Storia dei Mille/La calata a Palermo
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La calata a Palermo.
Appena fu buio, la colonna si mise in marcia e cominciò subito la discesa. Allora, di là, fu veduto il vastissimo semicerchio di monti, che serra la Conca d’oro, coronarsi di fuochi, come se dappertutto vi fossero dei piccoli accampamenti. Se si volesse così avvisare il popolo di Palermo perchè si preparasse, o confondere i borbonici non si sapeva. Ma intanto quei fuochi empivano di una forza misteriosa l’anima della colonna in marcia, fino a crear l’illusione che da tutti quei punti movessero su Palermo tante altre colonne di insorti, per assalirla da tutte le porte, e trovarvisi dentro insieme con Garibaldi, il giorno seguente, a celebrar la festa dello Spirito Santo. Era proprio la vigilia della Pentecoste. L’anno avanti, il 27 maggio, Garibaldi aveva vinto gli Austriaci in Lombardia a San Fermo; il 27 maggio del 1849 aveva messo piede sul territorio del Regno a Ceperano, dietro il Borbone fugato da lui, generale della Repubblica romana: anche una terza volta quel giorno poteva segnargli forse una bella data.
L’ampia strada, che oggi sale per agevoli giravolte a Gibilrossa, allora non esisteva. Non v'era che un sentieraccio giù pel ripidissimo pendìo, dove bisognava camminare con l’olio santo in mano, sull’orlo d’un borro tutto balzi e sfasciume. Eppure, per quella traccia calò senza disgrazie tutto quel mondo, anche Garibaldi che andava su d’un cavallo molto tranquillo, che finì poi nelle mani di Alberto Mario, cui fu donato.
Perduto alquanto tempo a riordinarsi giù a piè del monte, la colonna si rimise in marcia lenta e silenziosa. Ululavano per la campagna a sinistra i cani da lontanissimo; da destra muggiva il mare; non era molto buio; faceva quasi freddo, per la gran guazza.
Nel piano, la via correva fiancheggiata da muriccioli a secco tra oliveti, e a tratti fra case mute e tetre. Da una di quelle case là attorno, veniva un tintinno di pianoforte, che ora si udiva ora no, e dava una di quelle malinconie che son fatte di dolore, d’amore, di speranza, di desideri, d’un po’ di tutto ciò che è gentile in noi. Chi mai sonava in quell’ora tanto tranquilla, mentre stava per cominciare la musica della morte?
E pareva che fosse ancora molto lontano il gran punto, il gran momento, e che l’alba volesse venire più presto del solito, troppo presto. Perciò fu fatto incalzare il passo, ma sempre più raccomandando il silenzio. Poi la colonna sboccò nella via Consolare. Allora le compagnie dei Cacciatori delle Alpi si misero per quattro, serrando così più sotto, con l’ordine di tirar avanti senza badare a chi si arrestasse, e di stringersi ai muri degli orti. I cuori battevano già. Ma ad un tratto li schiantò addirittura un uragano di grida e di fucilate scoppiato alla testa, perchè a un certo punto che si chiama Molino della Scafa, i Picciotti, credendo forse d’essere già alle prime case di Palermo, si misero ad urlare. E molti di essi, presi chi sa per qual cosa dal pànico, si arrestarono, si scomposero, si rovesciarono sui Carabinieri genovesi, cagionando il rigurgito di tutta la colonna. Accorse Bixio inviperito contro il La Masa; accorse Garibaldi che richiamò lui alla calma; e vòlto ai Carabinieri genovesi gridò: «Colonne di bronzo, le spalle anche voi?» All’immeritato rimprovero, il Mosto rispose mesto, ma fermo: «Noi siamo al nostro posto, e abbiamo aperte le righe per non esser travolti.»
Garibaldi sapeva bene cosa erano quei prodi; e del resto tutto ciò fu un lampo, perchè pigliata subito la corsa avanti, una corsa impetuosa, serrata, gridata; il meglio della Colonna fu di lancio sotto il fuoco dei Cacciatori borbonici, che difendevano il Ponte dell’Ammiraglio. In quella prima luce apparvero il profilo a schiena d’asino e i dieci o dodici pilastri interrati del ponte, brulicanti d’uomini e d’armi nel fumo, visione da sogno, ma incancellabile anche per chi non sapeva che quel ponte normanno aveva ben più di sette secoli sulle sue pietre.
