla patria, i terzi a’ padri e alle
madri , e dipoi per ordine a tutti gli al-
tri. Per le quali cose brevemente disputa-
te , può essere inteso, che gli uomini non
solamente sogliono dubitare , se la cosa è
onesta o brutta ; ma ancora , preposte due
cose oneste , quale sia più onesta. Questo
luogo, come di sopra è detto, fu lasciato
da Panezio. Ma oggimai andiamo alle cose
che restano.

Fine del Primo Libro degli Uffici di M. T.

Cicerone a Marco figliuolo.

Versione delle 19:30, 3 dic 2017

latino

Marco Tullio Cicerone 1840 D Anonimo politica/filosofia/ Letteratura Degli uffici (volgarizzamento anonimo) Intestazione 15 marzo 2016 25% Da definire

Benchè, o Marco figliuolo, a te il quale già un anno hai udito Cratippo, e ciò in Atene, convenga abbondare di precetti e ammaestramenti di filosofia, per la somma autorità del dottore e della città; delle quali due cose , l una, cioè il dottore, te può accrescere di scienza ; e l’altra , cioè la città , di esempi ; nientedimeno come io , a mia utilità , sem- pre congiunsi le cose greche con le latine ; e non solo in filosofia , ma ancora nell’eser- citazione del dire ; quel medesimo mi pare che debba esser fatto da te ; acciocché tu sii pari nella facultà dell’una e l’altra orazione.

Nella qual cosa, com’ei pare, noi abbiamo arrecato grande aiuto agli uomini nostri : chè non solamente i rozzi delle lettere gre- che, ma ancora i dotti stimo avere acqui- stato, e all’ imparare e al giudicare.

Per la qual cosa imparerai dal principal filosofo di quegli dell’età nostra; e impare- rai quanto lungo tempo tu vorrai: ma tanto lungo tempo tu dovrai volere, insino a quanto a te non parrà poco di quanto tu ne faccia prò. Ma nientedimeno tu leggerai le cose nostre, non molto discordantisi da’ peripa- tetici ; imperocché noi vogliamo essere e so- cratici e platonici. Di essi fatti usa il giudicio tuo; imperocché niente io t’impedisco: ma tu farai l'orazione latina per certo più pie- na, dalle cose nostre le quali tu leggerai. jVla io non voglio che questo sia stimato es- sere stato detto arrogantemente. Imperocché io , concedente la scienza del filosofare a mol- ti , quello eh’ è proprio dell’oratore , dire at- tamente e con oi'dine e ornatamente , perchè in quello studio io ho consumato l’età mia, se quello a me io piglio , io paio attribuir- melo quasi di mia ragione.

Per Ja qual cosa molto , o Cicerone mio,


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io ti conforto , che tu non solamente le ora- zioni mie studiosamente legga , ma ancora questi libri di filosofìa , i quali già a quegli quasi si sono pareggiati. Imperocché mag- gior forza è in quegli del dire *, ma ancora questo modo di dire è da essere amato , il quale è con equabilità , e temperato. E que- sto ancora io non veggo essere addivenuto ad alcuno greco, che colui medesimo si affa- ticasse e nell’ uno e nell'altro genere; e che egli conseguitasse e quel modo del dire nel foro, e questo quieto del disputare. Se già Demetrio Falereo non potesse essere in que- sto numero, disputatore sottile, e oratore poco veemente ; nientedimeno dolce in mo- do, che tu potresti conoscere ch’egli è di- scepolo di Teofrasto. Ma noi quanto nell'uno e 1’ altro modo abbiamo fatto prò , giudi- chinlo altri; l’uno e l’altro di certo abbiamo seguitato. E per certo io stimo che se Pla- tone avesse voluto trattare il modo del dire nel foro, egli avrebbe detto gravissimamen- te, e con molta copia. E se Demostene avesse tenute quelle cose, le quali egli aveva impa- rato da Platone , e avessele voluto pronun- ziare, egltT avrebbe potuto fare splendida-



4

mente , e con ornato. Nel medesimo modo io giudico di Aristotile e di Socrate: l’uno e l'altro de'quali, dilettatosi del suo studio, spregiò l’altrui.

Ma conciosiacosacchè io avessi deliberato di scrivere a le, in questo tempo, qualcosa di filosofia, e molte cose da quinci innanzi ; io massimamente ho voluto cominciare da quello, che all’età tua fosse attissimo, e alla mia autorità. Imperocché, conciosiacosacchè molte cose sieno in filosofia e gravi, e utili, e diligentemente da’ filosofi disputate, e con abbondanza ; larghissimamente paiono mani- festarsi quelle , le quali da coloro sono state date e insegnate degli uffici. Imperocché nes- suna parte della vita, nè in fatti pubblici, nè in privati, nè in quegli del foro, o di ca- sa , se teco alcuna cosa facessi , o contrat- tassi con altrui, può mancare deH’ufficio: e nell'amar quello è posta ogni onestà della vita, e ogni bruttezza nello spregiarlo.

E questa è comune quistione di tutti i filosofi: imperocché chi è, il quale, quando egli non ha alcuni precetti dell’ufficio , abbia ardire chiamarsi filosofo ? Ma e’ sono alcune discipline, le quali , preposti i fini de'beni


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e de’ mali, rivoltano e abbattono ogni uf- ficio. Imperocché chi ha ordinato il sommo bene , che niente gli abbia congiunto con la virtù , e quello egli misura con suoi com- modi , e uou con 1’ onestà ; costui se a sé egli consenta , e alcuna volta non sia vinto dalla bontà della natura, è fatto che eg i non può amare l’amicizia, nè la giustizia» nè la liberalità. E chi giudica il dolore essere sommo male , in nessuno modo può essere forte; uè temperato può essere chi fa che la voluttà è il sommo bene.

Le quali cose , benché così sieno manife- ste, ch’esse non abbino bisogno di dispu- ta; nientedimeno in un altro luogo da noi sono state disputate. Queste discipline adun- que , se a sè esse vogliono essere consen- zienti , niente esse possono dire dell’ uffi- cio. Nè alcuni precetti possono essere dati fermi, e stabili, e congiunti alla natura, se non da coloro i quali dicono , che solo l’o- nestà debba essere per sè medesima deside- rata ; o da coloro i quali dicono, che quella virtù spezialmente e grandissimamente debba essere per sè medesima desiderata. Adun- que questo è proprio ammaestramento de-



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gli stoici e accademici e peripatetici ; dap- poiché la sentenza di Aristone e Pirrone ed Erillo , già molto fa , è stata confusa e abbattuta. I quali nientedimeno avrebbono la ragion loro di disputare dell’ ufficio , se eglino a vessi no lasciato qualche elezione delle cose, acciocché si potesse andare all’inven- zione dell'ufficio. Adunque in questo tempo, e in questa quislione, noi spezialmente se- guitiamo gli stoici , non come interpetri , ma come noi vogliamo ; delle fonti loro , con arbitrio e giudizio nostro, attigneremo quanto ci parrà.

CAPO I.

Dell' ufficio , e come si divide.

Piaceci adunque , perché ogni disputa ha a essere dell’ ufficio , innanzi diffinire che cosa sia ufficio : la qual cosa io mi ma- raviglio essere stata lasciata da Panezio. Imperocché ogni ordinamento , il quale di qualche cosa è preso dalla ragione , debbe procedere dalla diffinizione ; acciocché s’in- tenda ciò che sia quello , del quale si di-


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sputa. Ogni quistione dell’ufficio è doppia r uno modo è il quale s' appartiene al line de’ beni ; l’ altro è il quale è posto ne’ pre- cetti , pe’ quali l’ uso della vita possa es- sere confermo in tutte le parti. Del modo di sopra questi sono gli esempi : se tutti gli uffici sono perfetti o no ; e se alcuno di loro è maggiore che l’altro ; e altre cose simili a queste. Ma quegli uffici de’ quali si danno i precetti , benché essi s' appar- tengano al fine de’beni , nientedimeno meno appariscono di cosi essere , perchè essi più ragguardano all’ ammaestramento della vita comune ; de’ quali uffici noi in questi libri dobbiamo con dichiarazione disputare.

E ancora un altra divisione è degli uffi- ci. Imperocché e' si chiama alcuno ufficio mezzo , e alcuno perfetto. Il perfetto uf- ficio io stimo che noi chiamiamo retto; il quale i Greci chiamano catartoma , cioè se- condo dirittura ; ma questo mezzo eglino chiamano comune. E questi uffici così dif- fiuiscono ; chè quello ufficio che sia retto , diffiniscono essere perfetto ; e quello che è mezzo , dicono essere quello , del quale possa essere data probabile ragione perchè egli sia fatto.


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capo n.


Della deliberazione in pigliare il consiglio.

Di tre parti adunque , come a Panezio pare , è la deliberazione del pigliare il con- siglio. Imperocché gli uomini dubitano , se quello che eglino hanno a fare sia onesto o brutto : e questo cade nella deliberazio- ne ; e in considerar questo , spesso gli ani- mi sono tirati in contrarie sentenze. E an- cora o essi cercano , o essi consigliano alla commodità e giocondità della vita , e alle facoltà delle cose, e alle copie, alle abbon- danze , e alla potenza ; colle quali cose e- glino possouo giovare a sé e a' suoi : e se quello fa utile, del quale eglino delibera- no: la quale deliberazione tutta cade nella ragione dell’ utilità.

E il terzo modo del disputare è , quando quello che pare utile, pare che combatta con quello eli’ è onesto. Imperocché conciosiaco- sacchè T utilità paia a sé rapire , e l' onestà pel contrario paia da sé rimuovere ; si fa che l'Animo nel deliberare si divida , e ar- rechi sollecitudine dubbiosa del pensare.


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In questa divisione ( conciosiacosacchè grandissimo vizio sia nel dividere, lasciare alcuna cosa ) due cose sono state lasciate. Imperocché non solamente e’ si suole delibe- rare , se egli è onesto o brutto ; ma ancora , preposti due onesti , se l’uno è più onesto che l’altro. E similmente, preposti due utili, si suole dubitare se l’uno è più utile che l’al- tro. E così quella ragione , la quale colui stimò di essere di tre parti , si trova dover es- sere distribuita in cinque. Primamente dun- que si disputerà dell’ onesto , ma in due mo- di ; e ancora con pari ragione dell'utile ; e dipoi della comparazione tra loro.

CAPO III-

Della forza della natura a fare C onesto,.

Da principio a ogni ragione d'animali è stato attribuito dàlia natura , ch’egli difenda' sé , e la vita , e il corpo ; e isoli i £1 quelle cose, le quali paino di dovere nuocere-, e- tutte quelle cose le quali sieno necessarie- •1 vivere, acquisti e trovi; come è fa pa- sciona, a i covaccioli, e altre simili cosce.


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Ma comune cosa è di tutti gli animali l’ ap- petito della congiunzione , per cagione del procreare ; e alcuna cura di quelle cose , le quali sono state da loro procreate. Ma tra l’ uomo e la bestia è singolarmente que- sta differenza , che la bestia tanto si muove, quanto dal senso essa è mossa ; a quello eh e presente , e a quello che l’ è innanzi si ac- comoda , poco avvedentesi del preterito e del futuro: ma l’uomo, perchè egli è par- tecipe della ragione , per la quale egli vede le cose conseguenti , e conosce le cagioni delle cose, e i progressi di quelle, e quasi sa quelle cose le quali innanzi vadano, e agguaglia le similitudini , e alle cose pre- senti aggiugne e annoda le future ; facil- mente vede il corso di tutta la vita , e al governo di quella egli apparecchia le cose necessarie. Questa medesima natura colla iorza della ragione concilia 1’ uomo all’uo- mo , alla compagnia e del parlare e della vita : e ingenera , traile prime cose , uno pre- cipuo amore in coloro , i quali sono stati procreati ,• e commuovegli che le brigate degli uomini vogliano essere insieme , e tra se ricercarsi. E per queste cagioni tali ra-


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gunate si studiano trovare e acquistare quelle cose, le quali sovvengono al vivere, e al vestire , e al governarsi ; e non solamente a sè solo , ma alla moglie , a’ figliuoli , e a tutti quegli altri , i quali esse abbino cari , e debbino difendere. La quale cura desta ancora gli animi , e fagli maggiori al fare le cose.

E tra le prime cose nell’ uomo , è pro- pria cosa il cercare e T investigare il vero. E così quando noi siamo voti di necessarie cure e faccende, allora noi desideriamo ve- dere qualche cosa , e udire , e imparare ; e stimiamo che la cognizione delle cose o occulte o mirabili, sia necessaria al vivere beatamente. Per la qual cosa s’intende , che quello che è vero e semplice e puro , è attis- simo alla natura dell’ uomo.

A questa cupidigia del vedere il vero è aggiunto un certo desiderio del principato; che l’ animo bene informato dalla natura non voglia ubbidire ad alcuno , se non a \jhi insegna o ammaestra, o, per cagione di suo utile, legittimamente comanda e con giustizia. Della qual cosa è la grandezza del- l' anima , e lo spregiare le cose umane.


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Ma nè quella è piccola forza della na- tura e della ragione , che solo questo ani- male conosce che cosa sia ordine , e che cosa sia quella la quale si confà ne' detti e ne' fatti, e che è misura. E così nessuno altro animale conosce la bellezza e la pu- litezza di quelle cose , le quali sono cono- sciute per l’aspetlo, nè la convenienza delle parti. La qual similitudine , la natura e la ragione dagli occhi trasferendo allonimo, molto più ancora stima dovere esser con- servata la bellezza , e la costanza , e l’or- dine ne’ consigli e ne’ fatti: e guardasi che nessuna cosa esso faccia effeminatamente, e con isconvenienza : e ancora che cosa non faccia, o non pensi alcuna cosa libidinosa- mente , nè in tutti i fatti , e in tutte le opinioni. Per le quali cose si congrega e fassi quell’ onesto , che noi cerchiamo : il quale se non fosse nobilitato, nientedimeno sarebbe onesto: e quello che in verità noi diciamo , che benché da nessuno egli fosse lodato , nientedimeno egli per natura sa- rebbe laudabile.


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CAPO IV.


Belle quattro virtù , onde nascono gli uffici.


Tu, o Marco, ora vedi la forma di essa onestà : la quale se cogli occhi fosse vedu- ta , maravigliosi amori , come disse Pla- tone , commoverebbe. Ma ogni cosa che é onesta , quella nasce da alcuna delle quat- tro parti: imperocché o esso onesto si ri- volta nel ragguardamento del vero, e nella sollecitudine di quello ; o in difendere la compagnia umana , e nell’ attribuire a cia- scuno il suo, e nella fede delle cose contrat- tate 5 o nella grandezza e fortezza dell’ a- nimo invitto ed eccelso ; o nell’ ordine e modo di tutte le cose , le quali si fanno o diconsi , nel quale è la modestia e la tem- peranza.

Le quali quattro cose , benché tra loro sieno avviluppate e collegate, nientedimeno di ciascuna per sé nascono certe ragioni di uffici. Come , da quella parte la quale prima fu descritta , nella quale noi pognia- mo la sapienza e la prudenza , in quella dentro è il cercare e il trovare la verità :



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e di queste virtù questo è il proprio dono.

Imperocché come ciascuno massimamente conosce quello , che in ciascuna cosa sia ve- rissimo , e il quale acutissimamente e bene può e vedere e sviluppare la ragione , co- stui rettamente suol essere tenuto pruden- tissimo e saviissimo. Per la qual cosa a co- stei è suggetta la verità , quasi materia la quale essa tratti, e nella quale essa si ri- volghi.

Ma alle altre tre , che restano , sono pre- poste le necessità all’ acquistare e al difen- dere quelle cose , nelle quali è contenuto il governo della vita ; acciocché e la con- giunzione e la compagnia degli uomini sia conservata; e l’eccellenza e grandezza del- l’animo riluca , sì nell’ accrescere le abbon- danze , e nell' acquistare l'utilità e a sé e a' suoi ; sì molto più nello spregiare quelle. Ma l’ ordine , e la costanza , e la modera- zione , e altre cose le quali sono simili a queste , si rivoltano in quella ragione , alla quale debba essere dato un certo fare, e non solamente il rivoltare la mente. Impe- rocché quando noi aggiugneremo un certo modo e ordine alle cose, le quali sono trat-


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tate nella vita , noi conserveremo la con- venienza e 1' onestà.

capo v.

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Della Prudenza.

De’ quattro luoghi, ne' quali noi abbiamo diviso la natura e la forza dell’onesto , quello primo , il quale sta nella cognizione del ve- ro , massimamente tocca la natura umana. Imperocché tutti siamo tirati e siamo me- nati alla cupidigia della cognizione e della scienza ; nella quale noi stimiamo esser cosa bella eccellere : ma trascorrere , errare , essere ingannato , e non sapere , noi diciamo essere cosa trista e brutta. In questa ra- gione naturale e onesta , due vizi debbono essere schifati : l’ uno , che noi non abbia- mo le cose incognite per le conosciute ; il qual vizio chi lo vorrà fuggire ( ma tutti debbono volere) aggiugnerà, al considerare le cose, tempo e diligenza. L’altro vizio è, che alcuni mettono troppo grande studio, e troppo molta opera nelle cose oscure e malagevoli, e nientedimeno non necessarie.


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Ma , schifati questi vizi , ciò che di cura e di opera sarà posto nelle cose oneste e degne di cognizione , quello sarà ragionevolmente lodato. Come in astrologia noi abbiamo o- dito aver fatto Caio Sulpicio ; e in geo- metria conoscemmo fare Sesto Pompeo ; e molti in loica ; e più in ragion civile : le quali arti tutte consistono nell' investigazio- ni del vero; per lo studio del quale, ri- muoversi dal fare le faccende , è contro al- l'ufficio. Imperocché ogni loda di virtù con- sista nel faccimeuto : dal quale nientedime- no spesso si fa intermissione , e molte ri- tornate sono date agli studi. Ancora il com- movimento della mente , il quale mai non si riposa , può contenere noi negli studi del pensare, ancora senza nostra opera. Ma ogni pensiero e movimento di animo sarà rivolto, o nel pigliare i consigli delle cose oneste , e appartenenti al bene e beata- mente vivere, o negli studi della cognizione e della scienza. E già noi abbiamo detto, della prima fonte dell’ ufficio.

