Storia d'Italia/Libro V/Capitolo VIII
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VIII
Ma a questo fare piú prestamente lo costrinseno nuovi tumulti che sopravennono in Toscana, concitati da Vitellozzo, con saputa di Giampaolo Baglione e degli Orsini e con consiglio e autoritá principalmente di Pandolfo Petrucci, desiderosi tutti che Piero de’ Medici ritornasse nello stato di Firenze. Ebbe la cosa origine in questo modo: che essendo pervenuto a notizia di Guglielmo de’ Pazzi, commissario fiorentino in Arezzo, che alcuni cittadini aretini si erano convenuti con Vitellozzo di fare ribellare a’ fiorentini quella cittá, egli, non credendo che l’animo di tutti fusse corrotto e persuadendosi che la autoritá del nome publico supplisse al mancamento delle forze, non aspettato di fare provisione sufficiente a opprimere i congiurati e chi gli volesse resistere, come in breve spazio di tempo poteva fare, fece subito incarcerare due de’ consapevoli; per il che il popolo sollevato dagli altri congiurati, e per l’ordinario di sinistro animo contro al nome fiorentino, tumultuando ricuperò i due prigioni e fece prigione il commissario e gli altri ufficiali, e gridando per tutto Arezzo il nome della libertá si scoperse in manifesta ribellione; rimanendo sola la cittadella a divozione de’ fiorentini, nella quale, nel principio del tumulto, si era rifuggito Cosimo vescovo di quella cittá, figliuolo del commissario. E dopo questo mandorno subitamente gli aretini a chiamare Vitellozzo, non contento che innanzi al tempo determinato da lui co’ congiurati fusse succeduto questo accidente, perché non aveva ancora in ordine le provisioni disegnate per resistere alle genti de’ fiorentini se, come era verisimile, fussino venute per entrare in Arezzo per la fortezza: per il quale timore, benché subito andasse ad Arezzo con la compagnia sua delle genti d’arme e con molti fanti comandati da Cittá di Castello, e che Giampaolo Baglioni gliene mandasse da Perugia e Pandolfo Petrucci gli porgesse segretamente qualche somma di danari, nondimeno, lasciatevi quelle genti, e dato ordine che attendessino a chiudere sollecitamente la cittadella acciocché di quella non si potesse entrare nella cittá, se ne ritornò a Cittá di Castello, sotto colore di andarvi per ritornare presto in Arezzo con maggiore provisione. Ma in Firenze, per quegli a’ quali apparteneva il fare deliberazione per provedervi, non fu da principio considerato sufficientemente quanto importasse questo accidente. Perché avendo i cittadini principali, col consiglio de’ quali solevano deliberarsi le cose importanti della republica, consigliato che subito le genti che erano a campo a Vico Pisano, in tal numero che movendosi con celeritá non arebbeno avuto resistenza potente, si voltassino ad Arezzo, molti imperiti che risedevano ne’ maggiori magistrati, vociferando questo essere caso leggiero e da potersi medicare con le forze degli altri sudditi vicini a quella cittá ma dimostrarsi il pericolo molto maggiore da coloro i quali, d’animo alieno dal presente governo, desideravano che Vico Pisano non si pigliasse, acciocché non si potesse quell’anno attendere alla ricuperazione di Pisa, differirono tanto il muovere delle genti che Vitellozzo, ripreso animo dalla loro tarditá e giá accresciuto di forze, ritornò in Arezzo; ove dopo lui andorno con altre genti Giampagolo Baglione e Fabio figliuolo di Pagolo Orsini, e il cardinale e Piero de’ Medici. E avuto da Siena munizione per l’artiglieria cominciorno a battere la cittadella, nella quale, secondo l’uso di molti, piú solleciti a edificare nuove fortezze che diligenti a conservare le edificate, era mancamento di vettovaglie e dell’altre cose necessarie a difenderla; e oltre a questo la serrorono con fossi e argini dal lato di fuora, per proibire che non vi entrasse soccorso: in modo che quegli di dentro, mancando loro le cose necessarie, e sapendo che le genti de’ fiorentini guidate da Ercole