Bisognava dunque passar oltre quel crocicchio infernale, e a un cenno di Garibaldi il passo terribile fu traversato, fu invasa alla corsa la via per la Fiera Vecchia. Piazza della Fiera Vecchia! Lì all’alba del 12 gennaio 1848, quel La Masa che ora conduceva i Picciotti aveva lanciato il suo grido di guerra quasi da solo, a piè di quella statua di Palermo che ora non v’era più, perchè la polizia l’aveva fatta levare. Ma era la piazza della Fiera Vecchia davvero quel largo? Non ci si vedeva nessuno, precisamente come nel 1848. Garibaldi quasi impallidì. Un cittadino, di tra i due battenti d’un uscio socchiuso, gli gridò: «Evviva!» Qualche finestra si aperse, qualche testa si sporse, ma gente non ne compariva nè con armi nè senza. Fu un istante da tragedia. Ma appunto per questo avanti! Garibaldi col suo Stato maggiore, preceduto dai più ardenti, seguito dall’onda de’ suoi si inoltrò per quelle vie deserte fino a piazza Bologni. Ivi smontò, e nell’atrio del palazzo che dà il nome alla piazza, si assise. Proprio si assise! Ora la sua tranquillità faceva quasi paura.
Giungevano intanto i suoi da tutte le parti con notizie diverse, confuse, assurde: giungeva Bixio a piedi con in pugno la spada spezzata a mezzo, furibondo, terribile. Veniva a pigliarsi venti uomini di buona volontà, per andare a farsi uccidere con loro al Palazzo reale. «Tanto, — gridava — tra due ore siamo tutti morti!» E già si avviava, già voltava l’angolo di via Toledo, quando Garibaldi lo fece chiamar indietro.
Garibaldi in quel momento era già quasi giulivo. Aveva riso d’un colpo che sfuggitogli da una delle sue pistole, gli aveva sforacchiato il lembo dei calzoni sopra il malleolo, dove fu poi ferito due anni appresso in Aspromonte: aveva confortato due giovani prigionieri napolitani; aveva baciato nel nome di Benedetto Cairoli qualcuno della 7ª Compagnia, e baciandolo gli aveva detto che intendeva di baciare in lui tutti i presenti. Giulivo era anche perchè cominciavano a comparire dei cittadini ansanti, trasecolati. Dunque era vero, era entrato, era Lui? E guardavano quei capelli ancora così biondi, quella barba, quel torso erculeo nella camicia rossa, quelle gambe un po’ esili e quei piccoli piedi da gentiluomo. Adoravano. Era lui e non avevano creduto! Il romore della fucileria di Porta Termini, l’avevano preso per uno dei tranelli della polizia, che già parecchie volte aveva sull’alba fatto sparare qua e là; e sempre chi era stato pronto a scendere, credendo di gettarsi nella rivoluzione, era invece caduto in mano dei birri. Così raccontavano quei cittadini. Dunque, se la città non era subito insorta, nulla di male, purchè si facesse, purchè non si lasciasse tempo ai nemici di riaversi: barricate! barricate! Non si sentì più gridar altro che barricate. Garibaldi diede l’ordine all’Acerbi, mantovano, di mettersi a quel lavoro, e gli designò compagno il palermitano duca della Verdura; formò un comitato provvisorio per il governo della città presieduto dal dottor Gaetano La Loggia: ma veramente il governo era lui.
E le campane cominciarono a martello, perchè la polizia aveva fatto levar via il battaglio da tutte. Prima suonò quella di San Giuseppe, poi un’altra, poi altre e altre; tutta la città si svegliava: Santa Rosalia! Santo Spirito! Che c’era mai? Garibaldi? Garibaldi era venuto dentro in quel giorno di festa religiosa, certo lo aveva voluto Iddio. E nessuno, forse nessuno, pensò che quell’uomo con sì poca gente era entrato a tirar su la città, su di sè, sui suoi, lo sterminio.