Della Giustizia.


Delle tre ragioni le quali restano, lar- ghissimamente si manifesta quella , per la quale la compagnia degli uomini tra loro , e quasi la communione della vita , si con- tiene. Della quale due parti sono: la giu- stizia , nella quale è lo splendore grandis- simo della virtù , per la quale sono nomi- nati gli uomini buoni *, e a questa è con- giunta la beneficenza , la quale medesima- mente è lecito chiamare benignili, o vero liberalità. Ma della giustizia è il primo do- no , che alcuno a nessuno nuoca , se non é provocato da ingiuria ; dipoi ch’egli usi le cose comuni per comuni, e le privale come per sue.

Ma da natura nessune cose sono priva- te: ma sono private o per antica occupa- zione, come addiviene a coloro, i quali per lo passato entrarono nelle cose non posse- dute ; o per vittoria, com’ è in coloro, i quali le hanno acquistate per battaglia ; o per legge j o per patto j o per condizione ;


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o per sorte. Per la qual cosa è fatto che i campi arpinati sieno detti degli Arpinali , i tusculani de’Tusculani. £ simile è la divi- sione delle possessioni private. Per la qual cosa poicchè ciascuno possiede per suo di quelle cose , le quali per natura erano state comuni*, quello che ad alcuno tocca, quello


alcuno tenga. Per questo se alcuno a sé più appetirà , costui violerà la ragione dell’ u- mana compagnia.

Ma perchè , come da Platone fu scritto egregiamente , non a noi soli noi siamo nati , e del nascimento parte a sé ne attri- buisce la patria , parte gli amici ; e come piace agli stoici , quelle cose le quali nelle terre sono generate , sono create all'uso de- gli uomini ; e gli uomini sono fatti per ca- gione degli uomini , acciocché essi tra loro l’uno faccia prò all'altro ; in questo noi dob- biamo seguire la natura per guida , e dob- biamo recare in comune le utilità comuni , con permutazione di uffici , dando e riceven- do ; e , sì colle arti , sì coll’ opera , sì colle facultà , noi dobbiamo legare la compagnia degli uomini tra loro.


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CAPO VII.

Della Fede.



Ma il fondamento della giustizia è la fede: cioè la costanza e la verità di quello che noi abbiamo detto , o abbiamo pattuito. Per la qual cosa , benché questo forse parrà a qual- cuno duro , nientedimeno noi avremo ardire di seguitare gli stoici , i quali studiosamente cercano donde le parole sieuo dette : e cre- deremo che la fede sia chiamata, perchè e’ si fa quello che è detto.

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CAPO Vili.

Due ragioni d'ingiustizia.

Ma due ragioni sono d'ingiustizia: l’una di coloro i quali muovono l’ingiuria ; l’altra di coloro, da’ quali non è rimossa l'ingiu- ria, se da loro si può , quando a loro essa è fatta. Imperocché chi ingiustamente fa im- peto contro ad alcuno , commosso o da ira o da qualche perturbazione, costui par che metta le mani addosso al compagno. Ma chi


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non si difeude e non si oppone all’ ingiuria , se egli può, tanto è in vizio, quanto se egli abbandonasse il padre e la madre , o gli ami- ci, ola patria.


CAPO IT.

Diverse ragioni cC ingiurie.

£ quelle ingiurie, le quali a studio sono fatte per cagione di nuocere, spesso proce- dono da paura : quando colui il quale pensa nuocere a altri , teme cbe se egli non fa quello, esso non sia preso da qualche in- comodità. Ma la grandissima parte sono as- salili al fare l' ingiuria , acciocché essi ac- quistino quelle cose, le quali eglino hanno desiderate : nel qual vizio larghissimamente sì manifesta l’avarizia.

Ma le ricchezze sono desiderate sì agli usi necessari della vita , e sì all’ usare le vo- luttà. Ma in chi è maggiore animo, in co- storo la cupidità delle pecunie ragguarda alla potenza, e alla facultà del farsi grato. Come , novellamente , Marco Crasso negava alcuua roba essere assai grande a colui, il


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quale nella repubblica volesse essere prin- cipale, se de’ frutti di quella egli non po- tesse nutricare 1' esercito. Dilettano ancora i magnifici apparati , e i fornimenti del go- verno della vita con eleganzia e copia. Per le quali cose è fatto, che la cupidigia delle pecunie sia infinita. Ma l’amplificazione della roba tua non debbe essere ripresa , quando essa non nuoce ad alcuno ; ma V ingiuria sempre debbe essere fuggita.

Ma massimamente sono molti indotti , che dalla dimenticanza della giustizia essi sono presi , quando essi sono cascati nella cu- pidigia degli imperii, degli onori, e della gloria. Imperocché quello che è appresso a Ennio , nessuna cupidigia del regno è santa , e non e’ è fede , largamente si ma- nifesta. Imperocché ciò che è in questo mo- do , che in quello non si possono fare grandi più uomini , in tal cosa molte volte si fa tanta contesa , che malagevolissima cosa sia conservare la santa compagnia. Tal cosa è stata dimostrata ora dalla temerità di Caio Cesare ; il quale ha rivolto tutte le ragioni umane e divine, per acquistare quello prin- cipato , il quale con errore di sua opinione


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a sé aveva finto convenirsi. Ma in questa tal virtù è molesto , che spesse volte negli animi grandissimi, e negli splendidissimi in* gegni , sono cupidigie dell’onore , dello im- perio, della potenza, e della gloria : per la qual cosa tanto più è da guardarsi, che in lai cosa non si pecchi.

Ma in ogni ragione d' ingiustizia , molto si differenzia, se per qualche perturbazione di animo ( la quale molle volte è breve e a tempo) o se con consiglio sia fatta l’ingiu- ria , e pensatamente. Imperocché più leg- giere sono quelle cose , le quali accaggiono con subito movimento , che quelle le quali sono fatte innanzi pensate, e con prepara- zione. E del muovere ingiuria assai già ne sia detto.

CAPO x.

Le cagioni della seconda ragione dell' ingiustizia.

Più sogliono essere le cagioni del lasciare la difesa , e dell’ abbandonare chi tu sei te- nuto a difendere. Imperocché questi tali uo- mini non vogliono ricevere nimicizie , o fati-


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che ,*o spese; ovvero ancora, ciò non fanno per pigrizia, o per dappocaggine, o perchè essi non l’apprezzino: ovvero essi da certi loro studi e occupazioni cosi sono impedi- ti , che coloro i quali da loro debbono es- sere difesi, gli abbandonano, e patiscono che eglino sieno offesi. Adunque è da ve- dere che non assai è quello che da Platone fu detto contro i filosofi, che perchè eglino si rivoltano nella investigazione del vero , e spregiano quelle cose le quali molti gran- demente desiderano , per le quali essi tra loro combattono, per questo essi stimano essere giusti. Imperocché conciosiacchè egli- no conseguitino l’uno modo della giustizia, che essi non nuocono ad alcuno , essi ca- scano nell’ altra ingiuria : imperocché im- pediti dallo studio dello imparare, eglino abbandonano chi da loro doveva essere di- feso. E così coloro stimano, ch’eglino non debbano andare a governare la repubblica, se non costretti: più giusta cosa era, che eglino andassi no di loro volontà ; imperoc- ché quello è giusto il quale è fatto retta- mente , se egli è volontario.

Ma e sono ancora alcuni , i quali per lo 24

studio delle loro cose familiari , e per odio • di alcuni uomini , dicono che fanno loro faccende , acciocché eglino non paiano di fare ingiuria ad alcuno : i quali mancano dell’uno modo dell’ ingiustizia , e incorrono nell’altro. Imperocché essi abbandonano la compagnia della vita ; perchè in colei nien- te eglino conferiscono di studio, niente di opera , e niente di facultà. Perché adun- que, preposte due ragioni d'ingiustizia , noi abbiamo aggiunto le cagioni dell’ una e del- l’altra 5 e innanzi noi ordinammo quelle co- se , nelle quali è contenuta la giustizia ; a- gevolmente noi potremo giudicare che tem- po sia di ciascuno ufficio, se già noi molto non amiamo noi medesimi. Imperocché la cura delle altrui cose è malagevole : benché quel Cremete di Terenzio, nessuna cosa u- mana stima da sé essere aliena. Ma nien- . tedimeno perchè più noi pigliamo e cono- sciamo quelle cose, le quali a noi accaggiono prospere o avverse, che quelle le quali ad- divengono agli altri ; le quali noi veggia- mo , quasi interpostovi un lungo spazio ; altrimenti noi giudicheremo di loro , che dì noi. Per la qual cosa bene comandano


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coloro, i quali 'vietano che tu faccia alcuna cosa , la quale tu dubiti se ella è giusta o ingiusta : imperocché T equità per sé me-


Ma spesse volte accaggiono tempi, quando quelle cose le quali massimamente paiono essere degne del giusto uomo , e di colu >1 quale noi chiamiamo uomo buono, sono fatte contrarie: come è rendere il deposito e fare la promessa. Le quali cose, perchè esse si appartengono alla verità e alla fe- de , negare alcuna volta e non osservare , si fa giusta cosa. Imperocché ei si confà eh’ esse sieuo riferite a quelli fondamenti della giustizia, i quali io posi nel princi- pio : primamente eh’ ei non si nuoca ad al- cuno ; dipoi che si serva all' utilità comune. Quelle cose col tempo si mutano , e si muta 1' ufficio , e non è sempre il medesimo.


desima riluce; e il dubitare dimostra pen- siero d’ingiuria.




CAPO XI.


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Come P ufficio si muta , e non è sempre il medesimo.


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£ può ancora accadere che alcuna pro- messa c convegna sia disutil cosa a essere fat- ta , o a colui a chi è stato promesso , o a colui il quale ha promesso. Imperocché se ( com’è nelle favole ) Nettuno non avesse fatto quello ch'egli aveva promesso a Teseo-, Teseo non sarebbe stato privato del suo fi- gliuolo Ippolito. Imperocché, come si scri- ve, di tre desiderate dimande, questa era la terza, che adirato, egli desiderò della morte di Ippolito : la quale impetrata , egli cascò in grandissimi pianti.

Adunque quelle promesse non debbono essere osservate , le quali sieno disutili a coloro a’ quali tu V hai promesse : nè an- cora se a te esse più nuocono , ch’esse non fanno prò a colui , al quale tu hai promes- so. Contro all’ ufficio è, il maggior danno essere anteposto al minore. Come se tu a- vessi ordinato andare avvocato a un fatto presente, e in questo mezzo il tuo figliuolo avesse cominciato ammalare gravemente , non è contro all’ufficio non fare quello che tu avevi ordinato. E più si partirebbe co- lui dall’ufficio, al quale tu avevi promesso-, se si dolesse essere stato lasciato. Or chi già


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non vede che in quelle promesse non si deb- ba stare, le quali alcuno, costretto da pau- ra , o ingannato con fraude , avrà promes- so? le quali, molle sono liberate per la ra- gione del pretore , e alcune per le leggi.

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CAPO XII.

Della malizia nell' intcrpeirarc la ragione.

Fannosi ancora spesso ingiurie per una certa calunnia, e per la troppa scaltrita e maliziosa interpetrazione della ragione : on- de , somma ragione , somma ingiuria , è fatto proverbio già molto trito. Nel qual modo ancora nella repubblica si fanno molti peccati. Come colui, il quale quando le trie- gue erano fatte per trenta di , rubava la notte i campi ; e diceva , che le triegue e- rano fatte de’ dì, e non delle notti. E an* cora non debbe essere lodato , se egli è ve- ro , quel nostro Fabio Labeone , ovvero qualche altro (imperocché io non ho altro che l’udito ) il quale, dato dal senato arbi- tro a’ Nolani e a’ Napoletani de’ contini dei loro campi , quando veane al luogo ordì-



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nato , parlò separatamente coll' una parie e 1' altra : e questo era , eh’ eglino non vo- lessino o fare o appetire alcuna cosa cupi- damente; e che piuttosto volessino andare a dietro , che ire innanzi. E quando co- loro ebbono fatto questo, come costui aveva detto , nel mezzo avanzò alquanto spazio di terreno : e così egli terminò i confini di co- storo , come essi avevano detto ; e quello ch'era avanzalo in mezzo, giudicò che do- vesse essere del popolo romano. Ma questo è ingannare e non giudicare. Per la qual cosa in ogni faccenda debbe essere fuggita tale sottigliezza.

CAPO XIII.

Degli uffici verso gl' ingiuriatiti.

Sono ancora certi uffici i quali debbono essere osservati inverso coloro , da' quali tu avrai ricevuto T ingiuria. Imperocché e’ ci è il modo del vendicare , e del punire. E non so se egli è assai , che colui il quale ha in- giuriato , si penta dell'ingiuria; acciocché < sso da quinci innanzi non più faccia tal cosa, e gli altri sieno all'ingiuria più tardi.


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E nella repubblica spezialmente debbono essere conservate le ragioni della guerra. Imperocché conciosiacosacchè ei sieno due ragioni di combattere, l’una per deputa- zione , e l’ altra per forza 5 e conciosiaco- sacchè quella propriamente s’appartenga al- l’ uomo , e questa alle bestie ; si debbe ri- fuggire a questa di dopo, se non è lecito usare quella di sopra.

Per la qual cosa le guerre debbono es- sere prese per questa cagione , che senza ingiuria si viva nella pace. Ma, acquistata la vittoria, debbono essere conservati colo- ro , i quali non furono crudeli nella guer- ra , nè disumani : come gli antichi nostri ancora nella città ricevettono i Tusculani, gli Equi, i* Volsci , i Sabini, gli Eurici ; ma Cartagine e Numanzia mandarono a ter- ra insino a’ fondamenti. Io non vorrei che eglino avessino fatto così di Corinto : ma io credo che alcuni considerarono all’ op- portunità del luogo ; acciocché esso luogo non potesse qualche volta confortare a muo- ver guerra. Ma a mio parere sempre si con- siglierà alla pace ; la quale niente sia da do- vere avere d’ inganno. Nella qual cosa se



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a me fosse stalo obbedito, se noi non aves- simo ottima repubblica, almeno noi l’avrem- mo qualcuna , la quale ora è niuna. E a coloro ancora si debbe fare prò , i quali 'per forza tu hai vinto: e coloro debbono essei’e ricevuti , i quali, poste giù Tarmi , fuggiranno alla fede degli imperadori; ben- ché dall’ ariete sieno state percosse le loro mura. Nella qual cosa tanto appresso agli antichi nostri fu amata la giustizia , che co- loro i quali nella fede avessino ricevute le città e le nazioni , vinte per la guerra, fus- sino difensori di quelle, secondo il costu- me degli antichi.

E l’equità della guerra santissimamente è ordinata , per la ragione feciale del popolo romano. Dalla qual cosa può essere inteso, che niuna guerra è giusta , se non è quella che è fatta per le cose addimandate , o che innanzi essa sia stata denunziata , e coman- data. Pompilio imperadore teneva la provin- cia , nell’esercito del quale campeggiò il fi- gliuolo di Catone, nuovo soldato. Ma con- ciosiacosacchò a Pompilio paresse licenziare una legione, licenziò ancora il figliuolo di Catone, il quale campeggiava in quella. Ma

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perchè per voglia del combattere colui ri- mase nell’ esercito ; Catone scrisse a Pompi- lio, che se pativa che colui rimanesse nel- l’esercito, ch’egli l'obbligasse col secondo sacramento; perchè, perduto il primo, egli non poteva di ragione combattere col nimi- co. Così era somma osservanza nel muovere la guerra.

Di Marco Catone vecchio ci è una pistola al figliuolo: nella quale egli scrive, che egli ha udito come egli è stato licenziato dal con- sole, conciosiacchèegli era soldato nella guer- ra macedonica ; adunque egli Pammunisce, ch’egli si guardi, che egli non pigli la zuf- fa. Imperocché egli dice , che e’ non è di ra- gione, che colui il quale non sia soldato com- batta col nimico.

Quello ancora io considero, che colui il quale nel proprio nome era perduelle , fusse chiamato oste ; la leggerezza del vocabolo mitigante la tristizia del fatto. Imperocché appresso agli antichi nostri, oste era chia- malo colui , il quale ora noi chiamiamo pe- regrino. Questo dimostrano le dodici tavo- le, ove era, il di ordinato coll'oste: e an- cora , 1' eterna autorità inverso l' oste. Or


che può essere aggiunto a tanta mansuetudi- ne , che colui col quale tu combatta , sia chiamato con si piacevole nome? benché l’an- tichità già ha fatto questo nome duro. Impe- rocché e’ s’ è partito dal peregrino, ed è ri- masto propriamente in colui , il quale con- tra ci arreca l’ arme.

CAPO XIV.

Che le cagioni della guerra hanno a essere giuste., e della Jede verso i nimici.

