Storia d'Italia/Libro XIX/Capitolo V

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Libro diciannovesimo
Capitolo quinto

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V

Accordi fra i comandanti dei francesi e dei veneziani in Lombardia. Forze e movimenti degli eserciti avversari. Perdita di Genova da parte dei francesi. Presa e sacco di Pavia da parte dei collegati.

Non erano in questo mezzo state le cose di Lombardia senza travaglio: perché San Polo, raccolte le genti e la provisione delle vettovaglie, prese di lá dal Po alcune terre e castella occupate prima da Antonio da Leva, che a’ tre di [p. 231 modifica]agosto era alla Torretta attendendo a condurre piú vettovaglie poteva in Milano, dove non era piú persona di conto, e in tutto lo stato erano sí strette le ricolte che non vi era da vivere per otto mesi solamente per gli uomini del paese; dipoi si ritirò a Marignano, non potendo anche, per mancamento di denari, soprastare molto in quel luogo. Al quale tempo, il duca d’Urbino era ancora a Brescia e San Polo a Castelnuovo di Tortona: donde venuto a Piacenza si abboccorono, agli undici dí, a Monticelli in sul Po, dove si conchiuse che gli eserciti si unissino intorno a Lodi. Passò poi San Polo il Po presso a Cremona, essendogli comportato tacitamente a Piacenza che avesse barche per fare il ponte; e però Antonio de Leva, che aveva il ponte a Casciano e a sua divozione Caravaggio e Trevi, levò il ponte e abbandonò i luoghi di Ghiaradadda, come prima anche aveva abbandonata Novara; ma in Pavia aveva messi settecento fanti e in Santo Angelo cinquecento. Fu anche deliberato che il Vistarino con seicento fanti andasse alla impresa di Casé, in su la riva del Po dicontro a Tortona, perché impediva assai le vettovaglie.

Aveva San Polo quattrocento lance cinquecento cavalli leggieri mille cinquecento fanti tedeschi a pagamento, ma in numero, per la negligenza di San Polo e per la fraude de’ ministri suoi, molto minore; per i quali, e per gli altri tedeschi e svizzeri che si aspettavano, avevano convenuto i viniziani di pagare ciascuno mese a San Polo dodicimila ducati; e in campo trecento svizzeri, pagati a Ivrea per novecento, e tremila fanti franzesi. Avevano i viniziani trecento uomini d’arme mille cavalli leggieri e seimila fanti, e il duca di Milano piú di duemila fanti eletti; il Leva quattromila tedeschi mille spagnuoli tremila italiani e trecento cavalli leggieri. Passorono le genti de’ collegati Adda (avendo, secondo scrive l’oratore fiorentino, avuto, se il duca di Urbino avesse voluto, grande occasione di rompere Antonio de Leva), e si unirono a’ ventidue di agosto; stando ancora fermo Antonio de Leva a Marignano. Da quello alloggiamento mandò il duca di Urbino a Santo Angelo tremila fanti e trecento cavalli leggieri con sei [p. 232 modifica]cannoni, sotto Giovanni di Naldo, che nello accamparsi fu morto da una artiglieria: però vi andò egli in persona, e l’ottenne. Alloggiorono il vigesimo quinto dí di agosto a San Zenone, in sul fiume del Lambro, propinquo a due miglia e mezzo a Marignano. A’ ventisette le genti de’ collegati, passato Lambro, si accostorono a Marignano; i quali accostandosi, gli spagnuoli si ritrassono in Marignano a uno riparo vecchio; e dopo scaramuccia di piú ore uscirono al largo, e si credette volessino combattere; e tirato per una ora da ogni banda, approssimandosi giá la notte, si ritirorno in Marignano e Riozzo, e in su lo alloggiare il campo l’assaltorono bravamente. E a’ ventiotto si ritirò Antonio de Leva con tutta la gente a Milano, i collegati a Landriano. Consultossi dipoi se fusse da tentare di sforzare Milano: il che mentre si praticava, andò lo esercito a Loccá con disegno di entrare in Milano per furto; che fu interrotto da una pioggia grossa che impedí, per la trista via, andare a porta Vercellina dove si aveva a entrare. Però, esclusi da questo disegno, ed essendo riferito, da chi fu mandato a riconoscere Milano, non essere riuscibile quella impresa, si deliberò di andare, per il cammino di Biagrassa, che altro non si poteva fare, a campo Pavia; sperando pigliarla facilmente, perché non vi erano piú di dugento fanti tedeschi e ottocento italiani. Cosí andando a quella volta, spinti certi fanti di lá dal Tesino, fu preso Vigevano; e a’ nove dí di settembre era San Polo a Santo Alesso, a tre miglia di Pavia: dove accostatisi l’uno e l’altro esercito, sopravenne avviso che gli messe in maggiore disputazione.