Tra quei cittadini v'erano fin dei preti. Quello alto, maestoso, con la gran testa già grigia, era l’abate Ugdulena; quell’altro smilzo, pallido, vibrante, era prete Di Stefano. E giunsero degli uomini in divisa che parevano di cavalleria, giubba rossa, calzoni azzurri. Disertori forse? Al portamento no; e poi non avevano armi. Donzelli del Comune erano, che venivano dal Palazzo pretorio. Dunque la magistratura cittadina, il Pretore, i Decurioni erano già in moto? No. Essi erano borbonici quasi tutti, e quasi tutta l’aristocrazia borbonica se n’era fuggita a Napoli, o ritirata sulle navi in rada, stava al sicuro. Ma insomma quelli erano i Donzelli del Palazzo. Sui bottoni dorati delle loro divise, si leggeva la sigla: S. P. Q. P. Senatus populusque palermitanus. Ma Giuseppe Giusta, artigiano, lingua di fuoco, lesse subito a modo suo: « Sono Pochi Quanto Prodi. » Il frizzo non destò allegria perchè quello non era momento da celie; anzi, qualcuno disse che Giusta celiava per farsi dar giù, forse, un po’ di paura. Ah la paura! Strana affezione. V’erano lì dei giovani che nella notte, durante la marcia, avevano forse tremato; e adesso si sarebbero messi da soli a qualsifosse cimento.
Perchè adesso era davvero aperta la via a tutte le prove, e la città s’avviava a divenir tutta un campo. Verso Sant’Antonino si combatteva; da porta Macqueda, i cannoni del generale Cataldo tiravano lungo la gran via; quelli del generale in capo Lanza, da Palazzo reale, spazzavano tutta Toledo. Non pareva vero che il forte di Castellamare tacesse ancora. Si sapeva già che ivi comandava il Colonnello d’artiglieria Briganti; si seppe poi che un suo figliuolo capitano era stato ai mortai, aspettando l’ordine di cominciar il fuoco, e che rapito dalla voglia di mandar la prima bomba sulla città ribelle, aveva già mormorato contro suo padre, minacciando persino d’andar egli stesso a scuoterlo. Ma verso le sette l’ordine gli fu mandato, e allora si udì un gran tonfo a Castellamare, e su nell’aria un gran rombo. La prima bomba piombò. Cominciava quel bombardamento, che con terribili pause di cinque minuti tra bomba e bomba, doveva durare tre giorni e farne piovere sulla città ben mille e trecento. E subito scoppiarono qua e là degli incendi. A mezzogiorno in punto si misero poi a tirare anche le navi.
Intanto Garibaldi era passato col suo Quartier generale nel Palazzo pretorio. Là, con un suo decreto da Dittatore, sciolse il Municipio, per nominare, come fece il dì appresso, un nuovo Pretore e nuovi Senatori. Ora la città, anzi la Sicilia era lui. Da quel centro si diramavano i suoi ordini alle piccole colonne che si erano spinte in tutti i versi alla periferia della città. Erano gruppi di Cacciatori delle Alpi, cui si univano fidenti e volenterosi i Picciotti entrati il mattino, e via via cittadini d’ogni ceto usciti di casa con armi o senza. E dove avveniva uno scontro coi borbonici, i disarmati aspettavano bramosi che qualcuno cadesse, ne prendevano l’arma, le cartucce, il posto, e combattevano esultanti. Un grosso nerbo della 8ª Compagnia avanzò per vie traverse, verso Palazzo reale fino alla gran Guardia, e di lì fugò il generale Landi, quel povero vecchio Landi, già battuto a Calatafimi.
Un po’ della 6ª con parte della 7ª e alcuni Carabinieri genovesi, andavano per pigliare il convento dei Benedettini; la 5ª si spingeva verso porta Macqueda, fino a Villa Filippina. Ma dir Compagnie non è preciso. Queste si erano frante e si frangevano ognor più in manipoli, e ogni manipolo seguiva il più stimato fra quelli che lo componevano, o chi si mostrava più ricco di partiti. Così dei vecchi ubbidivano a dei giovinetti; uomini in divisa d’ufficiali si lasciavano consigliare da studenti che non avevano mai visto una caserma; qualcuno come Vigo Pellizzari che, caduto Benedetto Cairoli, era divenuto il Comandante della 7ª, rivelava qualità di vero uomo di guerra; Giuseppe Dezza della 1ª suppliva da bravissimo il Bixio, che, non si potendo più reggere dal molto sangue perduto, era stato costretto da Garibaldi a ritirarsi in casa Ugdulena, e aveva ubbidito mordendosi per ira le mani.
Il Comitato delle barricate, composto di cittadini esperti ancora del 1848, presedeva a quel lavoro che metteva sossopra il lastrico di ogni via. E già si vedevano uomini sugli orli dei tetti ad ammonticchiarvi tegole, uomini sui balconi a preparar mobili da buttar giù, se mai le milizie borboniche si fossero avventurate.