Ma quando e’ si combatte dell’imperio, e per guerra è cercala la gloria , bisogna nien- tedimeno che vi sieno le cagioni delle guer- re, e quelle giuste 5 come poco innanzi io dissi. Ma quelle guerre nelle quali è propo- sta la gloria dell’ imperio, debbono essere fatte meno acerbamente. Imperocché, come quando noi contendiamo civilmente, altri- menti noi contendiamo se egli è nimico, e altrimenti se egli addimanda il medesimo che noi: coll’uno è il combattimento dell’onore e della dignità , coll’altro è del capo e della fama. Co’ Celtiberi e Cimbri si faceva la


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guerra come con nimici; cioè chi rimanesse vivo, e non chi signoreggiasse. Co’ Latini, e Sanniti, con gli Affricani, con Pirro si combatteva dell'imperio. Gli Affricani fu- rono rompitori di fede - , Annibaie fu crude- le ; tutti gli altri furono giusti. Di Pirro ci è quella bella sentenza del rendere i prigio- ni : A me io non addomando oro ; a me voi non darete prezzo. Noi non facciamo merca- tanzia della guerra , ma noi siamo combat- tenti. Col ferro e non con oro combattiamo Cuna parte e l' altra. Proviamo colla virtù chi la fortuna padrona vuole che signoreg- gi , o voi o io, e (juello che arrechi la sorte. Alla virtù di chi la fortuna della guerra ha perdonato , alla libertà di coloro a me è certa cosa perdonare. Toglietevegli in dono , e dò- vegli f, volenti i grandi Iddii. Questa sentenza per certo fu di re , e degna della stirpe dei discesi di Eaco.

E ancora se noi da ciascuni tempi condot- ti, avremo promesso alcuna cosa a’ nimici, in quello debbe essere conservata la fade. Come nella prima guerra affricana, Regolo preso da’ Cartaginesi , quando da loro ei fu mandato a Roma per barattare i prigioni , e


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aveva giurato di tornare , se ciò non si face- va. Primamente come egli venne nel senato , giudicò che i prigioni non si dovcssino ren- dere ; dipoi , conciosiacosaccbè egli fosse rite- nuto da'suoi , e dagli amici , e da' propinqui, più tosto volle tornare al tormento , che fal- lire la fede data al nimico. E degli uffici della guerra assai già si è detto.

capo xy.

Della giustizia verso gl'inferiori.

Ricordiamoci poi che la giustizia ancora inverso gl’ infimi debbe essere osservata. Ma la condizione e fortuna de' servi è infima. I quali servi , coloro i quali comandano ch’eglino sieno usati come mercenai al ri- scuotere l’opéra , e al dare al loro affare cose giuste , non male comandano. Ma conciosia-f cosacchè in due modi si faccia l’ingiuria , cioè colla fraude e colla violenza ; la fraude pare quasi proprietà della volpe , e la violenza del lione : l’una e l’altra è alienissima dal- l’ uomo ; ma la fraude è degna di maggiore odio. Ma d’ ogni ingiustizia nessuna è più


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capitale , che quella di coloro , i quali quando massimamente ingannano, quello fanno che essi paiono essere buoni. Assai si è detto della giustizia.

CAPO XVI.

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Della Liberalità.

• * ; 1 1 , M ì ;

Di quinci, come si era proposto, dicasi della beneficenza e liberalità ; della quale niente è alla natura dell’uomo più accomo- dato. Ma essa ha molte cautele. Imperocché prima si debba vedere che la benignità non nuoca , e a coloro medesimi a’quali parrà do- vere essere fatto benignamente, e agli altri: dipoi che la benignità non sia maggiore che la facultà : la terza è che a ciascuno si dia se- condo la dignità. Imperocché questo è il fon- damento della giustizia ; alla quale debbono essere riferite tutte queste cose. Imperocché coloro i quaii nel gratificare nuocono a chi eglino mostrano volere fare prò , non deb- bono essere chiamati beneficatori e liberali, ma dannosi assentatori : e coloro i quali nuocono agli altri , acciocché inverso altri essi sieno liberali , sono nella medesima in-



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giustizia , come se eglino la roba altrui con- vertissino nella sua. Ma e sono molti cupidi dello splendore e della gloria , i quali tolgono a altri quello che a altri essi donino. A co- storo pare essere beneficatori degli amici, se coloro egli arricchiscono in qualunque mo- do : ma questo tanto si discosta dall'uificio, che all' ufficio niente possa essere più contra- rio. Vuoisi adunque vedere che noi usiamo quella liberalità , la quale faccia prò agli a- mici , e non nuoca ad alcuno. Per la qual cosa il trasferimento di Lucio Siila e di Caio Ce- sare delle pecunie , da’ giusti padroni agli alieni , non dehhe parere liberale; imperoc- ché niente è liberale , che medesimamente non sia giusto.

CAPO XVII.

Delle cause della seconda cautela.

L’ altra cautela era , che la benignità non fosse maggiore che le facultà. Perchè coloro i quali vogliono essere più benigni che non patisce il fatto loro , primamente in questo peccano , eh' essi fanno ingiuria a' prossimi.


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Imperocché costoro trasferiscono alle genti aliene quella roba , la quale più ragionevol- mente doveva essere in aiuto , e essere lascia- ta a quegli prossimi. Ma in tale liberalità molte volte è la cupidigia del rapire e dello involare ; acciocché le abbondanze bastino al donare. Ma egli è lecito che noi veggiamo molti, i quali non tanto per natura liberali, quanto indotti da una certa gloria , acciocché essi paiano benefìcatori , fanno molte cose, le quali paiono più venire da ostentazione che da volontà. Ma tale simulazione è più congiunta alla vanità , che alla liberalità o onestà.

CAPO XVIII.

Che si debba osservare nella cautela.

La terza cosa fu proposta che nella be- neficenza noi facessimo secondo la dignità. Nella qual cosa i costumi di colui saranno considerati, nel quale sia conferito il bene- fìcio , e l'animo ancora inverso noi ; e an- cora sarà considerata la comunione, e la compagnia della vita con noi , e i beneficii innanzi fatti inverso noi. Le quali cose, se



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tutte concorreranno , è cosa da desiderarla;

se non , le più cagioni e maggiori avranno più di peso.

Ma e perchè si vive cogli uomini non per- fetti e pienamente savi ; ma con coloro, nei quali si fa qualche cosa egregiamente , se pure che ivi sono l’effìgie della virtù ; que- sto ancora io stimo che debba essere inteso, che uessuno di coloro debba essere spregia- to , nel quale apparisca qualche dimostra- zione di virtù ; e massimamente se egli sarà ornato di queste virtù leggiere, cioè della modestia , e temperanza , e di quella me- desima giustizia, della quale già sono state dette molte cose. Imperocché l’animo forte e grande molte volte è più fervente in un uomo non perfetto nè savio : ma quelle vir- tù paiono più tosto toccare il buon uomo. E queste cose ne’ costumi sono considerate.


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CAPO XIX.


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Della benevolenza e de' benejìcii per nostra utilità dati 1 e che nella benijìcenza si debba attendere accostumi.

Ma della benevolenza la quale alcuno ab- bia inverso noi , quello prima è nell’ uffi- cio, che a colui molto noi diamo, dal quale molto noi siamo amati. Ma la benevolenza noi giudicheremo npn come i giovanetti , con un certo ardore di amore , ma piutto- sto con stabilità e costanza. Ma se i meriti vi saranno , sicché la grazia sia da essere renduta e non presa , maggiore cura debbe essere aggiunta: perocché nessuno ufficio è più necessario, che rendere la grazia. Chè se , come dice Esiodo , tu debbi ( purché tu possa ) rendere con maggiore misura quelle cose , le quali tu hai ricevute per usare 5 or che dobbiamo noi fare , quando noi sia- mo provocati del beneficio ? Or dobbiamo noi fare come fanno i grassi campi , i quali molto più rendono eh' essi non hanno ri- cevuto? Imperocché se noi non dubitiamo fare i beneficii inverso coloro , i quali noi


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speriamo doverci far prò ; or quali dobbia- mo noi essere inverso coloro, i quali già a noi hanno fatto prò ? Imperocché concio- siacosaccbè due sieno le ragioni della libe- ralità , luna del dare il beneficio, l'altra del renderlo ; se noi diamo o no, è in no- stra potestà ; ma il non renderlo , non é lecito al buon uomo , se pure eh* egli lo possa fare senza ingiuria.

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CAPO. XX.

Quale scelta si debba avere ne' ricevuti beneficii.

£ de’ beneficii ricevuti debbe essere fatta 6celta : e non è dubbio che a ciascuno gran- dissimo , noi grandissimamente non siamo tenuti. Nella qual cosa nientedimeno, pri- mamente debbe essere pensato con che ani- mo, studio, o con che benevolenza alcuno avrà fatto quel beneficio inverso noi. Im- perocché molti fanno molte cose senza con- siderazione , o senza misura , inverso ognu- no , o commossi da un subito impeto d’ani- mo, e quasi dal vento. I quali beneficii non


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debbono essere stimati egualmente grandi , come quegli i quali sono fatti costantemen- te , e con considerazione. Ma nell’allogare i benefici! , e nel rendere la grazia , se tutte le altre cose saranno pari , questo massima- mente s 1 appartiene all’ ufficio , che , come alcuno avrà specialmente bisogno di aiuto, così a lui spezialmente noi aiutiamo. La qual cosa pel contrario è fatta da molti : impe- rocché da chi eglino molto sperano , ancora se colui non ha bisogno di loro, nientedi- meno a lui molto essi servono.

CAPO xxt.

Del principio e legami dell' umana compagnia.

Ma ottimamente sarà conservata la con- giunzione e compagnia umana , se come al- enilo sarà congiuntissimo , così in lui mol- tissima benignità sarà conferita. Ma che principii della natura sieno della comuni- tà e compagnia umana, mi pare che deb- ba essere ripetito più da alto. Imperocché il primo è quello il quale è ragguardalo nel-


la compagnia di tutta la generazione uma- na ; e il legame di questo è la ragione e il parlare: la qual cosa insegnando, impa- rando , comunicando , disputando , giudi- cando, concilia gli uomini tra loro, e con- giugneli con una naturale compagnia. Nè per alcuna cosa noi più da lungi ci disco- stiamo dalla natura delle fiere , nelle quali noi diciamo spesso eh’ è la fortezza; come ne’ cavalli e ne'lioni : ma la giustizia , l’e- quità, la bontà noi non diciamo essere in loro ; imperocché esse sono senza la ragione e il parlare.

E larghissimamente agli uomini tra gli uomini j e a tutti tra tutti si manifesta que- sta compagnia: nella quale debbe essere os- servata la comunità di tutte quelle cose , le quali la natura ha generate al comune uso degli uomini: come quelle cose, le quali sono state' ordinate per le leggi e per ra- gione civile, così sieno tenute e osservate, com’è stato ordinato. Per le quali cose le altre cose sieno osservate, com’è nel pro- verbio de’ greci , le cose degli amici sieno tutte comuni : imperocché tutte quelle cose paiono essere comuni, le quali sono di quel-


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la ragione , la quale da Ennio posta in una cosa , può essere transferita in molte parti: l'uomo il quale mostra al compagno errante la via , quasi accenda il lume del lume suo, fa che niente meno a lui riluca , benché a colui egli l'abbia acceso. Imperocché , per una cosa , assai egli comandò , che ciò che senza danno può essere accomodato , quello sia attribuito ancora a uno , il quale noi non conosciamo. Donde sono quelle cose comuni : non vietare l’acqua corrente ; pa- tire ch’ei si pigli il fuoco dal fuoco ; dare il consiglio fedele , se alcuno deliberante farà di qualcosa a te la dimanda : le quali cose sono utili a coloro i quali le ricevono, e non moleste a chi le dà. Per la qualcosa queste cose debbono essere usate da noi , e sempre debbe essere arrecata qualche cosa all’utilità comune. Ma perchè le abbondanze degli uomini in particolarità sono piccole, e la moltitudine è infinita di coloro i quali ne abbisognano , la liberalità volgare debbe essere riferita a quel fine di Ennio , che nientedimeno a se riluca : acciocché e' sia facoltà, per la quale noi siamo liberali in- verso i nostri.


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CAPO XXII.


Della diversità de'gradi della generazione umana.

Ma i gradi della compagnia umana sono più. Imperocché, acciocché noi ci partiamo da quella infinita, più pressa compagnia è quella della medesima gente, e uazione , e lingua , per la quale massimamente gli uomini si congiungono. Più a dentro è a essere della medesima città: imperocché molte cose sono a' cittadini tra loro co- muni , come il foro , le chiese , i portici , le vie, le leggi, le ragioni, i giudici)*, il ragunarsi a consigliare; le usanze, oltre a questo, e le familiarità , e molte cose e ra- gioni contratte con molti. Ma più stretta collegazione della compagnia è de 1 propin- qui : imperocché da quella smisurata com- pagnia della generazione umana , si conchiu- de in una piccola e stretta.

Imperocché conciosiacosacchè questo sia comune della natura degli animali , che essi abbiano la libidine del procreare , la prima compagnia è in esso matrimonio; la


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prossima è ne’figliuoli ; dipoi si fa una casa, e tutte le cose comuni : e questo è il prin- cipio della città, e quasi il semenzaio del- la repubblica. Seguitano i congiugnimenti de’ fratelli : dipoi de’ figliuoli de’ fratelli e delle sorelle •, i quali quando non possono capere in una casa, escono in altre case, come in colonie. Seguitano di quinci i ma- ritamenli e parentadi , de’ quali vengono più propinqui ; il quale distendimento e schiatta è origine delle repubbliche.

Ma la congiunzione del sangue lega gli uomini cou benevolenza e carità. Imperoc- ché egli è grande cosa avere le medesime cose fatte per commemorazione degli an- tichi , usare i medesimi sacrificii , avere i sepolcri comuni. Ma di tutte le compa- gnie nessuna è più eccellente , nessuna è più ferma , che quando gli uomini buoni, simili di costumi , sono congiunti con fami- liarità. Imperocché quell’ onesto , il quale spesso noi diciamo, noi muove, benché in altri noi lo ragguardiamo ; e noi fa amici a colui, nel quale pare che sia quell’ one- sto. E benché ogni virtù noi alletti , e fac- cia che noi amiamo coloro ne’ quali essa


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mostri essere ; nientedimeno la giustizia e la liberalità fa quello massimamente.

Ma niente è più amabile nè più accop- piato che la similitudine de’buoni costumi: imperocché in chi sono i medesimi studi , e le medesime volontà , in costoro si fa che l'uno egualmente si diletti dell'altro, come di sè medesimo. E fessi quello che vuole Pitagora nell'amicizia , che uno si faccia di più. Grande è ancora quella comunità la quale è fatta pe'beneGcii di qui e di lì dati e ricevuti ; i quali mentre che sono scam- bievoli e grati , coloro tra chi eglino sono, sono legati con ferma compagnia.

Ma quando tu avrai attornialo tutte le cose con l'animo e con la ragione , nessuna di tutte le società è più grata , nessuna più cara , che quella la quale è colla repubblica e ciascuno di noi. Cari sono i padri e le madri , cari i figliuoli , cari i propinqui , e familiari ; ma sola la patria ha abbrac- ciato tutte le carità di tutte le cose : per la quale ciascuno uomo non dubita mori- re , se a quella egli dovrà fare prò. Per la qual cosa più è da essere maledetta la crudeltà di costoro , i quali con ogni scel-


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leralezza hanno lacerato la patria; e in gua- stare quella insino al fondo , sono e furono occupati. CAPO XXIII.

Che secondo la diversità de gradi si debbano distribuire gli uffici.

Ma se si facesse contesa o comparazione a chi più debba essere dato d’ufficio-, i prin- cipali sieno la patria, i padri, e le madri; a’beneficii de’quali grandissimi, noi siamo obbligati: i prossimi sieno i tìgliuoli, e tut- ta la famiglia , la quale ragguarda in noi soli, e non può avere altro rifugio: dipoi i propinqui bene d’ accordo con noi , coi quali spesso la fortuna ancora è comune. Per la qual cosa i necessari aiuti della vita deb- bono essere dati massimamente a coloro, i quali io lio nominati. La vita comune, e il vivere, ei consigli, sermoni, conforti, con- solazioni , alcune volte ancora le riprensio- ni , grandissimamente hanno forza nelle ami- cizie. E quella è giocondissima amicizia , la quale similitudine di costumi ha congiunto.

Ma nell’ attribuire tutti questi uffici si


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dovrà vedere quello che a ciascuno spezial- mente sia di bisogno ; e quello che ciascu- no , ancora senza noi , o possa o non possa conseguitare. Cosi i gradi delle congiunzioni non saranno i medesimi di quegli de’tem- pi : e sono uffici i quali sono dovuti più a uno che a un altro ; come, aiuterai più to- sto il vicino, che il fratello o il familiare, nel raccorre i frutti. Ma se sarà lite nel giu- dicio, difenderai più tosto il propinquo e 1 ’ amico , che il vicino. Queste e tali cose adunque debbono essere conosciute in ogni ufficio -, e debb’essere presa l’usanza e l’eser- citazione , acciocché noi possiamo rendere bene ragione degli uffici 5 e aggiugnendo e rimovendo , vedere , che somma si faccia di quello che resta , per la quale tu inten- derai quanto a ciascuno tu sia tenuto.

  • Ma come i medici, e gl’ imperadori , e

gli oratori , benché eglino abbino impreso i precetti dell’arte , non possono consegui- tare alcuna cosa degna di grande laude , senza uso ed esercitazione ; così sono dati i precetti del conservare 1’ ufficio 5 cioè , che noi medesimi facciamo quegli. E come l'onesto del quale è fatto l'ufficio sia menato


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fla quelle cose , le quali sono nella ragione della compagnia umana, assai quasi ne ab- biamo detto.

capo xxiv.

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Bel terzo fonte dell' onesto , cioè della fortezza.

Ma conciosiacosaccbè noi abbiamo propo- sto , che quattro generazioni di cose sono, delle quali venga l'onestà e l’ ufficio j noi dobbiamo intendere che quella generazione pare splendidissima, la quale si fa coll'ani- mo grande e alto, e spregiante le cose uma- ne. Adunque nelle vituperazioni assai è ma- nifesto , se alcuna tal cosa così può essere detta : voi , o giovani , avete animo di fem- mina , e quella vergine di maschio. E se al- cuna cosa ancora tale si può dire : dà le spoglie a'Salmaci , senza sudore e sangue. E per l’avverso nella lode si pongono quelle cose , le quali sono fatte con l'animo gran* de e forte, ed eccellentemente: e quelle cose non so in che modo noi le lodiamo colla piena bocca. Di quinci è il campo de' ret- toria de’ fatti di Maratona , di Salamina ,

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di Platea, di Termopili * diLeutri; di quinci è lodato il nostro Coelite 5 di quinci sono lodati i Decii, gli Scipioni , Marcello, e al- tri infiniti. Massimamente il popolo romano eccelle per la grandezza dell’ animo : ma e si dimostra lo studio della gloria delle batta- glie , che noi veggiamo anche le statue con l’ornato quasi militare.

