Storia d'Italia/Libro XIX/Capitolo XII
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Capitolo dodicesimo
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XII
Le quali cose mentre che si trattavano, Antonio de Leva aveva ricuperato Biagrassa; e il duca di Urbino, standosi nello alloggiamento di Casciano e attendendo con numero incredibile di guastatori a fortificarlo, consigliava si tenesse Pavia e Santo Angelo, allegando l’alloggiamento di Casciano essere opportuno a soccorrere Lodi e Pavia. Andò dipoi Antonio de Leva a Enzago, a tre miglia di Casciano, donde continuamente scaramucciava con le genti viniziane; e ultimatamente, da Enzago a Vauri, o per correre nel bergamasco o per essergli state rotte l’acque da’ viniziani. Entrò il Vistarino in questo tempo in Valenza, per il castello, e roppe dugento fanti che vi erano; il marchese di Mantova era ritornato alla devozione imperiale; e giá erano arrivati, di luglio, per mare, a Genova dumila fanti spagnuoli per aspettare la venuta di Cesare.
Ma Cesare, subito che ebbe fatto l’accordo col pontefice, commesse al principe di Oranges che, a requisizione del pontefice, assaltasse con l’esercito lo stato de’ fiorentini: il quale, venuto all’Aquila, raccoglieva a’ confini del regno le genti sue. Ricercollo instantemente il pontefice che passasse innanzi; perciò il principe, senza le genti, l’ultimo dí di luglio, andò a Roma per stabilire seco le provisioni. A Roma, dopo varie pratiche, le quali talvolta furno vicine alla rottura per le difficoltá che faceva il papa allo spendere, composeno finalmente che il pontefice gli desse di presente trentamila ducati, e in breve tempo quarantamila altri; perché egli, a sue spese, riducesse prima Perugia, cacciatone Malatesta Baglione, a ubbidienza della Chiesa, dipoi assaltasse i fiorentini per restituire in quella cittá la famiglia de’ Medici; cosa che il pontefice reputava facilissima, persuadendosi che, abbandonati da ciascuno, avessino, secondo la consuetudine de’ suoi maggiori, piú presto a cedere che a mettere la patria in sommo e manifestissimo pericolo. Però raccolse il principe le sue genti, le quali erano tremila fanti tedeschi, ultime reliquie di quegli che erano, e di Spagna col viceré e di Germania con Giorgio Fronspergh, passati in Italia, e [quattro]mila fanti italiani non pagati, sotto diversi colonnelli, Pieroluigi da Farnese, il conte di San Secondo e il colonnello di Marzio e Sciarra Colonna; e il pontefice cavò di Castel Santo Angelo, per accomodarlo, tre cannoni e alcuni pezzi di artiglierie; e dietro a Oranges aveva a venire il marchese del Guasto, co’ fanti spagnuoli che erano in Puglia. Ma in Firenze era deliberazione molto diversa, e gli animi ostinatissimi a difendersi. La quale perché fu cagione di cose molto notabili, pare molto conveniente descrivere particolarmente la causa di queste cose [e] il sito della cittá1.
Le quali cose mentre da ogni parte si preparano, Cesare, partito di Barzalona con grossa armata di navi e di galee (in sulla quale erano mille cavalli e novemila fanti), poi che non senza travaglio e pericolo fu stato in mare quindici dí, arrivò il duodecimo dí di agosto a Genova; nella quale cittá ebbe notizia della concordia fatta a Cambrai: e nel tempo medesimo passò in Lombardia agli stipendi suoi il capitano Felix con ottomila tedeschi. Spaventò la venuta sua con tanto apparato gli animi di tutta Italia, giá certa di essergli stata lasciata in preda dal re di Francia. Però i fiorentini, sbigottiti in su’ primi avvisi, gli elesseno quattro imbasciadori de’ principali della cittá, per congratularsi seco e cercare di comporre le cose loro: ma dipoi, ripigliando continuamente animo, moderorono le commissioni; ristrignendosi solo a trattare seco degli interessi suoi e non delle differenze col pontefice: sperando che a Cesare, per la memoria delle cose passate e per la piccola confidenza che soleva essere tra i pontefici e gl’imperadori, fusse molesta la sua grandezza, e però avesse a desiderare che e’ non aggiugnesse alla potenza della Chiesa l’autoritá e le forze dello stato di Firenze. Dispiacque molto a’ viniziani che, essendo i fiorentini collegati con loro, avessino eletto al comune inimico, senza loro partecipazione, imbasciadori; e se ne lamentò anche il duca di Ferrara, benché seguitando l’esempio loro, ve ne mandò anche egli subitamente; e i viniziani consentirono al duca di Milano che facesse il medesimo: il quale, molto innanzi, aveva tenuto occultamente pratica col pontefice perché lo accordasse con Cesare, conoscendo, eziandio innanzi alla rotta di San Polo, potere sperare poco nel re di Francia e de’ viniziani.
