Storia d'Italia/Libro VIII/Capitolo XIII
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XIII
Nel quale stato delle cose, variazione degli animi de’ príncipi, piccola potenza e riputazione del re de’ romani, i viniziani mandorono l’esercito, nel quale era proveditore Andrea Gritti, a Vicenza, ove sapevano il popolo desiderare di ritornare sotto l’imperio loro; e accostativisi che era giá notte, battuto con l’artiglierie il sobborgo della Posterla, l’ottennono. E nondimeno, benché nella cittá fussino pochi soldati, non confidavano molto di espugnarla; ma gli uomini della terra confortati (come fu fama) da Fracasso, mandati loro a mezzanotte imbasciadori, gli messono dentro, ritirandosi il principe di Analt e il Fracasso nella fortezza: e fu costante opinione che se, ottenuta Vicenza, si fusse senza differire accostato l’esercito veneto a Verona arebbe Verona fatto il medesimo, ma non parve a’ capitani dovere partire da Vicenza se prima non acquistavano la fortezza. La quale benché il quarto dí venisse in potestá loro (perché il principe di Anault e Fracassa, per la debolezza sua, l’abbandonorono) entrò in questo tempo in Verona nuova gente di Cesare, e sotto Obigní trecento lancie del re di Francia; di maniera che, essendovi circa cinquecento lancie e cinquemila fanti tra spagnuoli e tedeschi, non era piú facile l’occuparla. Accostossi dipoi l’esercito veneto a Verona diviso in due parti, in ciascuna delle quali erano trecento uomini d’arme cinquecento cavalli leggieri e tremila fanti, sperando che come si fussino accostati si facesse movimento nella cittá: ma non si essendo presentati alle mura in uno tempo medesimo, quegli che erano nella terra fattisi incontro alla prima parte, che veniva di lá dal fiume dell’Adice e giá era entrata nel borgo, la costrinsono a ritirarsi; e sopravenendo poco di poi Lucio Malvezzo, dall’altra ripa del fiume coll’altra parte, si ritirò medesimamente; e amendue congiunte insieme si fermorno alla villa di San Martino, distante da Verona cinque miglia. Nel qual luogo mentre stavano, avendo inteso che duemila fanti tedeschi, partiti da Basciano erano andati a predare a Cittadella, mossisi a quella parte gli rinchiusono in Vallefidata; ma i tedeschi, avendo ricevuto soccorso da Basciano, uscirono per forza, benché non senza danno, de’ passi stretti e avendo abbandonato Basciano l’occuporono i viniziani. Da Basciano andò una parte dell’esercito a Feltro e Civitale e, dopo avere ricuperate quelle terre, alla rocca della Scala, la quale spugnò, avendovi prima piantate l’artiglierie; e nel tempo medesimo Antonio e Ieronimo da Savorniano, gentiluomini, che nel Friuli seguitavano le parti viniziane, presono Castelnuovo posto in su uno monte aspro in mezzo della Patria (cosí chiamano il Friuli), di lá dal fiume del Tigliavento: non si intendendo di Cesare, il quale commosso dal caso di Vicenza era venuto subitamente alla Pietra, altro che romori vari, e spesso muoversi con celeritá, ma senza effetto alcuno, da uno luogo a un altro.
Andò dipoi l’esercito de’ viniziani verso Monselice e Montagnana, per recuperare il Pulesine di Rovigo e per entrare nel ferrarese, insieme coll’armata, la quale il senato, disprezzato il consiglio de’ senatori piú prudenti, che giudicavano essere cosa temeraria lo implicarsi in nuove imprese, aveva deliberato mandare potente per il fiume del Po contro al duca di Ferrara: mossi non tanto dalla utilitá delle cose presenti quanto dallo sdegno che incredibile aveano conceputo contro a lui; parendo loro che di quel che aveva fatto per liberarsi dal giogo del bisdomino e per ricuperare il Pulesine non dovere giustamente lamentarsi, ma non potendo giá tollerare che, non contento di quel che pretendeva appartenersegli di ragione, avesse, quando Cesare si levò con l’esercito da Padova, ricevuto da lui in feudo il castello di Esti, donde è l’antica origine e il cognome della famiglia da Esti, e in pegno, per sicurtá di danari prestati, il castello di Montagnana, ne’ quali due luoghi non pretendeva ragione alcuna. Aggiugnevasi la memoria che le sue genti, nella recuperazione del Pulesine, concitate da odio estremo contro al nome viniziano, avevano danneggiato eccessivamente i beni de’ gentiluomini, incrudelendo eziandio contro agli edifici con incendi e con ruine. Però fu determinato che l’armata loro guidata da Angelo Trevisano, e nella quale furono diciassette galee sottili con numero grandissimo di legni minori, e bene provista d’uomini atti alla guerra, andasse verso Ferrara: la quale armata, entrata nel Po per la bocca delle Fornaci e abbruciata Corbola e altre ville vicine al Po, andò predando tutto il paese insino al Lagoscuro: dal quale luogo i cavalli leggieri che per terra l’accompagnavano scorseno per insino a Ficheruolo, palazzo piú presto che fortezza, famoso per la lunga oppugnazione di Ruberto da San Severino capitano de’ viniziani, nella guerra contro a Ercole padre di Alfonso.