Ma quelle milizie non si muovevano all’offensiva. Anzi, verso le sedici, come si diceva là all’uso antico d’Italia, il general Cataldo che occupava i pressi di Porta Macqueda, i Quattro venti e il Giardino inglese, assalito dalla città, tormentato alle spalle dai Picciotti, si ritirava al Palazzo reale; e al Palazzo reale si ripiegava il general Letizia, scacciato dal rione Ballerò. Sicchè al Palazzo e nella piazza e negli orti intorno, si trovavano da dodicimila soldati, sotto il generale Ferdinando Lanza, alter ego del Re, uomo di 72 anni che aveva a lato Maniscalco, il fiero capo della polizia. E allora le carceri non più custodite si apersero, e ne sbucarono duemila condannati, orribile ingombro gettato tra i piedi alla rivoluzione, perchè potevano solo disonorarla. Ma Garibaldi provvide. Vietò d’andar armati senza dipendere da un capo; vietò di perseguitar i birri sperduti; decretò pena di morte al furto, al saccheggio: fece tremare, e fu ubbidito.
Lavoravano intanto i mortai di Castellamare, che nel pomeriggio di quella prima giornata presero specialmente di mira il Palazzo pretorio, sul quale misuravano l’arcata delle loro bombe. I nemici, non da palermitani, ma da qualche birro vagante, dovevano aver saputo che in quel palazzo si era messo Garibaldi, e perciò cercavano di seppellirvelo sotto col suo Stato maggiore! Non vi riuscivano; ma le loro bombe, cadendo nelle vicinanze, facevano delle grandi rovine.
Di quelli che andavano e tornavano, taluni si sentivano chiamar dentro dagli usci di qualche casa o palazzo socchiusi. E là nei cortili, sotto i porticati, giù nei sotterranei, trovavano donne, uomini, fanciulli, signori e servi; e questi a gara se li pigliavano in mezzo curiosi, e li tempestavano di domande: e di dove erano, e come si chiamavano, e se avevano madri, sorelle. E stringendo loro le mani, tastavano se queste erano fini; maravigliavano a udirli parlare da gentili uomini. Li ristoravano di cibi e di vini squisiti; empivano loro le tasche di biancherie; mostravano le coccarde tricolori, triangolari come l’isola; li baciavano, li pregavano di farsi portar da loro se mai cadessero feriti. E le donne esaltate congiungevano le mani come in chiesa; e le fanciulle sorridevano estatiche nei grandi occhi lucenti; e poi a veder coloro andarsene, piangevano come sorelle amorose.
Nei posti in faccia al nemico, quelli che vegliavano, ricevevano le notizie delle cose avvenute altrove. Ai Benedettini, Giuseppe Gnecco, carabiniere genovese, si era lanciato alla gola di un ufficiale borbonico e lo aveva tratto via seco prigioniero. Là e là, i tali e i tali della tale Compagnia o della tal’altra, avevano formato barricate mobili con botti rinvolte in materasse, e spingendole avanti a forza di spalle sotto il fuoco dei borbonici, erano giunti fino alle case occupate da questi, e balzati dentro, fulminei avevano preso le case e i difensori.
Metteva una certa sicurezza negli animi sapere che ormai tutta la parte bassa della città era in mano degli insorti, salvo il palazzo delle Finanze in piazza Marina, che era ben tenuto d’occhio perchè i borbonici non potessero portar via il tesoro. Anche la caserma di Sant’Antonino era stata presa, e molti vi si erano riforniti di bellissime armi. Là Andrea Fasciolo, Carabiniere genovese, aveva dato tutto il giorno lo spettacolo d’un coraggio che i suoi compagni, per dire quanto era, chiamavano coraggio sfacciato.
Cominciava a disertare qualche ufficiale borbonico: al Palazzo pretorio era giunto il tenente Achille De Martini, comandante dei cannoni a Calatafimi, e si era dato anima e corpo a Garibaldi. Intanto seguitavano a entrar in città da porta Termini e Picciotti e Picciotti; da porta Macqueda era entrato Giovanni Carrao, con la squadra che era stata di Rosolino Pilo. E la notte passava.
