Storia d'Italia/Libro XII/Capitolo VI

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Capitolo VI

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VI

Persistenza dell’avversione degli svizzeri al re di Francia e sospetti del re verso il pontefice. Sdegno del re d’Inghilterra contro il re d’Aragona per la convenzione conclusa col re di Francia. Pace fra il re d’Inghilterra e il re di Francia. Convenzione del pontefice con Massimiliano Cesare e col re d’Aragona; altra convenzione col re di Francia.

Cosí procedendo le guerre di Italia lentamente, non si intermettevano le pratiche della pace e degli accordi. Perché il re, non privato al tutto di speranza che i svizzeri consentissino di ricevere ricompenso di danari in cambio della cessione delle ragioni, sollecitava appresso a loro questo effetto con molta instanza; dal quale era la moltitudine tanto aliena che, avendo, quando fuggirono gli statichi, costretto con minaccie il governatore di Ginevra a dare loro prigione il presidente di Granopoli, mandato dal re in quella cittá per trattare con loro, lo esaminavano con molti tormenti per intendere se alcuno della loro nazione ricevesse piú pensione o avesse intelligenza occulta col re di Francia: non bastando né umanitá né giustificazione alcuna a reprimere la loro barbara crudeltá. Né era senza sospetto il re che anche il pontefice, che per la diversitá de’ fini suoi era costretto navigare con grandissima circospezione fra tanti scogli, non procurasse secretamente che i svizzeri non convenissino seco senza intervento suo, non per incitargli a rompere la guerra, che da questo continuamente gli sconfortava, ma perché o restassino fermi nello accordo di Digiuno, o per paura che con questo principio non si separassino da lui. Però minacciava di precipitarsi all’accordo con gli altri, per non volere restare piú solo alle percosse di tutto il mondo: stracco ancora dalle spese eccessive e dalle insolenze de’ soldati; perché avendo condotti in Francia ventimila fanti tedeschi, né potuto avergli tutti se non quando il re d’Inghilterra era a campo a Tornai, aveva, per avergli a tempo se venisse nuovo bisogno, ritenutogli in Francia; i quali [p. 322 modifica]facevano infiniti danni per il paese. E si doleva il re che il papa non lo volesse in Italia, e che gli altri príncipi non lo volessino in Francia.

In queste difficoltá e in tanta perplessitá delle cose, cominciò ad aprirgli la via alla sua sicurtá e alla speranza di ritornare nella pristina potenza e riputazione la indegnazione incredibile che ricevette il re di Inghilterra della tregua rinnovata dal suocero, contro a quello che molte volte gli aveva promesso, di non fare piú senza suo consentimento convenzione alcuna col re di Francia; della quale ingiuria lamentandosi publicamente, e affermando essere stato ingannato dal suocero tre volte, si alienava ogni dí piú da’ pensieri di rinnovare la guerra contro a franzesi. La quale cosa pervenuta a notizia del pontefice, mosso o dal sospetto che il re di Francia, in caso fusse molestato da lui, non facesse la pace e il parentado (come continuamente minacciava) con gli altri due re, o perché, pensando che a ogni modo avesse a succedere la pace tra loro, desiderasse con lo interporsene acquistare qualche grado col re di Francia, di quello che non era in potestá sua di proibire, cominciò a confortare il cardinale eboracense che persuadesse al suo re che, contento della gloria guadagnata, e avendo in memoria che corrispondenza di fede avesse trovata in Cesare, nel re cattolico e ne’ svizzeri, non travagliasse piú con l’armi il reame di Francia. Certo è che, essendo dimostrato al pontefice che come il re di Francia si fusse assicurato della guerra di Inghilterra moverebbe le armi contro al ducato di Milano, rispondeva: conoscere questo pericolo, ma aversi anche a considerare il pericolo che partorirebbe da ogni banda; ed essere, in materie sí gravi, troppo difficile il bilanciare le cose sí perfettamente e trovare consiglio che fusse totalmente netto da questi pericoli: restare in ogni evento allo stato di Milano la difesa de’ svizzeri, ed essere necessario, in deliberazioni tanto incerte e tanto difficili, rimetterne una parte all’arbitrio del caso e della fortuna.