Fece Cesare sbarcare i fanti spagnuoli che aveva condotti seco a Savona, e gli voltò in Lombardia, perché Antonio de Leva uscisse potente in campagna; e aveva offerto di sbarcargli alla Spezie per mandargli in Toscana. Ma al pontefice, per la impressione che si aveva fatto, non parveno necessarie tante forze, desiderando massime, per conservazione del paese, non volgere senza bisogno tanto impeto contro a quella cittá. Contro alla quale e contro a Malatesta Baglione giá procedendo scopertamente, fece ritenere nelle terre della Chiesa il cavaliere Sperello; il quale, spedito con danari, innanzi alla capitolazione fatta a Cambrai, dal re di Francia (il quale aveva ratificata la sua condotta), ritornava a Perugia. Fece anche ritenere, appresso a Bracciano, i danari mandati da’ fiorentini allo abate di Farfa, condotto da loro con dugento cavalli, perché soldasse mille fanti; ma fu necessitato presto a restituirgli, perché avendo il pontefice deputati legati a Cesare i cardinali Farnese, Santa Croce e Medici, e passando quello di Santa Croce, l’abate avendolo fatto ritenere, non lo volle liberare se prima non riaveva i danari. Ma i fiorentini continuavano nelle loro preparazioni, avendo invano tentato con Cesare che, insino che avesse udito gli imbasciadori loro, si fermassino l’armi. Ricercorono don Ercole da Esti, primogenito del duca di Ferrara, condotto da loro sei mesi innanzi per capitano generale, che venisse con le sue genti, come era obligato loro. Il quale, benché avesse accettato i danari mandatigli per soldare mille fanti, deputati, quando cavalcava, per guardia sua, nondimeno, anteponendo il padre le considerazioni dello stato alla fede, recusò di andare, non restituiti anche i danari, benché mandò i suoi cavalli: donde i fiorentini gli disdissono il beneplacito del secondo anno.
Ma giá il principe di Oranges, il decimonono dí di agosto, era a Terni e i tedeschi a Fuligno, dove si faceva la massa: essendo cosa ridicola che, essendo fatta e publicata la pace tra Cesare e il re di Francia, il vescovo di Tarba, come imbasciadore del re a Vinegia a Ferrara a Firenze e a Perugia, magnificasse le provisioni potentissime del re alla guerra, e confortasse loro a fare il medesimo. Venne dipoi il principe, con seimila fanti tra tedeschi e italiani, a campo a Spelle: dove, appresentandosi con molti cavalli alla terra per riconoscere il sito, fu ferito in una coscia da quegli di dentro Giovanni d’Urbina, che, esercitato in lunga milizia di Italia, teneva il principato tra tutti i capitani di fanti spagnuoli; della quale ferita morí in pochi dí, con grave danno dello esercito, perché per consiglio suo si reggeva quasi tutta la guerra. Piantoronsi poi l’artiglierie a Spelle, dove, sotto Lione Baglione, fratello naturale di Malatesta, erano piú di cinquecento fanti e venti cavalli: ma essendosi battuto pochi colpi a una torre che era fuora della terra a canto alle mura, quegli di dentro, ancora che Lione avesse dato a Malatesta speranza grande della difesa, si arrenderono subito, con patto che la terra e gli uomini suoi restassino a discrezione del principe, i soldati, salve le persone e le robbe che potessino portare addosso, uscissino con le spade solo, né potessino per tre mesi servire contro al pontefice o contro a Cesare; ma nell’uscire furono quasi tutti svaligiati. Fu imputato di questo accordo non mediocremente Giovanbatista Borghesi fuoruscito sanese, che avendo cominciato a trattare con Fabio Petrucci, il quale era nello esercito, gli dette la perfezione con aiuto degli altri capitani: il che Malatesta attribuiva a infedeltá, molti altri a viltá di animo.