Bentivogli, venute finalmente a Quarata castello vicino ad Arezzo, non ardivano farsi piú innanzi, disperati di avere soccorso, per necessitá si arrenderono, il quartodecimo dí dal dí della ribellione con patto che, salvi gli altri, il vescovo con otto eletti dagli aretini rimanessino prigioni, per permutargli con alcuni de’ loro cittadini che erano stati incarcerati in Firenze. Disfeciono gli aretini popolarmente la cittadella; e le genti fiorentine, temendo che Vitellozzo e Giampagolo, giá piú potenti di loro, non andassino ad assaltargli, si ritirorono a Montevarchi, lasciata facoltá agli inimici di pigliare tutte le terre circostanti. Credesi che questo assalto fusse fatto senza partecipazione del pontefice e del Valentino, a’ quali sarebbe stato molesto il ritorno di Piero de’ Medici in Firenze per la congiunzione sua con Vitellozzo e con gli Orsini, i quali aveano giá nell’animo, ma occultamente, di opprimere; e nondimeno, avendo sempre dato loro speranza del contrario, consentirono che Vitellozzo, Giampagolo e Fabio, soldati suoi, proseguissino questa impresa: anzi non dissimulorono poi d’avere ricevuto della ribellione di Arezzo sommo piacere, sperando dalle molestie de’ fiorentini potere facilmente succedere o che essi acquistassino qualche parte del dominio loro o costrignerli in beneficio proprio a qualche dura condizione. Ma a’ fiorentini era difficile credere che essi non ne fussino stati autori; e però, spaventati tanto piú e confidando poco ne’ rimedi che potessino fare da se medesimi, perché avevano per la mala disposizione della cittá poco numero di genti d’arme a’ soldi loro, né era possibile provedersene tanto presto quanto sarebbe in pericolo cosí subito stato necessario, ricorsono con estrema diligenza agli aiuti del re di Francia, ricordandogli non solo quello che apparteneva all’onore suo, per essere egli obligatosi sí frescamente alla loro protezione, ma eziandio il pericolo imminente al ducato di Milano se il pontefice e il Valentino, per opera de’ quali non era dubbio essere stato fatto questo movimento, riducessino in loro arbitrio le cose di Toscana. Trovarsi molto potenti in su l’armi e con esercito fiorito di capitani e di soldati eletti, e giá apparire manifestamente che a saziare la loro infinita ambizione non era bastante né la Romagna né la Toscana ma essersi proposti fini vasti e smisurati; e poi che avevano offeso l’onore del re, assaltando quegli che erano sotto la sua protezione, costrignerli ora la necessitá a pensare non meno alla sicurtá propria e a tôrre a lui la facoltá di vendicarsi di tanta ingiuria.
Commossono molto il re queste ragioni, giá prima cominciato a infastidire della insolenza e ambizione del pontefice e del figliuolo; e, considerando essere cominciata nel regno di Napoli la guerra tra lui e i re di Spagna, interrotta la concordia trattata con Massimiliano, né potersi per molte cagioni confidare de’ viniziani, cominciò a dubitare che lo insulto di Toscana non avesse, con occulto consiglio d’altri contro a sé, fini maggiori: nella quale dubitazione lo confermorono molto le lettere di Carlo di Ambuosa signore di Ciamonte, nipote del cardinale di Roano e luogotenente suo in tutto il ducato di Milano, il quale insospettito di questa novitá lo confortava che al pericolo proprio sollecitamente provedesse. Però, deliberato di accelerare il passare in Italia e di non interporre tempo alcuno a sostenere le cose de’ fiorentini, commesse al medesimo monsignore di Ciamonte che subito mandasse quattrocento lancie in soccorso loro: e mandò subito in poste Normandia suo araldo a comandare non solamente a Vitellozzo a Giampagolo a Pandolfo e agli Orsini ma similmente al duca Valentino, che desistessino dalle offese de’ fiorentini, e del medesimo fece egli stesso grande instanza con l’oratore del pontefice, e minacciò con parole molto ingiuriose Giuliano de’ Medici e gli agenti per Pandolfo e per Vitellozzo che erano nella sua corte.