Come si sia, cominciò presto, o per l’autoritá del pontefice o per inclinazione propria delle parti, a nascere pratica [p. 323 modifica]d’accordo tra il re di Francia e il re di Inghilterra; i ragionamenti della quale, cominciati dal pontefice con Eboracense, furono trasferiti presto in Inghilterra, dove per questa cagione fu mandato dal re di Francia il generale di Normandia, ma sotto colore di trattare della liberazione del marchese di Rotellino: allo arrivare del quale fu publicata sospensione delle armi, per terra solamente, tra l’uno e l’altro re, per tutto il tempo che il generale stesse nell’isola. Accrescevasi, per nuove ingiurie, la inclinazione del re di Inghilterra alla pace: perché Cesare, che gli aveva promesso di non ratificare senza lui la tregua fatta dal re cattolico, mandò a quel re lo instrumento della ratificazione; il quale, per una lettera sua al re di Francia, ratificò in nome di Cesare, ritenendosi lo instrumento per potere usare le simulazioni e arti sue. Cominciata la pratica tra i due re, il pontefice, desideroso di farsi grato a ciascuno di loro, mandò in poste al re di Francia il vescovo di Tricarico a offerire tutta l’autoritá e opera sua; il quale passò con suo consentimento in Inghilterra per l’effetto medesimo. Dimostroronsi in questa cosa da principio molte difficoltá, perché il re di Inghilterra dimandava che gli fusse dato Bologna di Piccardia e quantitá grande di danari: finalmente, riducendosi la differenza in su le cose di Tornai, perché il re d’Inghilterra instava di ritenerlo e dal canto del re di Francia se ne mostrava qualche difficoltá, mandò quel re il vescovo di Tricarico in poste al re di Francia; al quale, non essendo notificato in che particolare consistesse la difficoltá, fu data commissione che in suo nome lo confortasse che, per rispetto di tanto bene, non insistesse cosí sottilmente nelle cose: sopra che il re di Francia, non volendo avere carico co’ popoli suoi, per essere Tornai terra nobile e di fede molto nota verso la corona di Francia, propose la cosa nel consiglio, nel quale intervenneno tutti i principali della corte. Fu unitamente confortato ad abbracciare, eziandio con questa condizione, la pace: nonostante che in questi tempi il re cattolico, cercando con ogni industria di interromperla, proponesse al re di Francia molti partiti, e specialmente di dargli favore allo acquisto dello stato di [p. 324 modifica]Milano. Però, come in Inghilterra fu arrivata la risposta che il re era contento delle cose di Tornai, fu, al principio di agosto, conchiusa la pace tra i due re, durante la vita loro e uno anno dopo la morte; con condizione che Tornai restasse al re d’Inghilterra, al quale il re di Francia pagasse secentomila scudi, distribuendo il pagamento in centomila franchi per anno; fussino tenuti alla difesa degli stati l’uno dell’altro, con diecimila fanti se la guerra fusse mossa per terra, con seimila solo se per mare; che il re di Francia fusse obligato a servire il re d’Inghilterra, in ogni suo affare, di mille dugento lancie, e quel re fusse tenuto a servire lui di diecimila fanti, ma in questo caso a spese di chi ne avesse di bisogno. Furono nominati dall’uno e l’altro di loro il re di Scozia, l’arciduca e lo imperio, ma non fu nominato né Cesare né il re cattolico; nominati i svizzeri, ma con patto che qualunque difendesse contro al re di Francia lo stato di Milano o Genova o Asti fusse escluso dalla nominazione. La quale pace, fatta con grandissima prontezza, fu corroborata con parentado; perché il re d’Inghilterra concesse la sorella sua per moglie al re di Francia, con condizione riconoscesse d’avere ricevuto per la sua dote quattrocentomila scudi. Celebrossi subito lo sposalizio in Inghilterra, al quale il re non volle, per l’odio grande che aveva al re cattolico, che l’oratore suo vi intervenisse. Né era appena conchiusa questa pace che alla corte di Francia arrivò lo instrumento della ratificazione fatta da Cesare della tregua, e il mandato suo e del re cattolico per la conclusione del parentado che si trattava tra Ferdinando d’Austria e la figliuola seconda del re, che era ancora in etá di quattro anni: la quale pratica, per la conclusione della pace, fu in tutto esclusa; e il re ancora, per sodisfare al re di Inghilterra, volle partisse del regno di Francia il duca di Suffolch, che era capitano generale de’ fanti tedeschi condotti da lui; e nondimeno, onorato e carezzato dal re, partí bene contento.

Nel quale tempo aveva anche il pontefice fatte nuove congiunzioni; perché, pieno di artifici e di simulazioni, voleva da uno canto che il re di Francia non recuperasse lo stato di [p. 325 modifica]Milano, da altro intrattenere lui e gli altri príncipi quanto poteva con varie arti. Però, per mezzo del cardinale San Severino, che nella corte di Roma trattava le cose del re di Francia, aveva proposto al re che, poi che i tempi non pativano che tra loro si facesse maggiore e piú palese congiunzione, che almanco si facesse uno principio e uno fondamento in sul quale si potesse sperare aversi a fare altra volta strettissima intelligenza; e aveva mandato la minuta de’ capitoli: alla quale pratica il re di Francia, ancorché dimostrasse gli fusse grata, non avendo fatto risposta sí presto, ché tardò quindici dí a risolversi, o per altre occupazioni o perché aspettasse d’altro luogo qualche risposta per governarsi secondo i progressi delle cose, il pontefice fece nuova capitolazione con Cesare e col re cattolico per uno anno, nella quale non si conteneva però altro che la difesa degli stati comuni: avendo prima il re cattolico non vanamente sospettato che egli aspirasse al regno di Napoli per Giuliano suo fratello, sopra che aveva giá avuto qualche pratica co’ viniziani. Né l’aveva ancora quasi conchiusa che sopravenne la risposta del re di Francia, per la quale approvava tutto quello che aveva proposto il pontefice; aggiugnendovi solamente che, poi che egli si aveva a obligare alla protezione de’ fiorentini, di Giuliano suo fratello e di Lorenzo de’ Medici suo nipote, il quale il papa aveva preposto alla amministrazione delle cose di Firenze, voleva che anche essi reciprocamente si obligassino alla difesa sua: la quale ricevuta, il pontefice si scusò essersi ristretto con Cesare e col re cattolico, perché, vedendo differirsi tanto a rispondere a una dimanda tanto conveniente, non aveva potuto fare non entrasse in qualche dubitazione; e nondimeno averla fatta per breve tempo, né contenersi in quella cose pregiudiziali a lui né impedirgli la perfezione della pratica cominciata tra loro. Le quali giustificazioni accettate dal re, fermorono insieme la convenzione non per instrumento, per maggiore secreto, ma per cedola sottoscritta di mano di ciascuno di loro.