La venuta di questa armata, e la fama d’avere a venire l’esercito di terra, spaventò molto il duca di Ferrara; il quale trovandosi con pochissimi soldati, né essendo il popolo di Ferrara, o per il numero o per la perizia della guerra, bastante a opporsi a tanto pericolo, non aveva, insino a tanto gli sopravenissino gli aiuti che sperava dal pontefice e dal re di Francia, altra difesa che impedire, con frequentissimi colpi d’artiglierie piantate in sulla ripa del Po, che gli inimici non passassino piú innanzi. Perciò il Trivisano, avendo tentato invano di passare e conoscendo non potere fare senza gli aiuti di terra maggiore progresso, fermò l’armata in mezzo al fiume del Po dietro a una isoletta che è di riscontro alla Pulisella, luogo distante da Ferrara per [undici] miglia e molto opportuno a travagliarla e tormentarla, con intenzione di aspettare quivi l’esercito; al quale si era arrenduto senza difficoltá tutto il Pulesine, recuperata prima Montagnana per accordo, per il quale furono concessi loro prigioni gli ufficiali ferraresi e i capitani de’ fanti che vi erano dentro. Insino all’arrivare del quale, perché l’armata stesse piú sicura, cominciò il Trivisano a fabricare due bastioni con grandissima celeritá in sulla riva del Po, l’uno dalla parte di Ferrara l’altro in sulla ripa opposita; gittando similmente uno ponte in sulle navi per il quale si potesse dall’armata soccorrere il bastione che si fabricava verso Ferrara. La perfezione del quale per impedire, il duca, ma con consiglio forse piú animoso che prudente, raccolti quanto piú giovani potette della cittá e i soldati che continuamente concorrevano agli stipendi suoi, mandò all’improviso ad assaltarlo; ma quegli che erano nel bastione, soccorsi dalla armata, usciti fuora a combattere, gli cominciorno a mettere in fuga; e benché il duca, sopravenendo con molti cavalli, rendesse animo e rimettesse in ordine la gente sua, imperita la piú parte e disordinata, nondimeno fu tale l’impeto degli inimici, per i quali combatteva la sicurtá del luogo e molte artiglierie piccole, che finalmente fu costretto a ritirarsi, restando o morti o presi molti de’ suoi, né tanto della turba imperita e ignobile quanto de’ soldati piú feroci e della nobiltá ferrarese; tra i quali Ercole Cantelmo, giovane di somma espettazione, i maggiori del quale aveano giá dominato nel reame di Napoli il ducato di Sora: il quale condotto prigione in su una galea, e venuti in quistione gli schiavoni di cui di loro dovesse essere prigione, gli fu da uno di essi, con inaudito esempio di barbara crudeltá, miserabilmente troncata la testa. Per le quali cose parendo a ciascuno che la cittá di Ferrara non fusse senza pericolo, Ciamonte vi mandò in soccorso Ciattiglione con cento cinquanta lancie franzesi; e il pontefice, sdegnatosi che i viniziani l’avessino assaltata senza rispetto della superioritá che vi ha la Chiesa, ordinò che i suoi dugento uomini d’arme che erano in aiuto di Cesare si volgessino alla difesa di Ferrara: ma sarebbono state per avventura tarde queste provisioni se i viniziani non fussino stati costretti di pensare alla difesa delle cose proprie.