Ma quell’altezza di animo la quale è rag- guardata ne 1 pericoli e nelle fatiche , se essa manca di giustizia, e combatte non per la salute comune, ma pe’suoi commodi, è po- sta nel vizio. Imperocché questo non sola- mente non s’appartiene a virtù , ma piut- tosto si appartiene alla disumana crudeltà, scacciante da sé ogni umanità. Adunque ot- timamente si definisce dagli stoici la gran- dezza dell’ animo : conciosiacchè essi dica- no , ch’essa è virtù combattente per l’equi- tà. Per la qual cosa nessuno ha acquistato loda con malizia e con inganni, il quale ha conseguito la gloria della fortezza : niente può essere onesto, il quale manca di giu- stizia.

Egregio è adunque quel detto di Plato- ne ; non solamente, esso dice, quella scien-


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za la quale manca di giustizia , è da essere chiamata più tosto callidità che sapienza ; ma ancora 1' animo apparecchialo al peri- colo, se egli è commosso per sue cupidità, e non per la utilità comune, abbia piutto- sto il nome dell'audacia che della fortezza. Adunque noi vogliamo che gli uomini forti e magnanimi sieno buoni , e amici della sem- plice virtù , e non fallaci. Le quali cose sono del mezzo della lode della giustizia.

Ma quello è odioso, che in questa altezza e grandezza di animo agevolissimamente na- sce la pertinacia , e troppa cupidigia di si- gnoreggiare. Imperocché , com’è appresso a Platoue : ogni costume de' Lacedemoni è infiammato dalla cupidità del vincere j come ciascuno spezialmente eccelle per la gran- dezza dell' animo , cosi spezialmente esso vuol essere il signore di tutti, e ancora più tosto solo. Ma egli è malagevole , quando tu desidererai avanzare lutti gli altri , a conser- vare l'equità , la quale è spezialmente pro- pria della giustizia. Per la qual cosa si fa che gli uomini non patiscano essere vinti, nè per dispute, uè per alcuna pubblica e legittima ragione. E nella repubblica molte


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volte sono i donatori , e i faccienti sette, acciocché essi acquistino ricchezze , e sieno più tosto per forza di sopra agli altri , che per giustizia pari. Ma quello eh’ è più ma- lagevole, quello è più egregio: imperocché nessuno tempo è, il quale debba mancare di giustizia.

Adunque forti e magnanimi si chiame- ranno coloro, i quali non fanno, ma scac- ciano la ingiuria. Ma la vera e savia gran- dezza d’animo giudica , che quella onestà la quale massimamente la natura segue , sia posta ne’ fatti , e non nella gloria ; e più tosto essa vuol essere principe che parere. Imperocché chi è nell’ errore dell’ iudotta moltitudine , costui non è da essere messo tra gli uomini grandi. Ma agevolissimamente colui è commosso a fare ingiustizia , il qua- le ha l'animo altissimo e desideroso di glo- ria. Il quale luogo per certo fa gli uomini trascorrere. Imperocché malagevolmente si trova chi , quando esso avrà ricevuto le fa- tiche , e aggiuntovi i pericoli , non desi- deri la gloria , quasi premio de’fatti suoi.


In che cosa consiste la fortezza.


Al tutto il forte e grande animo per due cose spezialmente si conosce : delle quali l’uua si pone nello spregiare le cose della fortuna. Conciosiacchè già si è dichiarato che l'uomo non debba o desiderare, o ma- ravigliarsi , o addimandare , se non quello che sia onesto e conveniente, e non debba sottoporsi nè ad alcun’uomo, nè alla per- turbazione deH’animo, nè alla fortuna. L’al- tra cosa è , che conciosiacosaccliè tu sia così disposto coll’animo , come di sopra io dis- si , tu faccia cose grandi , e quelle massi- mamente utili e molto malagevoli , e pie- ne di fatiche e di pericoli -, per cagione sì della vita, sì di tutte le altre cose, le quali si appartengono alla vita.

Di queste due cose ogni splendore è l’am- plitudine-, e a questa aggiungo ancora l’uti- lità , la quale è nel luogo dopo : ma la cagione e la ragione facciente gli uomini grandi, è nel primo luogo. Imperocché in quello è quella cosa la quale fa gli uomini



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eccellenti , e spregianti le cose umane. Ma questa medesima cosa è conosciuta in due cose; se tu giudichi solamente quello essere buono il quale è onesto ; e se tu sei libero da ogni perturbazione di animo. Imperocché quelle cose le quali a molti paiono esimie ed eccellenti , stimarle piccole , e quelle spregiare con ragione ferma e stabile , si debbe dire essere d'animo forte e grande: e quelle cose le quali paiono acerbe , le quali molte e varie sono rivolte nella vita e fortuna degli uomini , così sopportarle , che niente ci parta dallo stato della natura, niente dalla dignità ; diremo essere d’ani- mo savio , e robusto, e di grande costanza.

Imperocché e’ non è consentaneo che chi non è rotto dalla paura , esso sia rotto dal- la cupidità ; nè chi non è vinto dalla fati- ca , esso sia vinto da’ piaceri. Per la qual cosa queste sopradette cose sono da essere conosciute ; e debbesi ancora fuggire la cu- pidità della pecunia : imperocché niente è che più s'appartenga all'animo vile e pic- colo , che amare le ricchezze ; e niente è più magnanimo e più onesto che spregiare la pecunia se tu non l’hai, e se tu l’hai,

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usarla a magnificenza e liberalità. Àncora , come di sopra io dissi , noi schiferemo la cupidigia della gloria; imperocché essa leva la libertà all'animo : per la quale agli uo- mini magnanimi dehhe essere ogni sforzo.

CAPÒ XXVI.

Che gV imperii non si debbono desiderare ; ma alcuna volta sono da essere deposti : e da chi la tepublica si debba governare .

Ma non gli imperii sono da essere desi- derati , ma piuttosto alcuna volta noi non li piglieremo , e alcuna volta gli porremo giù. Ma si debbe mancare d' ogni pertur- bazione d'animo, sì di cupidigia e di pau- ra, sì ancora di dolore e piacere d'animo , e d’ ira ; acciocché la tranquillità e sicurtà dell'animo sia con noi presente ; la quale arrechi sì la costanza, sì la dignità. Ma mol- ti sono e furono, i quali desideranti quella tranquillità che io dico, sé hanno rimosso dalle pubbliche faccende, e fuggirono all'o- zio. Tra costoro sono nobilissimi filosofi e mollo principali ; e ancora alcuni uomini se-



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veri e gravi : e questo costoro feciono, per- chè non poterono sopportare i costumi dei popoli e de'priucipi. E alcuni si sono vi- vuti ne’ loro poderi , dilettatisi solamente delle loro cose familiari ; e a costoro è sta- to il medesimo proposito che a’ re ; cioè eh' essi non abbisognassino d’ alcuna cosa, e non ubbidissino ad alcuna, e usassino la libertà , della quale la proprietà è vivere come tu vuoi.

Per la qual cosa conciosiacosaccbè que- sto sia a comune tra’ desiderosi della po- tenza , e tra coloro i quali io chiamai ozio- si ; imperocché quegli cupidi della potenza pensano potere soddisfare al desiderio loro, se essi acquistano grandi ricchezze 5 e que- gli altri , se essi stanno contenti della roba loro, benché poca sia. Nientedimeno il pro- posito dell'una parte e l'altra , in questa non sarà al tutto spregiato : ma la vita degli oziosi è più facile e più secura , e meno no- iosa e molesta agli altri : ma di più frutto è alla generazione umana , e più alta all'ac- quistare stima e farsi grande , la vita di coloro , i quali sé hanno accomodato alla repubblica , e al fare cose grandi. Per la




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qual cosa e forse si debbe concedere a co- loro , i quali non si danno alla repubbli- ca , i quali essenti di grande ingegno , sè hanno dato alla dottrina : e a coloro i quali o per debolezza della loro sanità , o per al- cun'altra più grave cagione impediti, si sono partiti dal governo della repubblica , quando essi hanno conceduto agli altri la potestà del- l’ amministrare la repubblica, e ancora la loda. Ma chi non hanno tali cagioni, se essi dicono che spregiano quelle cose di che molti si maravigliano, cioè le signorie e i magistra- ti ; costoro non solamente non mi paiono da essere lodati , ma piuttosto vituperati e ri- presi. Il giudizio de' quali , in quello cb'essi spregiano la gloria , e stimanla da niente , è difficile a non lodare : ma e' mostrano temere le fatiche e le noie , sì delle offese e sì ancora degli scacciamenti, quasi vergogna ed infamia. Imperocché e' sono alcuni, i quali nelle cose contrarie hanno poca costanza : essi severis- vimamente spregiano la voluttà , e nel dolore trascorrono ; spregiano la gloria , e pigliano passione dell'infamia : e queste cose fanno non assai costantemente.

Ma da coloro i quali dalla natura sono aiu-



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tati al fare le cose, saranno presi i magistrati senza indugio alcuno , e sarà amministrata la repubblica. Imperocché altrimenti non si può reggere la repubblica , e non si può di- mostrare la grandezza dell’animo. Ma i pi- glianti il governo della repubblica , non me- no che i filosofi , io non so se più ancora deb- bano usare la magnificenza , e il dispregio delle cose umane , il quale più volte io ho detto, e la tranquillità, e la sicurtà: impe- rocché essi non debbono essere ili angosce , ma più tosto debbono vivere con gravità e costanza.

Le quali cose sono più facili a’filosofi ; per- ché meno cose si manifestano nella vita loro , le quali la fortuna percuota ; e perchè di me- no cose abbisognano ; e perchè se alcuna av- versità addiviene , non tanto gravemente possono cascare. Per la qual cosa non senza cagione maggiori commovimenti sono desti, e fare maggiori cose, ne’governanti la repub- blica , che negli uomini quieti. Per la qual cosa più debb’ essere appresso di costoro la grandezza dell'animo, c la mancanza delle passioni.


CAPO XXIX.



Che in ogni cosa che s' ha a fare , si debba fare diligente preparazione : c che le cose urbane si preponghino alle cose di guerra.

Ma chi piglia a fare la cosa , guardi che non solamente consideri quanto quella cosa sia onesta ; ma ancora eh' esso abbia facultà di poterla fare. Nella qual medesima cosa si debbe considerare, eh’ essa , o non senza ra- gione si disperi per pigrizia , o non troppo si confidi per cupidità. Ma in tutte le faccen- de , prima che tu le cominci , si debbe usare una diligente preparazione.

Ma perchè molti stimano, che i fatti delle armi sieno maggiori che quelli della città , io voglio amminuire questa opinione. Ini* perocché molti spesse volte hanno cerco le guerre per cupidità di gloria j e questo molte volte addiviene negli animi e ingegni grandi: e tanto più se essi erano atti al fatto delle ar- mi , e desiderosi del fare battaglie. Ma se noi vogliamo giudicare con verità , molte cose della città sono state maggiori, e più di fama, che quelle della guerra.



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Imperocché , benché Temistocle ragione- volmente sia lodato , e sia il nome suo in piu gloria che quello di Solone ; e a questo sia chiamata la città di Salamina, testimone della nobilissima vittoria , la quale sia preposta al consiglio di Solone , e a quello consiglio col quale da prima esso ordinò gli Arcopagiti ; non è da essere giudicato meno egregio que* sto fatto che quello. Imperocché quello una volta fece prò , ma questo farà prò sempre : con questo consiglio si conservarono le leggi degli Ateniesi , con questo si conservano gli ordini degli antichi. E Temistocle niente a- vrà detto, con che esso abbia aiutalo all’areo- pago , ma colui dirà con verità eh’ esso aiutò Temistocle : imperocché la battaglia si fece col consiglio di quel senato , il quale era stato ordinato da Solone.

Le medesime cose è lecito dire di Pausa- nia e di Lisandro: pe’ fatti de’ quali , benché la signoria de’ Lacedemoni fosse ampliata , nientedimeno non sono da essere agguagliati, da una minima parte , alle leggi e alla disci- plina di Licurgo : che ancora per queste me- desime cose , essi ebbono gli eserciti più ub- bidienti e più forti. Quando noi eravamo


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fanciulli , e’ non pareva che Marco Scauro ce- desse a Caio Mauro: nè quando noi ci rivol- tavamo nella repubblica , Quinto Calulo ce- deva a Gneo Pompeo. Imperocché piccola cosa sono le armi di fuori , se il consiglio non è in casa. Nè più Albicano , singolare uomo e imperatore, fece prò alla repubblica per in- guastare Numanzia , che in quello medesimo tempo Pubblio Nasica privato , quando esso uccise Tiberio Gracco : benché questo fatto non solamente è della ragione di casa , ma an- cora è tocca la ragione di fuori , cioè delle armi ; perchè con forza e mano fu fatto : pur quello medesimo fu fatto con consiglio della città , senza esercito.

Ma quel fatto è ottimo , nel quale io odo essere assalito da tristi ed invidiosi : le armi cedano alla toga , e il trionfo ceda alla lin- gua. Imperocché , acciocché io lasci gli altri, quando noi governavamo la repubblica , or noncedetteno le armi alla toga? Imperocché nella repubblica non fu mai più grave peri- colo , nè maggiore odio. Così per la diligenza c pe’ consigli nostri , prestamente dalle mani degli audacissimi cittadini sono cascate le ar- mi. Adunque che fatto di battaglia fu mai di



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tanto pregio ? clic trionfo fu mai da essere agguagliato ?

O mio figliuolo , a me è lecito gloriarmi appresso a te , al quale s’ appartiene l’ere- dità di questa gloria , e la imitazione de’fatti miei. Gneo Pompeo , uomo per certo abbon- dante di lode di guerre, molti udentilo, a me questo attribuì : che egli disse , che invano esso doveva essere per avere il terzo trionfo, se pel mio beneficio inverso la repubblica , egli non dovesse avere dov’esso trionfasse. Adunque le fortezze di casa non sono più basse che quelle di fuora , cioè delle armi. Nelle quali domestiche fortezze più ancora d’opera e di studio si debbe porre, che in quelle altre.

Al tutto quella onestà , la quale noi cer- chiamo delPaiiimo alto e magnifico, si fa col- le forze dell'animo e non del corpo. Ma il corpo si debbe esercitare ed affaticarlo , che esso possa ubbidire al consiglio e alla ragio- ne nel fare le faccende, e nel sopportare la fatica. Nella qual cosa non minore utilità ar- recano coloro , i quali togati sono sopra alla repubblica, che coloro i quali fanno le guer- re. E così pel consiglio di coloro , spesse volte

le guerre o esse non sono prese , o esse sono fatte, o esse alcune volte sono mosse. Come la terza guerra affricana , fu fatta pel consi- glio di Marco Catone ; nella quale ancora po- tè 1’ autorità di Catone morto.

Per la qual cosa più si debbe addoman- dare la ragione del deliberare , che la for- tezza del combattere. Ma e’ sarà da guardar- si , che quello noi non facciamo , più tosto per fuggire il combattere, che per ragione dell'utilità. Ma la guerra così si pigli, che niente altro paia essere cerco , se non è la pace.

capo xxx.

Quello che sia proprio del forte e prudente uomo .

Ma al forte e costante animo si appartiene non essere perturbato per cose aspre, e come si dice , lui essente nelle noie , non essere ri- mosso dal grado suo : ma usare l’animo favo- reggianle e il consiglio, e non si partire dalla ragione: benché questo si appartenga all’a- nimo , e quello all’ingegno grande, con pen- siero prevedere le cose future , e alcuna volta


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innanzi ordinare quello, che possa addive- nire nell’ una e l' altra parte , e quello che sia da fare quaudo alcuna cosa sarà addivenuta, e non commettere in modo, che alcuna volta tu abbia a dire: io non me n'era avveduto. Queste sono opere dell’ animo grande e alto, e confidantesi nella prudenza e nel consiglio. Ma senza ragione rivoltarsi nelle schiere , e combattere col nimico , è cosa disumana , e simile alle bestie. Ma quando il tempo e la necessità lo domanda , si debbe combattere, e anti porre la morte alla servitù e bruttezza.

CAPO XXXI.

Che si debba osservare nel disfacimento delle città.

Ma nel disfare o mettere a sacco le città , si conviene avere molta considerazione, che niente crudelmente o senza ragione noi fac- ciamo. E questo s’ appartiene all’ uomo di grande animo', poi che il fatto sia spacciato, punire chi ha errato , conservare la moltitu- dine , e in ogni fortuna ritenere le cose rette ed oneste. Imperocché come sono ( siccome



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di sopra dissi ) alcuni , i quali prepongono i fatti della guerra a quegli della città ; così tu troverai molti , a’ quali i consigli pericolosi e callidi, paiono maggiori e più splendidi dei consigli quieti e di pensiero. Non mai al tutto per fuggire il pericolo noi commetteremo, che noi paiamo timidi e disadatti a battaglia. Ma ancora si debbe fuggire questo , che noi non offeriamo noi a 1 pericoli senza cagione ; della qual cosa niente può essere più stolto.

Per la qual cosa quando noi avremo a pi- gliare pericolo alcuno , faremo come usano fare i medici ; i quali leggermente curano chi leggermente è infermo , e alle più gravi in- fermità, sono costretti dare medicine perico- lose e di dubbio. Per la qual cosa in tranquil- lità desiderare tempesta contraria , si appar- tiene allo stolto; ma sovvenire alla tempesta con ogni modo che si può, s'appartiene al savio: e per questo più , se sviluppalo il fat- to , tu acquisterai più di bene, che quando egli era dubbioso di male.