- ↑ Anche questa descrizione della causa degli avvenimenti di Firenze, e del sito della cittá, manca nei codici, ed anche qui c’è l’avvertenza, nel primo (III, 1032), dell’autore che siano lasciate quattro carte bianche. Inoltre l’autore avvertiva di non scrivere il «virgulato», che (si nota dal Gherardi) consta di due parti: cioè di un brano della primitiva compilazione, e di un quasi promemoria o sommario di ciò che l’autore si proponeva di aggiungere, scritto tra il margine inferiore della carta 1032 t. III e il superiore della 1033. Al primo l’autore sostituí poi: «Ma in Firenze era deliberazione ecc.», ed è questo: «Ma in Firenze, dove la gioventú era stata piú mesi innanzi armata et descritta in ordinanza di militia, et dove el popolo era affectionatissimo a quel governo, era intentione molto diversa; et si attendeva a soldare gente et fare diverse provisioni. Havevano chiesto al re di Francia per capitano delle fanterie Stefano Colonna, et ricercavano don Hercole da Esti, capitano generale di tutte le loro gente, che cavalcassi, etiandio con le cento lance delle quali haveva la condotta dal Re di Francia, come sempre haveva dato intentione. Attendevano a fortificare la cittá et rovinare tutti e’ borghi datorno, dove era grandi case et bellissimi monasterii et edifitii; ancora che el duca di Urbino dicessi che Firenze sarebbe piú forte co’ borghi, chi gli sapessi riparare. Soldavano insino in diecimila fanti, preparandosi obstinatamenle alla difesa, ancora che non vedessino aiuto alcuno, perché delle promesse de’ Vinitiani, che promettevano aiutargli con tremila fanti, facevano poco fondamento». E il promemoria è il seguente: «Bisogna discorrere lungamente le cause che mossono el pontefice et e’ modi tenuti da quello stato verso di lui; per e’ quali et per la protectione presa di Perugia si scusava essere necessitato alla guerra: et se in veritá, quando bene non gli fussino state fatte le ingiurie di che si doleva, et mandatigli inibasciadori, come instantemente haveva ricercato per essere ricognosciuto come pontefice, se ha vessi fatto la guerra o no. Discorrere anchora come si governava la cittá, et in mano di che huo— mini era l’autoritá, et e’ sospetti le divisioni e gli odii tra e’ cittadini: la constautia et obstinatione maravigliosa a difendersi, et per che cagione la vendita de’ beni del— l’Arti e de’ luoghi pii (cosa maravigliosa a bavere trovato in tempi si strani tanti compratori): l’havere rovinato prontissimamente e’ borghi loro e le case medesime de’ cittadini; le exationi di denari gravissime: quel che operassi a tenere fermi gli huomini la memoria di frate Ieronimo, usata per instrumento da molti, e da molti, che aspettavano ognora e’miracoli, creduta veramente; e la autoritá degl’altri predicatori: et in somma la pertinatia, tale che se non havessi obstato el rispetto della religione Christiana non sarebbe stata inferiore a Suganti: ie carcere de’cittadini sospetti, le condennagioni degli absenti; la forma della cittá di drento quieta nello assedio, et dove con vivere civile et san za tumulto non si obmettevano le faccende della pace. Descrivere el sito della cittá e la belleza et magnificentía di tanti edi— fitii di fuora et la constantia degli huomini a lasciargli piú presto guastare che alterare el governo; et essersi, in questa guerra piena di tanti danni spese e rovine, cognosciuta la generositá degli animi e la richeza della cittá che e’ cittadini medesimi non l’arebbeno immaginato, ma non giá la prudentia de’ padri loro, che declinando e’ pericoli a’ quali si cognoscevano inferiori, cercavano di salvare la cittá et el paese, con la speranza che restando vivi potrebbeno a qualche tempo risurgere; et che quando potevano con denari ricomperarsi lo facevano, piú pvesto che sottoporsi a’ pericoli della guerra, maxime essendo in questa deslituti da ciascuno et fondati solo in speranze di cose vane: gli inganni usati loro dal re per tenergli fermi insino recuperassi e’figliuoli, sanza pietá e sanza curarsi dell’infamia che una cittá si nobile restassi distructa per colpa sua, et per haverlo seguitato».