Perché, essendo in Genova la peste grandissima e per questo abbandonata quasi da ciascuno, eziandio quasi da tutti i soldati, e per il medesimo pericolo Teodoro governatore ritiratosi in castello, Andrea Doria, presa questa occasione, si approssimò alla cittá con alcune galee ma, non avendo piú che cinquecento fanti, con poca speranza di sforzarla. Ma l’armata franzese che era nel porto, temendo non gli fusse chiuso il cammino di andarsene in Francia, senza avere cura alcuna di Genova, si partí verso Savona; dove la prima che arrivasse [p. 233 modifica]fu la galea di Barbigios: benché alcuni dichino che Andrea Doria l’assaltò e prese sei galee, l’altre fuggirono. Donde essendo nella cittá pochi soldati, se bene Teodoro fusse tornato ad abitare nel palazzo, e il popolo, per la ingiuria della libertá data a Savona, inimico al nome di Francia, il Doria, avuta poca resistenza, vi entrò dentro. Fu cagione di tanta perdita la negligenza e il troppo promettersi del re, perché non pensando che le cose sue nel regno di Napoli cadessino sí presto, e persuadendosi che, in ogni caso, la ritirata dell’armata a Genova e la vicinitá di San Polo bastassino a salvarla, pretermesse di farvi le provisioni necessarie. E Teodoro, ritirato nel castello, dimandava soccorso a San Polo, dando speranza di ricuperare la terra se gli fussino mandati subito tremila fanti. Sopra che consultandosi tra i capitani de’ collegati, i franzesi erano disposti a andarvi subito con tutto il campo; e il duca d’Urbino mostrava che il provedere le barche per fare uno ponte in su Po, e il provedere le vettovaglie, era cosa piú lunga che non ricercava il bisogno presente: però, secondo il suo consiglio, si risolvé che Montigian voltasse, da Alessandria dove erano arrivati, a Genova tremila fanti tedeschi e svizzeri, i quali venivano all’esercito di San Polo; e quando pure non volessino andare gli conducesse in campo, e in cambio loro vi si mandassino tremila altri fanti; che intratanto si attendesse a strignere Pavia. E i viniziani davano intenzione, eziandio in caso non si pigliasse, soccorrere Genova con tutte le genti, purché restassino assicurati delle cose da quella banda.

Continuossi adunque la oppugnazione di Pavia: per la quale, a’ quattordici, erano stati piantati in su il Tesino, di qua, al piano della banda di sotto, nove cannoni a uno bastione appiccato con l’arzaná, che in poche ore lo rovinorono quasi mezzo; e di lá dal Tesino tre cannoni, per battere, quando si desse lo assalto, uno fianco che risponde all’arzaná; e in su uno colle di qua dal Tesino cinque cannoni che battevano due altri bastioni, e al finire del colle tre altri che tiravano alla muraglia: tutta artiglieria de’ viniziani. Poi l’artiglieria di San Polo che levava le difese. E il dí seguente, Annibale [p. 234 modifica]castellano di Cremona si era condotto con una trincea in su il fosso del bastione del canto dell’arzaná, che era giá giú piú che i due terzi; in modo che quegli dentro l’avevano quasi abbandonato: il quale dí fu morto da una artiglieria Malatesta da Sogliano condottiere de’ viniziani. Cosí, continuato a battere tutto [il] dí e la notte seguente, si preparò l’esercito per dare la battaglia, essendo da ogni banda de’ tre bastioni gittata muraglia assai; ma volendo la mattina cavare l’acqua de’ fossi, vi trovorono uno muro sí gagliardo che vi consumorono tutto il dí ed eziandio il dí seguente, tanto che l’assalto si prolungò insino a’ dí diciannove, essendo levata quasi tutta l’acqua. Nel quale dí, essendo al principio della mattina stato preso il bastione del canto, si cominciò a dare l’assalto; del quale, essendo divisa la gente in tre parti, toccava il primo assalto a Antonio da Castello con le genti de’ viniziani, il secondo a Lorges con quelle di San Polo, l’ultimo al castellano con le genti di Milano, che (secondo il Cappella) erano mille dugento fanti; e il duca d’Urbino si messe a piede con dugento uomini d’arme e affrontò i bastioni, che si difeseno piú di due ore. Scrive il Cappella che dentro non erano piú che dugento tedeschi e ottocento italiani, che benché si portassino egregiamente, pure, per il poco numero, si difendevano con difficoltá. Ma il Martello scrive che dentro erano prima dumila fanti, e che di piú, a’ diciotto, all’apparita del dí, vi entrorono cinquecento archibusieri eletti, in modo che fu difesa bravamente; ma l’artiglieria piantata di lá dal Tesino strisciava tutti i loro ripari. E scrive il Cappella che e’ fu ferito in una coscia, d’uno scoppio, Pietro da Birago che morí fra pochi dí, che non volle essere levato di terra acciò che i suoi non abbandonassino la battaglia; e fu ferito anche di scoppio Pietro Botticella, che si partí dalla battaglia: capitani tutt’e due del duca di Milano. Finalmente, a ore ventidue, si entrò dentro con poco danno, e con laude grande (secondo il Martello) del duca d’Urbino; e il Cappella scrive, con laude grande del Pizinardo. E scrive il Martello che di quegli di dentro furono ammazzati da seicento in ottocento, tra’ quali quasi tutti i tedeschi (che [p. 235 modifica]erano quattrocento) che erano stati messi dagli spagnuoli alle difese; e che, innanzi si entrasse, mille fanti tra spagnuoli e italiani, usciti per la porta del castello, furno rotti da’ cavalli. Ma cominciato a entrare dentro l’esercito, Galeazzo da Birago con molti soldati e uomini della terra si ritirò in castello. La cittá tutta andò a sacco, poco utile per i due sacchi precedenti. Il castello si accettò a patti, perché era necessario batterlo e in campo non era munizione, e i fossi larghissimi e profondissimi da non si riempiere sí presto, e dentro rifuggitivi cinquecento uomini di guerra. I patti furono che gli spagnuoli (che secondo il Martello in Pavia furno seicento), con l’artiglierie e munizioni che e’ potessino tirare a braccia e ogni loro arnese, avessino facoltá, insieme co’ tedeschi che erano restati pochissimi, di andarsene a Milano; e gl’italiani, in ogni luogo fuora che Milano.