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CAPO XXXII.


A quali pericoli dobbiamo estere più pronti , e per quali cose dobbiamo massimamente combattere.

Ma le operazioni delle cose sono perico- lose, parte a coloro i quali pigliano quelle, e parte alla repubblica. E ancora alcuni sono chiamali ne’pericoli de'fatli della vita, alcuni de’fatti della gloria , e benevolenza de’cittadi- ni. Adunque noi dobbiamo essere più pronti ne' pericoli nostri , ebe ne' comuni ; e dob- biamo combattere più prontamente de’fatti dell' onore e della gloria , che di tutte l'altre commodi tà.

Ma molti sono stati trovati , i quali erano apparecchiati a spargere per la patria non solamente la pecunia, ma ancora la vita j e questi non volevano offendere menomamente la loro gloria , ancora che la repubblica lo addomandasse. Come Callicratida , il quale quando era capitano de' Lacedemoni nella guerra del Peloponneso, concìosiacosacchè esso avesse fatto molte cose egregie, nell’ul- timo guastò quello che insino allora aveva


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fatto , quando esso non ubbidì al consiglio di coloro, i quali dicevano, che il navilio si doveva rimuovere da Argiuuso, e non com- battere cogli Ateniesi. A’ quali colui rispose: i Lacedemoni , perduto questo navilio , pos- sono rifarne un altro , ma io non posso fug- gire senza mio disonore. Ma questa fu mez- zana piaga de'Lacedemoni : ma quella fu pe- stifera, perla quale assai cascarono le abbon- danze de'Lacedemoni’, quando Cleombroto, temente la invidia , senza ragione alcuna combattè con Epaminonda. Ma quanto me- glio fece Quinto Massimo*, del quale Ennio disse : costui è uno , il quale dimorando , a noi ha restituito la repubblica. Imperocché esso non preponeva la fama alla salute, adunque la gloria di quell' uomo ora più risplende . Il quale modo di peccare ancora si debbe schi- fare ne' fatti della città. Imperocché e' sono alcuni , i quali non ardiscono dire , per pau- ra della invidia , quello che a loro pare $ e se ancora la sentenza loro sia ottima.


CAPO XXXIII.


Comandamenti di Platone a chi governa la repubblica.

Coloro i quali vogliono fare prò alla re- pubblica, al tutto osservino due precetti di Platone: l’uno è eh’ essi cosi difendano l’u- tilità de’ cittadini , che ciò eh’ essi fanno rife- riscano a lei , dimenticali ancora de’commo- di loro. L’ altro è ch’essi usino tutto il corpo della repubblica, e che l’una parte essi non difendino, e l’altra abbandonino. Imperoc- ché il governo della repubblica , come la tu- tela , si debbe fare all’utilità di coloro i quali sono commessi , e non di coloro a chi ella è commessa. Ma chi aiuta 1* una parte de* cit- tadini, e l'altra non apprezza, mette nella città cosa dannosa , cioè sedizione e discor- dia. Per la qual cosa addiviene, che alcuni paiano amici , alcuni studiosi di ciascuno ot- timo cittadino, e pochi amino la università.

Di quinci seguitarono appresso gli Ateniesi grandi discordie : e nella repubblica nostra vennono non solo discordie , ma ancora guer- re civili di mollo danno : le quali il grave e



forte cittadino e degno del principato le fug- gc , e odieralle , e sé tutto darà alla repub- blica 5 e non cercherà ricchezze o potenza 5 e tutta la repubblica difenderà in tal modo, clf esso gioverà a ognuno. E esso con falsi peccati non chiamerà alcuno in odio o in in- vidia ; e in ogni modo così alla giustizia e al- l’ onestà ei s’accosterà, che quelle virtù esso conservi, benché gravemente egli offenda; e la morte appetisca piuttosto, eh’ esso abban- doni quelle cose ebe io ho detto.

CAPO ZXX1V.

Che misera cosa è con ambizione cercare gli onori , e di quelli contendere.

Miserissima è al tutto l'ambizione e la con- tenzione degli onori : della quale egregia- mente è così appresso a Platone : similmente Janno coloro , i quali contendono chi di loro più tosto amministri la repubblica ; come se i marinai tra loro combattessino , chi di lo- ro spezialmente governasse. Il medesimo Platone ancora comandò , che noi stimassi- mo avversari coloro , i quali arrecassiuo l’ar-


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me incontro , e non coloro i quali col loro giudizio vogliono difendere la repubblica. Quale dissensione fu senza crudeltà tra Pu- blio Affricano , e Quinto Metello.

CAPO XXXV.

Che a governatori della repubblica si con- viene essere clementi e severi.

Ma coloro da noi non saranno uditi , i quali stimano doversi gravemente adirarsi contro a' nemici ; e quello stimano apparte- nersi all 1 animo grande e forte. Imperocché niente è più laudabile , niente più degno del- l'uomo eccellente e grande, che è l' umiltà eia clemenza. Ma ne’popoli liberi, e nel dare la ragione , egualmente si debbe esercitare la facilità e l’altezza dell'animo ; affinchè, se noi ci adiriamo con coloro che non sono ve- nuti al tempo , o che imprudentemente do- mandano , noi non caschiamo in una stizza disutile e odiosa : e così nientedimeno noi ap- proveremo la mansuetudine e la clemenza, che e’ vi sia aggiunta, per cagione della re- pubblica , la severità ; senza la quale non può essere amministrata la città.


CAPO XXXVI.


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Che chi castiga non debba essere contumelia - so , nè la pena non debba avanzare la colpa.

Ma ogni punizione e gastigamento debbe mancare di villana superbia : e quella gasti- gazione si debbe riferire non all’utilità di colui ebe gasliga , ma a quella della repub- blica. Ancora si debbe guardare eh’ e’ non sia maggiore la pena che la colpa j e che per le medesime cagioni l'uno sia punito, e l’altro non sia pur chiamato.

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CAPO XXXVII.

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Che chi punisce non debbasi irare.

Ma nel punire si debbe schifare l’ira. Im- perocché Tirato il quale viene al punire , non terrà mai quello mezzo, il quale è tra ’l poco e il troppo : il quale piace a’ peripatetici 5 e meritamente : purché essi non lodino l’ira , e dicano che dalla natura ella è stata data u- tilmente. Ma quella è da essere rifiutata in tutte le cose : e debbesi desiderare , che co-


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loro i quali sono sopra alla repubblica , sieno simili alle leggi ; le quali vanno al punire , non con ira , ma con equità.

CAPO xxvvui.

Che tre cose si debban /uggire nelle cose prospere.

E ancora nelle cose prospere e trascor- renti al nostro piacere , noi diligentemente dobbiamo fuggire la superbia , e il fastidio, e l’arroganza. Imperocché sopportare senza modo le cose prospere come le avverse , s’ap- partiene alla leggerezza : ed eccellente cosa è essere eguale in ogni vita, e avere il me- desimo volto e la fronte medesima : come noi abbiamo inteso di Socrate, e il medesimo di Caio Lelio. Ma io veggo che Filippo re de’ Macedoni, vinto dal figliuolo Alessandro per la gloria e per gli egregi fatti , fu nien- tedimeno di sopra a colui , per la sua uma- nità e mansuetudine. E così l’ uno fu sempre grande; e l’ altro spesso fu bruttissimo. Che rettamente pare che ci ammoniscano coloro, i quali ci confortano, che quanto noi siamo


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più di sopra agli altri , tanto più bassamente noi ci portiamo. Panezio dice, che Scipione Aflricano suo uditore e familiare, soleva di- re, eh' e' sogliono dare a' domatori i cavagli, i quali per le spesse battaglie feroci insuper- biscono ; acciocché poi essi possi no usare que- gli più agevoli. Cosi gli uomini , sfrenati per le prospere cose, eiusupei-bienti, si conviene essere menati nel giro della ragione e delle dottrine ; acciocché essi ragguardassino, la de- bolezza delle cose umane , e la varietà della fortuna.

CAPO xxxix.

Che nelle cose prospere massimamente si debba usare i consigli degli amici , e fuggire gli adulatori.

E ancora nelle nostre prosperità noi spe- zialmente useremo il consiglio degli amici, e a costoro noi attribuiremo maggiore auto- rità che innanzi. E in questi medesimi tempi si debbe guardare, che noi non apriamo gli orecchi agli adulatori , acciocché noi non concediamo che a noi lusinghino. Nella qual cosa è agevole a essere ingannati : iotpcroc-

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che noi stimeremo noi tali , che ragionevol- mente noi siamo lodati : dalla qual cosa na- scono innumerabili peccati , quando gli uo- mini, enfiati d’opinione, bruttamente sono dileggiati , e sono rivolti in grandissimi er- rori. Ma queste cose basti avere detto insino a qui.

CAPO XL.

Di quello che bisogna osservare nella vita pubblica e nella privata.

Ma quello così si debbe giudicare , che le cose grandi e di grande animo, si fanno da co- loro che reggono la repubblica : imperocché 1’ amministrazione loro largamente si mani- festa , e appartieni a molti. Ma noi abbiamo inteso, che sono e già furono molti, di grande ingegno ancora nella vita oziosa : i quali o e'si danno all'investigazione, e tentano cose grandi , e stanno contenti de' loro confini ; o posti tra' filosofi , e tra coloro che ammini- strano la repubblica, si dilettano delle loro cose familiari ; quelle non accrescenti senza ragione, e non rimoventi dall’uso di quelle la famiglia loro ; anzi più tosto (accentine


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parte agli amici e alla repubblica , se mai viene il bisogno. Le quali cose familiari pri- ma si debbono acquistare bene , con nessuno disonesto o odioso guadagno : e queste dieno utilità a molti uomini , purché ne sieno de- gni: oltre questo esse cose familiari debbono essere accresciute con diligenza , e ragione, e masserizia. E non debbono più tosto ub- bidire alla libidine e alla lussuria , che alla liberalità e alla beneficenza. Chi osserva le cose prescritte, a costui è lecito vivere grave e animosamente ; e ancora con semplicità e fede, e amichevolmente alla vita umana.

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CAPO XLI.

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Della Temperanza.

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E seguita eh' ei si dica di quella parte del- l' onestà, la quale sola resta: nella quale si co- nosce essere la vergogna , e quasi un certo ornamento della vita , cioè la temperanza e la modestia, e ogni rammorbidamento delle passioni dell'animo, e ogni misura delle co- se. In questo luogo si contiene quello che è in latino il decoro , cioè la confacenza , il


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quale i greci chiamano prepon. Questa è quel- la forza che non può essere separata dall’o- nesto : imperocché ciò che si confà è onesto, e ciò eh’ è onesto si confà.

CAPO XLII.

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Del Decoro.

Ma quale sia la differenza tra l'onesto e il decoro , cioè la confacenza , può essere più agevolmente inteso che dichiarato. Imperoc- ché ciò ch’è quello che si confà, allora appa- risce , quando innanzi è ita l’onestà. Adun- que non solamente in questa parte d’onestà, della quale noi dobbiamo disputare in que- sto luogo , ma ancora nelle tre altre , dette sopra , apparisce quello che si confaccia. Im- perocché usare la ragione, e il parlare pru- dentemente , e quello che tu fai , farlo con- sideratamente , e vedere quello che sia il ve- ro in ogni fatto, edifenderlo, si confà. E pel contrario , essere ingannato , errare , trascor- rere , tanto si confà , quanto impazzare, ed essere privato della mente. E tutti i fatti giu- sti si confanno; e gl’ingiusti pel contrario,


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eomVsono brutti , così sono sconvenienti.

Simile è la ragione della fortezza : imperoc- ché quello che si fa coll’animo virile e ma- gno , quello pare degno dell’ uomo , e pare decoro : e quello eh’ è pel contrario , com’e- gli è brutto , così è sconfacente. Per la qual cosa questo che io chiamo decoro, s’appar- tiene a ogni onestà : e così s'appartiene, che esso sia ragguardato non come una nascosta ragione, ma sia manifesto. Imperocché egli è una certa cosa la quale si confà ( e questa è intesa in ogni virtù ) la quale più col pensiero che col fatto può essere separata dalla virtù. Imperocché come la bellezza e l’essere di pu- lite carni , non può essere separalo dalla sa- nità ; così questo decoro, del quale noi par- liamo, è tutto quello eh’ è confuso colla virtù $ ma è diviso colla mente e col pensiero.

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- CAPO XLIU.

Doppia dijfinizione del decoro •

Ma la descrizione sua è doppia. Imperoc- ché noi intendiamo essere uno generale de- coro , il quale si rivolta in ogni onestà j e un


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altro suggetto a questo, il quale s’appartiene in ispezialità a ciascuna parte dell’onestà.

E quello di sopra così quasi suol essere dif- finito : quello è decoro il quale è consenziente all' eccellenza dell’uomo in quella cosa , nella quale la natura sua lo fa differente dagli altri animali. Ma quella parte eli’ è soggetta a que- sto genere, così suol essere diffinita: quello è il decoro , il quale così è consenziente alla natura , che in lui apparisce la moderazione e la temperanza , con una certa apparenza di liberalità.

E così noi possiamo stimare , queste cose essere intese da quel decoro , il quale i poeti seguitano *, del quale in altro luogo sogliono essere dette più cose. Ma noi diciamo che i poeti allora conservano quello che si confà, quando da loro si fa dire o fare quello che sia degno di ciascuna persona. ComeseEaco o Minos dicessino : abbiauci in odio , purché ci temano. Ovvero dicessino questo : esso po- di e è sepoltura a'Jigliuoli. Questo parrebbe sconveniente ; perchè noi abbiamo inteso che costoro furono upmini giusti. Ma se Atreo lo dicesse, si farebbe grande romore con molla festa : imperocché questo parlare è degno di


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quella persona. Ma i poeti giudicheranno , secondo la persona , quello che a ciascuno si confaccia. Ma a noi la natura ha posto la per- sona con grande eccellenza , e con un molto avanzare di tutti gli altri animali. Per la qual cosa i poeti , nella grande varietà delle perso- ne, ancora nei viziosi vedranno quello che si convenga , e quello che si confaccia : ma conciosiacchè dalla natura a noi sieno state date le parti della costanza r e della modera- zione, e della temperanza , e della vergogna j e conciosiacosacchè quella medesima natura c’ insegni , non spregiare come noi ci abbiamo a portare inverso gli altri uomini j si fa , che quello decoro il quale si appartiene a ogni o- nestà, apparisca quanto largamente e’sia spar- to 5 e questo ancora il quale si conosce in ispe- zialità in ciascuno genere di virtù. Imperocché come la bellezza del corpo , con l’atta compo- sizione delle membra , commuove gli occhi , e dilettagli in questo medesimo , che tutte le parti tra loro si consentono con uno certo or- namento ; così questo decoro che riluce nella vita, commuove la lode di coloro, co’ quali si vive con ordine , e costanza , e misura di tutti i detti e i fatti.


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Adunque si debbe aggiungere la riverenza inverso gli uomini , e spezialmente di ciascun ottimo , e di tutti gli altri. Imperocché spre- care il parere il quale ciascuno abbia di sé, non solamente s' appartiene all' uomo arro- gante , ma ancora a colui che niente apprez- zi. Ma egli è cosa la quale si differenzia tra la giustizia e la vergogna, e si debbe avere in ogni ragione. Le parti della giustizia sono, non fare violenza agli uomini ; e delia ver- gogna , non gli offendere. Nella qual cosa massimamente si fa la forza del decoro.

Dimostrate adunque queste cose , io penso che e' sia inteso quello, il quale noi diciama che si coufà. Ma l'ufficio il quale procede da quello decoro lia questa via, la quale mena alla convenienza e conservazione della natu- ra : la quale se noi seguiteremo per guida , non mai erreremo, e seguiteremo quello che per natura è acuto e prudente, e quello ch'è accomodato alla società degli uomini , e quel- lo ch’è potente e forte. Ma grande forza del decoro è in questa parte, della quale noi di- sputiamo : e debbonsi lodare non solo i mo- vimenti del corpo , i quali sono atti alla natu- ra -, ma ancora molto più quegli dell'animo i quali ancora sono alla natura accomodati.


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CAPO XLI V •


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fi.


Quello che facci l' appetito , e quello che facci la ragione.


Imperocché la forza degli animi e della natura è doppia. Una n’è posta nell’ appeti- to , la quale in greco è della orine -, la quale quà e là rapisce l’uomo; l’altra è nella ra- gione, la quale insegna e dimostra quello che si debba fare, e quello clic fuggire si con- venga. E così si fa che la ragione signoreggi, e l’appetito ubbidisca.

CAPO XLV.

Che non si debba fare alcuna cosa , di che non si possa rendere probabile ragione.

Ogni atto dee mancare di temerità e ne- gligenza : e non debbi alcuna cosa fare, della quale tu non possa rendere la ragione. Que- sta quasi è la descrizione dell'ufficio. Ma ei si debba operare che gli appetiti ubbidiscano alla ragione , e che quella essi non trapassi- no , e non 1'abbandoDÌQO , o per pigrizia , o


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per dappocaggine : sieno gli appetiti tran- quilli, e manchino d’ogni perturbazione di animo. Per la qual cosa rilucerà ogni costan- za e moderazione. Ma quegli appetiti i quali da lungi si seguono , e quasi come festeggian- ti , ■ o desiderando, o fuggendo, non sono rattenuti dalla ragione ; questi senza dubbio trapassano il fine e il modo , e abbandonano e ributtano l’ubbidienza, e non ubbidiscono alla ragione , alla quale essi sono suggelti per la legge della natura. Da’quali non solamente sono perturbati gli animi, ma ancora i corpi: imperocché e’ si può ■vedere la faccia degli adirati , o di coloro i quali sono commossi da qualche libidine, o paura, o da qualche trop- po piacere ; de’ quali universalmente sono cambiati i volti, e le voci, e i moti, e gli stati. Per le quali cose s’intende (acciocché noi ritorniamo alla forma dell’ ufficio ) che tutti gli appetiti si debbano raffrenare , e ra- morbidargli : e conviensi inverso loro usare tale gastigazione e diligenza, che niente noi facciamo senza ragione, o a caso, o inconsi- derata e negligentemente. Imperocché dalla natura noi così non siamo generati , che noi paiamo fatti a giuochi e ciance , ma più tosto a severità , e a certi studi maggiori e più gravi.


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CAPO XLVI.


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Del giuoco , e quando sia lecito giuocare.


Ma egli è lecito usare i giuochi e i motti: ma come il sonuo e gli altri riposi , allora quando noi avremo sodisfatto alle cose gravi e di utilità. £ esso modo di motteggiare non debb' essere dissoluto e immodesto , ma pia- cevole e degno di uomo da bene. Imperoc- ché come a’ fanciulli noi non diamo ogni li- cenza di giuocare , ma quella la quale non sia aliena dagli atti dell'onestà ; così in esso motteggiare riluca qualche lume di buono ingegno.

Due ragioni sono in tutto del motteggiare: una non degna dell'uomo libero , e lasciva,, e scellerata , e brutta , l' altra è elegante e conveniente alla città , e d’ ingegno , e pia- cevole. Del qual modo non solamente Plauto nostro , e l'antica commedia degli Ateniesi , ma ancora 1 libri de’ filosofi socratici sono pieni. E molti detti ancora piacevoli sono di molti altri ; come quelli i quali furono rac- colti da Catone vecchio, i quali sono chia-


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mati apojiegmata , cioè dell! sentenziosi. A— gevole è adunque la distinzione de’ motti r degni dell’ uimo libero , e di quegli che non si convengono al libero uomo. Imperocché quelli che s’appartengono all'uomo libero allora sono , se essi sono fatti col tempo ra- gionevole, in modo eli’ essi sieno degni del- l’ animo rimesso, e dell’ uomo. Gli altri non sono degni dell’uomo libero, se alle scelle- rate cose è aggiunta la bruttezza delle parole.

Ancora si debbe ritenere un certo modo del giuocare : che non troppo noi spargiamo ogni cosa } e traportati dal piacere , noi tra- scorriamo in qualche bruttezza. Ma il nostro campo, e gli studi del cacciare, a sufficienza» danno gli esempi del giuocare.

CAPO ILV1I.

Che si debba considerare per fuggire le voluttà.

Ma ad ogni qaistione d’ufficio s’appartiene sempre avere in pronto , quanto la natura dell'uomo anteceda alle pecore, e alle altre bestie. Quelle niente sentono se non il pia-


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cere del corpo , e a quello sono portate con ogni impeto: ma la mente deH’uomo è nutri- cata imparando e pensando ; e sempre o ella cerca, o ella fa qualcosa \ ed è menata dal diletto e del vedere e dell’ udire. E se alcuno fosse inchinato al piacere del corpo, purché esso non sia della generazione delle pecore (imperocché e’ sono alcuni uomini non per le opere , ma pel nome ) , ma se è inchinato alle virtù, benché esso sia preso dal corpo- rale piacere j egli occulta e dissimula per ver- gogna l’appetito del piacere carnale.

Per la qual co9a s’intende, che il piacere del corpo non è assai degno- dell’ eccellenza dell’uomo, e che quel tal piacere debba es- sere spregiato e ributtalo. E se fusse alcuno il quale attribuisca qualche opera al piacere corporale, per le dette cose s’intende , che questo tale debba usare misura in pigliare quel tal piacere. E così adunque il vitto no- stro, e il governo intorno al corpo , sarà rife- rito alle forze , e non al piacere di lui. E ancora se noi vorremo considerare che eccel- lenza e dignità sia nella natura , noi intende- remo quanto sia brutta cosa trascorrere in lussuria , e vivere morbidamente , e con di-


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licatezze ; e quanto sia onesto vivere tempe- ratamente , e con contenenza , e severità , e sobriamente.

CAPO LXVIII.

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Della diversità de' costumi , e delle due per- sone che dalla natura siamo vestiti.

Ancora si debbe intendere , cbe dalla na- tura noi quasi siamo vestili di due persone: delle quali l'una è comune ; per la quale noi siamo partecipi della ragione', e di quella ec- cellenza , per la quale noi antecelliamo alle bestie ; dalla quale è tirato ogni onesto e de- coro, e dalla quale noi cerchiamo trovare la ragione dell'ufficio. L’altra persona è la quale è propriamente data a ciascuno in ispezialità. Imperocché come ne' corpi sono grandi dis- similitudini ; imperocché noi veggiamo al- cuni per la velocità atti al correre ; alcuni per le forze potere combattere ; e così nelle forme, noi veggiamo alcuni essere bene com- plessionati , e alcuni di gentile fazione ; così negli animi sono ancora maggiori varietà. Egli era in Lucio Crasso e Lucio Filippo molto piacevo! parlare ; e maggiore ancora


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in Olio Cesare figliuolo di Lucio , e più da industria. E io questi medesimi tempi in Marco Scauro e in Marco Druso giovanetto era molta serietà : e in Caio Lelio molta pia- cevolezza ; e in Scipione suo familiare era molto maggiore desiderio d’ onori , ma più maninconica vita.

Ma de 1 Greci noi abbiamo inteso che So- crate fu dolce e piacevole , e di festereccio ragionamento , e in ogni parlare fu simula- tore } il quale parlare i Greci chiamano iro- nia , cioè gavillazione , e intendere pel con- trario. E per l'avverso, noi intendiamo che Pitagora e Pericle , senza piacevolezza , ac- quistarono somma autorità. Annibaie de' ca- pitani de' Cartaginesi fu callido r e de’ nostri fu Quinto Massimo , e in celare facilmente , e tacere , e dissimulare, e in fare agguati , e in preoccupare i consigli de’nemici. Nel qual modo i Greci antepongono a tutti i loro ca- pitani Temistocle, e Giasone Fereo. B tra i primi e' pongono scaltrito e saputo il fatto di Solone : il quale , acciocché la sua vita fosse più sicura , e più ancora esso facesse prò alla repubblica , finse impazzare. E sono alcuni altri molto dissimili a costoro, cioè semplici

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e aperti ; i quali giudicano che niente si con- venga fare o d’occulto od' inganni ; i quali sono coltivatori della verità, e nimici della frode. Sono ancora alcuni altri , i quali pa- tiranno ciò che tu vuoi , e a chi ti piace de~ serviranno, purché essi conseguitano quello eh’ essi vogliono: come noi vedevamo Siila e Marco Crasso. Nel qual modo noi abbiamo inteso essere stato e pazientissimo e scaltris- simo Lisandro, appresso a’Lacedemoni: e pel contrario Callicratida , il quale fu il prossimo capitano dell’armata dopo Lisandro.

Ancora noi abbiamo inteso, che alcun al- tro ne’ ragionamenti (benché molto potente e’fusse) faceva ch’egli pareva uno di molti. La qual cosa noi vedemmo in Catulo padre, e nel figliuolo: e questo medesimo in Quinto Muzio Mancia. Io ho udito da' nostri vecchi, che questo medesimo fu in Pubblio Scipione Nasica : e per l’ avverso , che il padre suo , il quale vendicò gli direnati sforzamenti di Gracco , non ebbe alcuna piacevolezza nel parlare. E similmente Xenocrate fu severis- simo filosofo } e per quello fu grande e fa- moso. Innumerabili altre dissimilitudini sono della natura e de’ costumi, da non essere ri- presi.




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CITO XLIX.

Che in quelle cose massimamente ci dobbia- mo affaticare , alle quali siamo più atti •

E’ si debbe ritenere quelle cose , le quali ci sono proprie dalla natura, purché esse non sieno viziose ; acciocché più agevolmente noi ritegniamo quel decoro, il quale noi cerchia- mo. Ma cosi si debbe fare, che niente noi contendiamo contro alla natura universale : e quando noi avremo conservata quella , al- lora noi seguiteremo la nostra. E benché gli studi degli altri sieno migliori e più gravi ; nientedimeno noi misureremo i nostri colla regola della natura nostra. Imperocché ei non s' appartiene ripugnare alla natura ; e niente seguitare , che tu non possa acquista- re. Per la qual cosa più apparisce di che qua- lità e'sia quello decoro. E per questo niente si confà, non essente volontaria Minerva, co- me si dice*, cioè opponentesi e contrariente la natura.

E al tutto se alcuna cosa è il decoro , niente per certo è più, che accordarsi colla natura universale , e ancora con le speziali faccende:


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la qual cosa tu non potrai conservare , se tu segui la natura degli altri , e lasci la tua. Im- perocché come noi dobbiamo usare quello medesimo parlare , il quale sia noto a noi , c che noi, come fanno alcuni mescolanti parole greche, non siamo meritamente dileggiati ; così ne' fatti e in tutta la vita , noi non vi dob- biamo mettere alcuna differenza.

Ma questa diversità della natura ha tanta forza , che alcuna volta alcuno debbe uccide- re sé medesimo , e alcuno nou lo debbe nella stessa cagione. Imperocché Maroo Catone nou fu in altra cagione , e in altra tutti quegli al- tri , i quali in Affrica si dettono a Cesare : e forse che quegli altri sarehbono stati ripresile essi avessino morto sé medesimi , imperocché la vita loro fu più leggiera, e i costumi più facili. Ma perchè la natura aveva attribuito a Catone la incredibile gravità; e quella aveva affortificata con la perpetua costanza , e sem- pre era stato nel proposito, e nel preso con- siglio ; piuttosto doveva morire , che ragguar- dare il volto del tiranno.

Quante molte cose pati Ulisse in quello lungo errore , quando esso servì a Circe e a Calipso donne , se donne si debbono chia-


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mare ! e volle essere piacevole con ognuno in ogni parlare ; e in casa sopportò le villa* nie de’ servi e delle schi 1 ve ] acciocché qual- che volta esso pervenisse a quello eh’ egli de- siderava. £ Aiace , con che animo si dice che fu , mille volte piuttosto avrebbe voluto sop- portare la morte , che patire quelle cose. Le quali cose a noi consideranti converrà pesax'e quello che ciascuno abbia di suo, e quello temperare, e non volere provare quanto le cose altrui se gli confacciano. Imperocché quello massimamente a uno si confà , il quale spezialmente è proprio di lui.

Ciascuno adunque conosca la natura sua , e si faccia severo giudice della bontà e de'vizi suoi : e che quelli che si contraffanno nelle scene non mostrino avere più prudenza di noi : imperocché coloro a sé scelgono le fa- vole non perfettissime, ma accomodatissime a loro. Coloro che hanno buona voce , si scel- gono le favole di Epigono e Medo ; e coloro che sono buoni a' gesti , pigliano Menalippo e Clilemnestra: Rulilio, del quale io mi ri- cordo sempre, Antiopo ; ed Esopo pigliava A- iace. Adunque farà l’ istrione nella scena , quello che non fa il savio uomo nella vita?




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In quelle cose adunque spezialmente noi ci affideremo, alle quali noi saremo attissimi. Ma se alcuna volta la necessità ci sospignesse a quelle cose, che non lussino dello ingegno nostro, porremo ogni cura , e pensiero, e di- ligenza , che quelle , se noi non le possiamo fare con onore , almeno noi le facciamo senza disonore. E nientedimeno noi non ci dob- biamo sforzare, che piuttosto noi seguitiamo que'beni i quali non ci sono conceduti dalla natura , che noi fuggiamo i vizi.

A queste due persone, le quali di sopra noi abbiamo detto, se ne aggiugne la terza \ la quale ci dà il caso e il tempo. La quarta an- cora , la quale col giudicio nostro noi acco- modiamo a noi medesimi. Imperocché le si- gnorie , gl’ imperii , le nobiltà , gli onori , le ricchezze, le abbondanze, e quelle cose che sono contrarie a queste, come esse sono po- ste nel caso, cosi sono governate da’ tempi.

Ma che persona noi vogliamo portare , viene dalla volontà nostra E cosi alcuni si applicano a filosofìa , alcuni a ragione civile, alcuni a eloquenza : c di esse virtù , alcuno piuttosto vuole eccellere in questa, e quel- l’ altro in quell’ altra. Ma chi ha avuto il pa-




dre o gli antichi suoi eccellenti in qualche

gloria , costui molto volentieri studia eccel- lere in quelli medesimi onori. Come Quinto Muzio figliuolo di Pubblio fece in ragione civile 5 e Affricano figliuolo di Paolo ne’fatti delle armi. Alcuui ancora alle lodi , le quali eglino hanno ricevute da’ padri, ne aggiun- gono qualcuua sua : come questo medesimo Affricano, coll’eloquenza accrebbe la gloria delle armi. La qual cosa medesimamente fe- ce Timoteo figliuolo di Conone: il quale con- ciosiacosacchè non fosse nelle armi più infe- riore che il padre , a quella lode aggiunse la gloria della dottrina e dello ingegno.

Ma alcuna volta si fa, che alcuni , lasciato il seguitare gli antichi suoi , conseguitano alcun altro studio. E spezialmente molto in questo spesso si affaticano coloro , i quali , nati di vile sangue , a sè medesimi prepongono cose grandi. Adunque quando tutte queste cose noi cerchiamo , coll'animo e col pensiero dob- biamo considerare quello, che ci si confac- cia. Ma la prima cosa si debbe considerare, chi e di che qualità noi vogliamo essere, e di che vita: la quale deliberazione, per diffi- coltà , tutte le altre passa. Imperocché quan-


do noi vegniamo nella giovanezza ( quando egli è grandissima debolezza di consiglio ) allora ciascuno a sè ordina quello modo della futura vita , il quale massimamente egli ha amato. Adunque innanzi egli è avviluppato in un certo modo e corso di vivere, che esso possa giudicare quello che sia ottimo.

Imperocché dicono , come è appresso a Xenofonte, che Ercole prodigo, quando pri- ma cominciava nella giovanezza ( il qual tem- po è dato dalla natura allo eleggere, in qual via di vivere ciascuno debba entrare) uscì in uno luogo solitario, e quivi sedente, lungo tempo seco e molto dubitò , quale delle due vie fusse meglio a pigliare. Imperocché quivi egli vedeva due vie , l’una della virtù, e l’al- tra de' corporali piaceri. Questo forse potè addivenire a Ercole figliuolo di Giove : ma a noi non addiviene quello medesimo, i quali seguitiamo le vestigie di coloro, de' quali ci pare, e agli studi e ordini di coloro siamo commossi. Ma alcuna volta pieni de' precetti de' padri nostri , siamo ridotti all'usanza e al costume loro. Alcuni altri sono mossi dal giu- dicio della moltitudine ; e quelle cose le quali paiono bellissime alla maggior parte , quelle






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spezialmente desiderano. Alcuni nientedime- no , o per una certa felicità o per bontà di natura, o per disciplina de' padri , hanno se- guitato la retta via della vita.

Ma quella ragione spezialmente è rada di quegli uomini , i quali o per eccellente gran- dezza d’ ingegno , o per egregia erudizione e dottrina , o per l' una e l' altra cosa ornati, hanno avuto lo spazio del deliberare , qual corso di vita spezialmente volessino seguire: nella quale deliberazione ciascuno debbe chia- mare ogni consiglio alla natura sua. Imperoc- ché awegnadio che in tutte le cose che si fanno, noi cerchiamo, Come di sopra è detto, quello che si confaccia, da quel modo il quale noi abbiamo preso ; ancora in ordinare tutta la vita considereremo quello decoro : impe- rocché molta maggior cura ci è da essere posta , acciocché noi possiamo in tutta la per- petuità della vita essere costanti a noi mede- simi , e non zoppeggiare in alcuna onestà.


Che nel genere della vita diligentemente dob- biamo considerare le forze della natura e della fortuna.

Ma perché a questa ragione la natura ha grandissima forza , e a lei la fortuna è pros- sima ; F una e F altra si debke considerare nello eleggere il modo della vita : ma mag- giore considerazione si debbe avere nella na- tura. Imperocché ella è molto più ferma e molto più costante ; in modo che la fortuna molte volte , come se essa fosse mortale , pare che combatta colla natura immortale. Chi adunque avrà conferito ogni consiglio del vi- vere al modo della natura sua non viziosa , costui sia costaute: imperocché quello massi- mamente si confà. Se già per a caso non avessi inteso aver errato nello scevre il modo della vita : la qual cosa se ella accadrà (ma ella può accadere) debbesi fare la mutazione degli or- dini e de' costumi. Quella mutazione , sei tempi l'aiuteranno, la faremo più facilmente con maggior commodità; ma se così non fosse, faremo quella piano piano , e a poco a poco ,




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come giudicano i savi delle amicizie , le quali non dilettino e non sieno lodate ; dicono , che più si confà rimuoverle a poco a poco , che di subito tagliarle.

Ma , rimutato il modo della vita, con ogni ragione si debbe attendere , ch’ei paia cbe noi quello abbiamo fatto con buono consiglio. £1 perchè un poco innanzi fu detto , che si deb- ba seguitare le vestigia degli antichi ; prima quello sia eccettuato, che i vizi non si segui- tino; dipoi , se la natura non sopportasse che alcune cose non si potessino imitare , le dob- biamo lasciare: come il figliuolo di Affricano superiore ( il quale si fece figliuolo adottivo quesl'altro Scipione, figliuolo di Paolo ) per la infermità non potè così essere simile del padre , come era stato colui del suo. Se adun- que ei non potrà o difendere causa , o tenere il popolo ragunalo a udire, o fare guerre; nientedimeno quelle cose dovrà fare, le quali saranno in sua podestà : ciò è osservare giu- stizia , fede, liberalità , modestia , temperan- za; acciocché e’ non sia addomandato da lui quello cbe manchi. Ma ottima eredità è la- sciata da’padri a’fìgliuoli,la gloria delle virtù, e degli egregi fatti ; a’quali essere a disonoi’e, si debbe giudicare illecito e scelleratezza.


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CAPO LI.

Degli uffici de' giovanetti.

E perchè non i medesimi uffici sono attri- buiti alle età diseguali ; e altri uffici sono dei giovani , e altri de’ vecchi ; ancora si debbe dire qualcosa di questa differenza.

Apparliensi adunque al giovanetto, rive- rire gli uomini di tempo ; e di costoro eleg- gerne alcuni ottimi e lodati , col consiglio e autorità de’ quali ei si governi. Imperoc- ché l’ignoranza della giovanile età , si debbe reggere e ordinare colla prudenza de’ vec- chi. Ma spezialmente questa età, si debbe rimuovere dalle libidini , e debb'essere eser- citata nella fatica , e pazienza dell'anima e deL corpo : acciocché la industria di costoro di questa età , si mantenga in fiore nelle fac- cende civili e delle arme. E ancora quando e’ vorranno dilettare gli animi , e darsi al pia- cere, schifino la intemperanza, ericordinsi della vergogna : la quale cosa sarà più age- vole , se essi vorranno che a queste tali cose intervenghino i vecchi.





Degli uffici de vecchi .

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Ma i vecchi a sé amminuiranno le fatiche del corpo , poiché essi vedranno che l’ eser- citazioni dell’ animo debbano essere a loro accresciute. Ancora daranno opera, che da loro sieno aiutati con prudenza e consiglio gli amici , i giovani , e la repubblica. Ma da niente più si debbono guardare i vecchi, che dal darsi alla pigrizia , e al doloroso ozio. La lussuria conciosiacosa che essa sia brutta a ogni età, nientedimeno alla vec- chiaia è bruttissima. Ma se l’ intemperanza della libidine verrà, è doppio male : im- perocché essa vecchiaia piglia il disonore , e fa l'intemperanza de'giovani essere più senza vergogna.

CAPO LUI.

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Degli uffici de magistrati , de privati y e de' forestieri.

E qui non mi pare alieno, dire degli uf- fici degli uomini di magistrato , e de' pri-


vati, e de’citladini, e de’ forestieri. È adun- que il proprio dono del magistrato intendere, sé portare la persona della città , e dovere sostenere la dignità, e l’onore di lei, e con- servare le leggi , dare le ragionile ricor- darsi delle cose che sono commesse alla sua fede.

Ma all’ uomo privato si conviene vivere con eguale e pari ragione co’ cittadini , e non si sottomettere e avvilirsi, e non s’ in- nalzare : e ancora nella repubblica volere quelle cose, che sieno tranquille ed oneste* Imperocché a noi suole parere, e cosi so- gliamo dire , che tale uomo sia buono cit- tadino.

Ma l’ ufficio del forestiero, o di colui che di nuovo abita è , niente fare oltre alle fac- cende sue, e niente domandare d'altri , e non mettere cura nell’altrui repubblica. Così quasi si troveranno gli uffici, quando e’ si cer- cherà quello che si confaccia , e quello che sia atto alle persone, a’ tempi, e all’elà. Ma niente è che tanto si confaccia , che in ogni faccenda che si debba fare, e in pigliare ogni ‘consiglio, osservare la costanza.




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CAPO I1V.

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Del decoro circa la bellezza , ordine ,

I ed ornato.

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UH'ÌU K . / ».

Ma perchè quel decoro si conosce in tutti i fatti e detti ; e finalmente nel corpo , quando si muove o sta posato ; ed è posto in tre cose , nella bellezza , nell’ ordine , e nell’or- nato atto al fare ; più difficile è il parlarne : ma assai sarà eh’ ei sia inteso. Ma in que- ste tre cose è contenuta ancora quella cura , che noi siamo commendati da coloro, coi quali e appresso de’quali noi viviamo. E an- cora di queste cose parliamo un poco.

CAPO AV.

o • » . .

Che i membri che la natura ha occultato noi ancora gli dobbiamo occultare.

Primamente si dica, che la natura pare che abbia avuta grande ragione del corpo no- stro : la quale ha posto in aperto la forma nostra , e tutta quella figura , nella quale fosse l’apparenza onorevole : ma quelle parti




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del corpo , le quali furon date alle neces- sità della natura , e le quali dovevano avere 1’ aspetto e la forma brutta , le occultò e coperse. E la vergogna degli uomini lia imi- tato questa diligente fabbrica della natura; imperoccbè quelle cose le quali ha nasco- sto la natura , quelle medesime tutti gli uo- mini , che sono colla mente sana , rimuovono dagli occhi , e danno opera che essa neces- sità essi obbediscano, quanto possano più oc- cultamente. E di quali parti del corpo l’uso è necessario, nè quelle parti, nè 1 uso di quelle , chiamano con loro nomi : e quello che non è brutto a fare , purché si faccia coperto , al chiamarlo è brutto. E così il fare apertamente tali cose , e il brutto ra- gionare, non mancano di lascivia. Ma i ci- nici non dobbiamo udire-, o se alcuni stoi- ci furono quasi cinici , i quali riprendono e dileggiano, che noi chiamiamo brutte quel- le cose, le quali non è brutto farle ; e quelle cose le quali nel farle sono scellerate , le chiamiamo ne’nomi loro, com’è il rubare, e l’ ingannare. Il fare adulterio è scellera- tezza , ma a parola non è brutto. Il dare opera a fare figliuoli, in fatto è onesto, e


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nel nome è Brutto. E molte altre cose, in questa medesima sentenza contro alla ver- gogna? sono disputale da costoro medesimi. Ma noi seguitiamo la natura , e rimovia- moci da ogni cosa , la quale non è appro- vata dagli occhi e dagli orecchi. Lo stare, r andare , il sedere , giacere , il volto , gli occhi , i movimenti delle mani , osservino quello che si confacela.

Nelle quali cose due cose principalmente fuggiremo; che niente sia effeminato o la- scivo , e che nulla sia duro o rusticano. Ma e’ non si dehhe concedere agl’istrioni e agli oratori , che queste cose sieno atte a loro , e in noi non sieno con ordine alcuno. Il co- stume di quegli che si esercitano nelle scene, per l’antica disciplina ha tanta vergogna, che nessuno va nella scena senza brache. Im- perocché essi temono , che se per caso al- cuno addivenisse, che alcune parti del corpo s aprissino , esse non fossino vedute diso- norevolmente. Secondo il costume nostro , i giovanetti che già possono generare non si lavano co’ padri, nè i generi co’ suoceri. Dehhesi adunque ritenere tale vergogna ; e spezialmente quando essa natura n’è mae- stra e guida.

Che due sono le ragioni della bellezza.


Ma conciosiacosa che due ragioni siena di bellezza -, delle quali 1’ una è posta nella venustà , cioè nel pulito e grazioso corpo ; 1’ altra nella dignità , cioè nella buona pro- porzione delle membra; la venustà noi di- remo che s’ appartiene alla femmina , e al maschio la dignità.

Adunque dalla bellezza nostra noi rimo- veremo ogni ornamento non conveniente al- 1’ uomo ; e similmente schiferemo il vizio simile a questo, il quale è nel moto e nei . gesti del corpo. Imperocché i moti di coloro

che giuocano alla palestra sono molto odio- si : e ancora i moti degl’ istrioni non man- cano alcuna volta di vituperazione : e quelle cose che sono rette e semplici , nell’ una e • ' nell’altra ragione di questi giocolatori , me-

ritamente sono lodate.

Ma la dignità della bellezza si debbe di- fendere colla bontà del colore , ed il colore


coll’ esercitazione del corpo. Oltre queste cose si conviene usare una nettezza non o-



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diosa , nè cercata troppo: solamente fuggasi la rusticana e disumana negligenza. Questa medesima ragione si conviene avere nel ve- stire , nel quale , siccome in più cose , il mezzo è ottimo.

E dobbiamoci guardare, ebe nell’andare noi non usiamo o quella tardità lenta , che noi paiamo simili a quelle vivande, le quali ne’ conviti sono portate con molta pompa; o che nella fretta noi non pigliamo troppa prestezza, la quale quando si fa, è mosso 1’ ansare , mutansi i volti , e le bocche si torcono : per le quali cose si fa grande di- mostrazione , che la costanza non sia con noi. Ma molto più ancora ci dobbiamo af- faticare, che i moti dell’animo non si par- tano dalla natura. La qual cosa noi con- seguiremo , se noi ci guarderemo che noi non caschiamo nelle perturbazioni , e negli sbigottimenti; e se noi terremo gli animi attenti , alla conservazione del fare quello eh’ e’ ci si confà.


CAPO LVII.


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Del duplice movimento delC animo .

Ma i moti degli animi sono due : impe- rocché l’uno è nella considerazione, e l’al- tro nell’appetito. La considerazione si ri- volta specialmente nel cercare il vero , l'ap- petito commuove al lare. Adunque si d eb- be procurare, che noi usiamo la considera- zione al fare cose molto opportune , e che noi diamo l’appetito ubbidiente alla ra- gione.

CAPO X.V1II.

Della fona del parlare.

E perchè la forza del parlare nostro è grande , e questa è doppia , 1’ una é nella contenzione, e l’altra nel sermone. La con- tenzione noi attribuiremo alle quistioni dei giudici , e delle orazioni al popolo , e del senato ; ed il sermone noi useremo ne’cer- chi , e nelle dispute , e ne’ ragionamenti familiari , e ancora ne’ conviti. I precetti della contenzione s’ appartengono a' retori-




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ci ; ma del sermone non ne sono alcuni: benché io non so , se ancora tali precetti possano essere. Ma i maestri si trovano per gli studi di coloro che imparano : ma in questi precetti del sermone non è chi stu- dii ; e dell'arte rettorica ue sono piene tut- te le cose. Benché quegli che sono precetti delle parole e delle sentenze , medesima- mente si appartengono ancora al sermone.

Ma conciosiacosa che la voce sia quella, la quale dimostra il parlare nostro , nella voce noi osserveremo due cose 5 che essa sia chiara , e sia soave. L’ uno e 1 ’ altro al tutto s'addomanda dalla natura : ma l’uno s’accrescerà per la esercitazione; e 1' altro per la imitazione di coloro , che parlano bassamente e con soavità. Niente fu ne’Ca- tuli , che non con molto giudicio tu sti- massi, ch’essi usassino le lettere : benché es- si erano letterati ; ma ed alcuni altri. Ma questi Catuli si stimava , che avessino otti- mamente la lingua latina: il suono era dol- ce, e le lettere non erano pronunciate e- spressamente , nè con oppressione : accioc- ché il parlare loro non fosse oscuro o brut- to , parlavano senza contenzione , e la voce non era languida , nè risonante.




II parlare di Lucio Crasso era più abbon- dante T e non meno piacevole, ma non mi- nore opinione fu de’ Catuli nel ben parlare. Ma per motti e piacevolezze, Cesare, fratel- lo del padre di Catulo, vinse ognuno; in mo- do che in quello modo del dire nella corte, esso vinceva le contenzioni e i sermoni de- gli altri. In tutte queste cose si debbe pi- gliare fatica, se noi cerchiamo quello che si confaccia ne’ fatti.

Sia dunque questo sermone , nel quale mas- simamente i Socratici eccellono , leggiero y a non pertinace ; e in lui sia piacevolezza : e costui che l’usa , non scacci gli altri sermo- ni , come se fosse venuto nella sua possessio- ne ; ma stimi, come nelle altre cose, così nel sermone comune, non essere iniquo Io scambiarsi. E prima vegga di che cose egli parla: e .se parla di cose utili , aggiunga- vi la severità ; e se di dilettevoli , la piace- volezza. E la prima cosa provvegga , che il sermone non dimostri alcuno vizio esse- re ne’ costumi : la qual cosa allora spezial- mente suole addivenire , quando studiosa- mente di coloro che non sono presenti , per cagione di biasimargli, si dice o motteggian-





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do , 0 dicendo con severità , e villania e biasimo.

Ma i sermoni molte volte sono o de’ fatti della repubblica , o de’ familiari , o degli studi , e dottrina delle arti. Debbesi anco- ra dare opera , che se ancora il parlare no- stro si sarà partito da’ proposti ragionamen- ti , e ito ad altre cose, esso debba ritorna- re a quegli medesimi. E sieno qualunque vuoi le cose : imperocché noi non ci dilet- tiamo di cose medesime , nè similmente in ogni tempo. Conviensi ancora conoscere in- sino a quanto diletti il parlare nostro ; e come e’ vi fu ragione nel cominciare , così sia nel finire misura.

Ma come in ogni vita rettamente si co- manda , che noi fuggiamo le perturbazio- ni, cioè i troppi moti delfanimo , non ub- bidienti alla ragione ; così di questi moti debbe mancare il sermone , acciocché e’ non vi sia o ira , o qualche cupidigia , o pigri- zia , o dappocaggine , o non vi apparisca qualche simil cosa. E spezialmente si con- viene procurare eh’ ei paia , che noi e rive- riamo e amiamo coloro, co’quali noi con- feriamo il sermone.


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CAPO LIX.

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Come e in che modo si debba svillaneggiare gli amici .

Alcuna volta accaggiono i necessari svil- laneggiamenti : ne’ quali forse si debbe usa- re e maggiore contenzione di voce, e più potente gravità di parole. Ma quello anco- ra si debbe fare , eh' e’ non paia che noi facciamo quelle cose adirati: ma come i me- dici rade volte, e mal volentieri, vengono allo incendere e al segare; così medesima- mente noi verremo a tal modo di punizio- ne: e non vi verremo, se non per neces- tà, se alcuna altra medicina non si trova. Ma nientedimeno l’ira stia da lungi; col- la quale niente si può fare rettamente , e niente con considerazione.

Ma da grande parte è lecito usare la pia punizione, aggiuntovi nientedimeno la gra- vità; acciocché e’ vi sia la verità, e la super- ba villania sia scacciata. E quello medesi- mo che ha lo svillaneggiamenlo di acerbità , si debbe mostrare, quello essere stato preso per cagione di colui che é svillaneggiato. Ma




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vera cosa è ancora in quelle contenzioni , le quali noi abbiamo con coloro che ci sono inimicissimi , benché da loro noi udiamo cose non degne di noi , ritenere nientedi- meno la gravità, e Tira da lungi rimuo- vere. Imperocché quelle cose le quali sono fatte con alcuna perturbazione di animo , non possono essere fatte costantemente, e non possono da coloro che vi sono pre- senti essere lodate.

E ancora non ci dobbiamo commendare r imperocché brutta cosa è predicare di sé medesimo ; e spezialmente quelle cose che sono false ; e con irrisione di coloro che odono , lodare sé; come faceva il soldato glorioso.

CAPO LX.

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Di che qualità debba essere la casa delfuomo onorato e principale.

E perchè noi seguitiamo tutte le cose ( ma per certo noi vogliamo ) si debbe an- cora da noi dire, di che qualità ci piaccia dover essere la casa di un uomo onorato e principale; e di che fine essa debba esse-





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re, o di che uso ; al quale si conviene acco- modare l’ordine dell’ edificare: e nientedi- meno debbe aggiungere la diligenza della dignità o della commodità. A Gneo Ottavio, il quale fu primo consolo di quella fami- gHa, fu in onore, come noi abbiamo inte- so , che in quel luogo che si chiama pala- gio , esso aveva edificato una egregia casa , e piena di dignità : la quale quando era ve- duta dal popolo , era stimata aiutare al si- gnore suo (uomo venuto a Roma di nuovo) all’addomandare il consolato. Questa mede- sima, Scauro, figliuolo del detto Gneo Ot- tavio , guastò e dettele l' accessione. Colui adunque primo in casa sua arrecò il conso- lato : costui figliuolo del sommo e famosis- simo uomo , nella casa multiplicata arrecò non solamente 1’ essere scacciato , ma anco- ra la vergogna e il danno.

Imperocché la dignità si debbe adornare colla casa , e non debb’ essere cerca tutta dalla casa : e il signore non debb’ essere onorato per la casa, ma la casa pel signore. E come in tutte le altre cose si debbe ave- re la ragione non solo di sé , ma ancora degli altri; così nella casa del famoso uomo.





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nella quale si debbe ricevere molti forestie- ri , e grande moltitudine di uomini di qua- lunque generazione, e’ conviensi procurare eh’ e' vi sia larghezza. Altrimenti la casa ampia spesse volte fa vergogna al signore , se in quella è poca gente , e spezialmente se quella pel passato fu abitata da un altro signore. Imperocché ella è cosa odiosa, quan- do da chi passa si dice: o casa antica , da quanto diseguale signore se' signoreggiata ! la qual cosa in questi tempi di molti si po- trebbe dire.

Debbesi guardare spezialmente , se tu edi- fichi , che tu non ti facci innanzi fuori di misura colla spesa e colla magnificenza: nel quale modo molto male è ancora allo esem- pio. Imperocché molti con grande studio , spezialmente in questa parte, imitano i fatti de’ principi. Come , chi ci è che abbia imi~ tato la virtù di Lucio Lucullo? Ma quanto grande numero è di coloro ,' i quali 1’ hanno imitato nell’ edificare magnifiche ville ! Ma ancora intorno a questo, per certo si do- vrebbe osservare misura , e quella ridurre a uno mezzo : il quale medesimo mezzo si do- vrebbe trasferire a ogni uso , e governo




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della vita. Ma assai sia avere dette queste cose insino a qui.

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CAPO MCI.

Che in ogni nostro atto dobbiamo osservare tre cose.

Ma in ogni atto che noi pigliamo , tre cose si conviene osservare : la prima , che T appetito ubbidisca alla ragione : della qual cosa nessun' altra è più accomodata al mantenere gli uffici. Dipoi che si consideri, di che grandezza sia quella cosa, che noi vo- gliamo fare ; acciocché non minore o mag- giore cura e opera si pigli , che sia di biso- gno. La terza cosa è , che noi ci guardiamo secondo la misura ; cioè che noi temperia- mo con modo quelle cose, le quali s’appar- tengono alla diguità , ed all’apparenza li- berale. Ma ottima misura è mantenere quel- lo che si confaccia , del quale poco innan- zi noi dicemmo , e non andare più oltre. Ma di queste tre cose , eccellentissimo è che l’appetito ubbidisca alla ragione.

CAPO UH.


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Dell ordine delle cose , e dell opportunità de' tempi.

Dopo le dette cose da noi , si dirà del» r ordine delle cose, e dell’ opportunità de’ tempi. Ma in questa scienza si contiene quel* la, che in greco si chiama eutaxia , cioè buon ordine. E non è quella che noi interpre- tiamo modestia , nella quale parola è il mo- do ; ma quella è eutaxia , nella quale s’in- tende essere la conservazione dell’ordine. Adunque , acciocché questa medesima noi, chiamiamo modestia , così si diffinisce dagli stoici , che la medesima è scienza dell’ al- logare nel luogo loro quelle cose, le quali si fanno o diconsi. E cosi pare, che una me- desima forza sia dell’ ordine e dell’ alloga^ zione: imperocché l’ordine così diffinisco* no , eh’ esso è la composizione delle cose ne’ luoghi atti e commodi ; e il luogo del- l’ atto , dicono eh’ è opportunità di tempo.

Ma il tempo opportuno all' atto in greco e detto eucheria , cioè opportunità di tempo;

  • in latino occasione. Così si fa che questa




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modestia, la quale noi interpretiamo, come io ho detto, sia scienza di opportunità di tem- pi atti al fare. Ma questo può essere la me- desima definizione della prudenza; della qua- le nel principio noi dicemmo. Ma in questo luogo noi cerchiamo della moderazione e tem- peranza , e delle virtù simili di queste. A- dunque quelle cose, che propriamente si ap- partenevano alla prudenza , se ne disse nel suo luogo : ma ora noi diremo quelle cose , le quali proprie sono di queste virtù, delle quali già molto ne abbiamo parlato: le quali s ap- partengono alla vergogna , e all’approvazio- ne di coloro, co’quali insieme noi viviamo.

Tale ordine adunque degli atti si debbe pigliare, che come nel parlar costante, così nella vita tutte le cose sieno tra loro atte e convenienti. Imperocché ella è brutta co- sa e molto viziosa, in un fatto severo in- serirvi qualche sermone , degno di convito delicato. Ma bene fece Pericle , quando nella pretura per compagno avea Sofocle : e conciosiacosa che costoro lussino in ragio- namento del comune ufficio , e per accaso passasse un bello fanciullo , e Sofocle di- cesse : che bello fanciullo , o Pericle ! Pericle




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allora disse : al pretore , o Sofocle , e’ si

confà avere astenente non solo le mani , ma ancora gli occhi. Ma questo medesimo So- focle , se nel lodare coloro che giucavano di persona, avesse detto tale cosa, ragionevol- mente avrebbe mancato di riprensione. Tan- ta è la forza del luogo e del tempo, che se uno il quale abbia a dire la causa sua , per la via e mentre eli’ e’ va , esso da sè si pruo- va , o pensa qualche cosa attentamente, non ha ripreso: ma se fa questo medesimo nel convito , parrà inumano , e in ignoranza brutta del tempo.

Ma quelle cose le quali molto si disco- stano dall’umanità , come se uno cantasse

in mercato, o nella corte, o se alcuna al- tra grande contrarietà fosse , facilmente si conosce che non desiderano molto amino- nizioni o precetti. Ma quegli che paiono piccoli peccati , e facilmente non possono essere intesi , da questi si debbe guardarsi più diligentemente. Come ne’ suoni di cor- de , o ne' zufoli , benché un poco si disco- stino dal vero suono , nientedimeno da chi intende tale errore suole essere conosciuto ; così ancora si debbe vivere , che nella vita



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niente si discosti dalle cose convenienti : e ancora molto più che in quegli strumenti , quanto è maggiore e migliore la risonanza degli alti nostri , che de' suoni.

Adunque come ne' suoni, gli orecchi co- noscono ancora le minime cose, così ancora noi, se noi vogliamo essere diligenti e forti, e conoscitori de’ vizi , intenderemo spesso grandi cose dalle piccole : e dallo sguardo degli occhi, e dal raccorre o distendere le sopracciglia, e dalla maninconìa, e dall'alle- grezza, e dal riso, dal parlare, dall’innal- zare o abbassare la voce , dallo stare cheto , e da tutte le altre simili cose, facilmente noi giudicheremo quale di queste cose sia fatta attamente, e quale si discosti dall’ uf- ficio e dalla natura. Nella quale ragione di atti non è incomodo giudicare per gli altri, di che qualità ciascuna di queste cose sia ; acciocché se alcuna cosa in coloro non si confà , noi poi la schifiamo. Imperocché si fa , non so in che modo , che più noi cono- sciamo negli altri che in noi, se alcuna cosa si pecca. E così, facilissimamente nell’im- parare i discepoli sono corretti , quando i maestri, per cagione di emendargli, imi- tano i vizi loro.



CAPO LX11I.


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Che nelle cose dubbie dobbiamo consigliarci co' dotti.

Non è cosa aliena, alle cose le quali nel pigliare ci danno dubbio , aggiungervi uo- mini dotti, e saputi perla pratica; e do- mandare costoro quello, cbe di ciascuna ra- gione d’ ufficio loro paia. Imperocché la maggior parte degli uomini quasi suol es- sere traportata , dov’ essa è meuata dalla natura. Nelle quali cose si conviene vedere, non solamente quello che ciascuno favelli , ma ancora che parere ciascuno abbia , e perché cagione ancora a ciascuno così gli paia. 'Imperocché come i pittori, e gli scul- tori , e di quinci ancora i poeti , ciascuno vuole che 1’ opera sua sia considerata dal volgo; acciocché se alcuna cosa fusse ripresa da' più, quella sia corretta ; e costoro da sé e con gli altri cercano quello , che in quella opera sia peccato ; cosi pel consiglio degli altri , molte cose saranno fatte e non fatte da noi , e mutate, e ricorrette.

Ma di qnelle cose non si diri alcuno pre-




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cetto, le quali si fanno secondo il costume e secondo gl'istituti civili: imperocché di quel- le cose già ne sono stati dati i precetti. £ non si conviene che alcuno sia menato da questo errore, che se Socrate o Aristippo abbino fatto alcuna cosa contra il costume o usanza civile , o abbiano parlato , esso pensi a lui essere lecito fare quello medesi- mo. Coloro pe’ grandi e divini loro beni, conseguitavano questa licenza. Ma la ra- gione de’ cinici tutta si debbe levare via : imperocché essa è inimica della vergogna , senza la quale niente può essere retto , e niente onesto.



CAPO LXIV.

Che noi dobbiamo osservare la compagnia di tutti gli uomini.


Ma coloro, de'quali la vita è conosciuta nelle cose oneste e grandi, essenti in buo- no parere della repubblica, e bene meri- tati o meritanti , e ricevuti qualche onore o signoria , noi dobbiamo osservare ed ama- re con riverenza. Dobbiamo ancora attri-



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buire molto alla vecchiaia , e cedere a colo- ro, che avranno magistrato; e fare diffe- renza tra’l cittadino e il forestiere : e nel forestiere considereremo, se quivi egli è ve- nuto o pubblico o privato. E in somma ( acciocché particolarmente io non dica di ciascuna cosa) noi dobbiamo amara , difen- dere , e conservare la comune compagnia , e le ragunate degli uomini di ogni ragione.

CAPO LXV.

Quali arti e quali guadagni sieno onesti.

Già degli artelìcii e de’ guadagni’, così quasi noi abbiamo inteso quali sieno da es- sere tenuti liberali, e quali brunii Prima- mente sono con vituperio riprovati que’ guadagni , i quali incorrono negli odii de- gli uomini ; come quelli degli usurai , e de* portitori. Ma illiberali e brutti sono i gua- dagni, di tulli i mercenari, de' quali sono comperate le opere, e non le arti : impe- rocché in coloro il premio è un mercalare la servitù. Brutti guadagni ancora si deb- bono stimare quelli di coloro, i quali dai

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mercatanti m< rcatano quella cosa , la quale immantinente rivendono : imperocché nien- te fanno prò, se non è che essi mentiscono; e nessuna è più brutta cosa che 1’ essere bugiardo. Gli artefici tutti si rivoltano in brutta arte: imperocché la bottega niente può avere degno di uomo dabbene. E quel- le arti ancora non saranno approvate , le quali sono ministre della voluttà ; come so- no pesciaiuoli , beccai , cuochi , facitori di torte e camangiari , pescatori , come disse Terenzio. E a questi aggiungi, se ti piace, gli unguentai , i ballatoci , e tutto il giuoco di dadi e tavole.

Ma quelle arti nelle quali è maggiore prudenza , o cercasi non mezzana utilità , com’è la medicina, 1’ architettura , la dot- trina delle cose oneste, son oneste a colo- ro , all’ ordine de’ quali esse sono conve- nienti. La mcrcatanzia , se ella é piccola , è da essere stimata brutta ; ma se ella é gran- de e copiosa, e da molti luoghi arrecante molte cose, e a molti dividentele senza bu- gia , non è da essere vituperata. E se essa, saziata del guadagno, o vero più tosto con- tenta , come spesso dal mare in porto , così


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del porto sì traporterà a’campi , e alle pos- sessioni ; pare che ragionevolmente debba essere lodata.


CAPO XXVI.

Che l' agricoltura in tutte le arti operative è la più laudabile.

Imperocché di tutte le cose, per le quali si guadagna alcuna cosa , nessuna è miglio- re che T agricoltura , e nessuna più abbon- dante , o più dolce , o più degna dell'uomo libero. Della quale assai molte cose ne di- cemmo in Catone maggiore : pigliane quel- le cose ora , le quali s'appartengono a que- sto luogo.

CAPO XXVII.

Della comparazione degli onesti.

Ma come gli uffici sieno menati da quel- le parti , le quali sono della onestà , assai mi pare che si sia sposto. Ma di quelle me- desime cose che sono oneste , può spesse


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volte accadere contenzione, e comparazio- ne di due onesti , quale sia più onesto. 11 quale luogo fu tralasciato da Panezio. Im- perocché , avvegnadiochè 1’ onestà proceda da quattro parti ; delle quali P una sia del- la cognizione, l’altra della compagnia, la terza della magnanimità , e la quarta della moderazione *, necessario è che nello eleg- gere l’ ufficio, noi spesso facciamo compa- razione di queste cose tra loro.

Piaceci adunque, che quegli uffici sieno più atti alla natura i quali vengono dalla compagnia , che quegli che procedono dal- la cognizione. E questo può essere confer- mo con questo argomento: imperocché se ■a un savio addiverrà tale vita, eli’ esso sia ricco , soprahbondandogli tutte le abbon- danze di tutte le cose; benché costui con sommo ozio seco consideri e contempli tut- te le cose , le quali sieno degne di consi- derazione ; nientedimeno se appresso a lui sarà tanta solitudine, ch’esso non possa ve- dere l’uomo, uscirebbe di questa vita. E principale di tutta la virtù è essa sapienza, la quale i Greci chiamano sofìa. E la pru- denza é quella , la quale in greco è della


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Jronesis : ma noi intendiamo altra virtù es- sere questa , la quale è scienza deli’ addo- mandare e del fuggire le cose. Ma quella sapienza la quale io chiamai principale , è scienza di cose divine ed umane ; nella quale si contiene la comunione e le com- pagnia tra loro e degli uomini e degli dei. E se questa è grandissima , come per certo essa è, di necessità è che quello ufficio sia grandissimo , il quale viene da compagnia e comunione. Imperocché e’ si conviene che la cognizione e la contemplazione della na- tura , sia manca e quasi non finita , se e' non seguita alcuno atto delle cose.

Ma quell’ atto massimamente è conosciu- to, nel difendere i commodi degli uomini.. Adunque s’ appartiene alla compagnia della generazione umana. Adunque questa com- pagnia e comunione , è da essere prepo- sta a quella cognizione. E questo ciascuno ottimo , per opera lo dimostra e giudica.; Imperocché chi è tanto cupido in ragguar- dare e conoscere la natura delle cose , che se a lui trattante e contemplante le cose degnissime di considerazione , gli sia offer- to il pericolo e 1’ avversità della patria ,




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alla quale si possa sovvenire e aiutare , es- so non getti via e lasci tutte quelle cose , ancora se esso stimasse potere annoverare le stelle, e misurare la grandezza del mondo? £ questo medesimo farà , in un fatto o pe- ricolo del padre, o dell'amico. Per le qua- li cose s'intende , che agli studi e uffici della scienza , sono da essere preposti gli uffici della giustizia; i quali s’appartengono alla utilità degli uomini : della quale niente debbe all’ uomo essere più caro.

E coloro , de’ quali gli studi e tutta la vita si rivolta nella cognizione delle cose , non si sono partiti dall’ accrescere l’ utilità e i commodi degli uomini. Imperocché essi hanno ammaestrato molti, per la qual cosa essi fussino migliori cittadini , e più utili a’ fatti loro , e della repubblica. Come Li- sia discepolo di Pitagora ammaestrò Epa- minonda : e Platone, Dione da Siracusa; e così molli molti altri. E noi medesimi, se alcuna utilità abbiamo arrecato alla re- pubblica nostra, a quella venimmo ammae- strati e adornati da’ dottori , e dalla dot- trina.

E non solamente costoro , mentre che so-






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no vivi e presenti ammaestrano , e insegna* no agli studiosi dello imparare ; ma questo medesimo essi fanno ancora dopo la morte , co' libri eh' essi hanno lasciati. Imperocché da costoro non è stato lasciato luogo alcu- no addietro , il quale si appartenesse alle leggi > 0 a ’ costumi , o alla disciplina della repubblica: in modo che e' pare, che co- storo abbiano conferito ogni lor ozio alle faccende nostre. Così coloro dati agli stu* di della dottrina e alla sapienza , spezia- lissimamente conferiscono la loro pruden- za e intelligenza , all’utilità degli uomini. E per questa cagione ancora è meglio par- lare copiosamente, purché si faccia con pru- denza, che considerare acutissimamente sen- za eloquenza. Imperocché la considerazio- ne si rinvolta in sé medesima ; ma Telo* quenza abbraccia coloro, co’quali noi siamo congiunti in compagnia.

E come gli sciami delle pecchie , non sì ragunano per cagione di fare i fiedoni; ma, conciosiacosa che da natura sieno congrega- bili , fanno quelli ; così gli uomini , e mol- to più , per natura congregati , aggiungo- no la sollecitudine del fare e del conside-


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rare. Adunque se quella virtù la quale e’ pel difendere degli uomini , cioè per la com- pagnia dell’umana generazione , non piglia la cognizione delle cose ; quella cognizio- ne parrà digiuna , e che sola si svaghi. Ancora la grandezza dell'animo , rimota la compagnia e la congiunzione umana, è una fierezza è disumanità. E così si fa che la compagnia e comunione degli uomini , vin- ca lo studio della cognizione.

E non è vero quello che da alcuni si di- ce , che per le necessità della vita, per- chè noi non potessimo senza gli altri fare e conseguitare quelle cose, le quali lana- tura desiderasse , per questo questa com- pagnia e congiunzione sia tra gli uomini : e che se tutte le cose, le quali s’apparten- gono al vivere e governo nostro, a noi fos- sino amministrate , com’ essi dicono, qua- si da una vergola divina 5 allora ciascuno d’ottimo ingegno, lasciale tutte le faccen- de, darebbe sé tutto alla cognizione e alla scienza. Non è così : imperocché quello ta- le fuggirebbe la solitudine, e cercherebbe il compagno dello studio suo, e vorrebbe ora insegnare , ora imparare , alcuna volta




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(lire. Adunque ogni ufficio che s'appartiene al difendere la congiunzione e compagnia u- mana , debb' essere preposto a quello uffi- cio, il quale si contiene nella scienza e co- gnizione.

Quello ancora forse si dovrebbe sapere , se questa congiunzione, la quale è massima- mente atta alla natura, sia da essere sempre ancora preposta alla moderazione e alla mo- destia. A noi non piace. Imperocché e’ sono . alcune cose , parte sì brutte , e parte sì scellerate , che quelle il savio non dovrà fate , per cagione ancora del conservare la patria. Quelle cose, le quali sono molte, Posidonio le raglino. Ma alcune di queste ' sono sì brutte e sì scellerate , che al dirle ancora paiono brutte. Adunque queste tali cose non piglierà il savio per ragione della repubblica 5 nè la repubblica vorrà che per sè esse sieno prese. Ma il fatto è più com- niodo che questo , che da noi si ragiona : imperocché e’ non può accadere tempo, che alla repubblica s’appartenga, che il savio faccia alcuna di tali cose.

Per la qual cosa questo sia in effetto nel- lo eleggere gli uffici , che questa ragione


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di uffici eccella , la quale è contenuta nella compagnia umana. Imperocché, che l'alto considerato segua la cognizione e la prudeu- za, così si fa che il fare consideratamente di più pregio sia , che il considerare con prudenza. E queste cose basti avere dette insino a qui. Imperocché egli è stato ma- nifestato il luogo, eh' ei non è difficile , nei cercare l'ufficio , vedere quale ufficio sia da essere preposto all'altro. Ma in essa comu- nione sono i gradi degli uffici, pe’ quali si può intendere quale avanzi l’altro : che i primi uffici sono tenuti agl’ iddìi immortali , i secondi alla patria, i terzi a’ padri e alle madri , e dipoi per ordine a tutti gli al- tri. Per le quali cose brevemente disputa- te , può essere inteso, che gli uomini non solamente sogliono dubitare , se la cosa è onesta o brutta ; ma ancora , preposte due cose oneste , quale sia più onesta. Questo luogo, come di sopra è detto, fu lasciato da Panezio. Ma oggimai andiamo alle cose che restano.

Fine del Primo Libro degli Uffici di M. T.

Cicerone a Marco figliuolo.