Ma i mortai di Castellamare suonarono presto la diana del 28, e presto ricominciò il fuoco dappertutto. Dappertutto la rivoluzione vinceva. Ma dolorose perdite si fecero fin dalle prime ore di quel secondo giorno. Enrico Richiedei da Salò ed Enrico Uziel da Venezia, furono uccisi da una palla di cannone che li colpì tutti e due al capo, lasciando morti sfigurati l’uno vicino all’altro quei due fiori di giovinezza.
Antonio Simonetta milanese diciannovenne, puro come uno di quei fraticelli che cantarono al letto di San Francesco morente, uscito l’anno avanti incolume dalla battaglia di San Martino, cadeva al convento dei Benedettini, dove gli amici ne cercarono poi invano il corpo e la fossa. E ai Benedettini cadeva Giuseppe Nàccari palermitano, reduce dall’esilio coi Mille, cadeva senza aver ancora riveduta la sua famiglia, anch’egli bellezza maschia, che nella 6ª Compagnia, per la molta somiglianza col gran lombardo morto a Roma nel 1849, era chiamato Luciano Manara. Nel campanile di quel Convento fu ucciso Crispo Cavallini da Orbetello, altro bel forte cui toccò di morire senza lasciar il nome alla schiera dei Mille. Egli fu dimenticato come uno che non avesse avuto nè parenti, nè amici, nè nulla. E forse felice lui, se morendo, avesse potuto indovinare quell’oblio; perchè, diciamo noi, portar seco nella morte tutto sè stesso, la gloria e il nome, deve esser una gioia più che da uomo. Non insegnava così l’ordine del giorno di Garibaldi letto nella traversata in alto mare?
Ai Benedettini combatteva il Mosto co’ suoi Carabinieri, Carabiniere infallibile anch’esso, e dal campanile fulminava gli artiglieri del bastione Porta Montalto, obbligandoli a lasciar muti due pezzi. Lo secondavano tranquillamente, con tiri che coglievano, Giambattista Capurro, giovinetto che aveva la testa bendata per una ferita in fronte, ed Ernesto Cicala benchè già toccato malamente da una scheggia di granata. Vicini e mirabili per la calma, facevano i loro tiri Stefano Dapino e Bartolomeo Savi, testa d’oro da cherubino, tanto era biondo, il primo; l’altro arruffato quella sua testa grigia piena sempre delle tragedie di Sofocle.
Si combatteva dunque dappertutto e si dimenticava ogni cosa. Ma se qualcuno non si sentiva più dalla fame, i conventi dei frati erano là divenuti ospizi. Ivi le cucine fervevano. Bastava dar una corsa là, e uno ci trovava il cuoco e il cantiniere, pronti a scodellare e a mescere. Si ristorava e via, tornava benedetto a farsi onore. Dei frati veri, molti parevano più rivoluzionari dei garibaldini stessi; qualche vecchio brontolava pauroso, perchè delle rivoluzioni ne aveva già viste troppe e tutte finite male, quella del ’20 e quella del ’48.
Si dava da mangiare anche nei refettorii e nei parlatorii dei monasteri. Folle di monacelle bianche si premevano a guardar dalle porte, e parevano stormi alati d’angeli, discesi come nella poesia a contemplar i figli degli uomini. Qualcuna osava, correva quasi ad occhi chiusi, e al primo cui le capitava di stendere le braccia metteva al collo una reliquia, subito fuggendo beata come se avesse rapita un’anima al purgatorio. Colui per quella non pericolava più. Invece delle vecchie suore si mettevano a discorrere in mezzo agli ospiti armati e laceri e sporchi di polvere; e li interrogavano curiose, e domandavano se Garibaldi era cristiano, giovane, bello, e li pregavano di vincere e di tornare poi a dar loro le notizie, a difender loro, povere monacelle, dalle genti borboniche crudeli. Non sapevano ancora che i monasteri dei Sette Angeli e della Badia nuova erano stati saccheggiati, nè che quello di Santa Caterina bruciava.
Lì sì! c’era bisogno d’aiuto! Ma nel gran trambusto che assordava tutti, nessuno aveva ancor badato che lì come altrove c’era l’incendio. Eppure il monastero sorgeva a lato del Palazzo pretorio! Il fuoco vi aveva cominciato dal tetto, a cagione di una bomba di quelle destinate al Palazzo, scoppiata in aria. E l’incendio era disceso di piano in piano. Solo verso la sera del 28, qualcuno pensò che là dentro c’erano delle povere creature. E allora, sfondata la porta del monastero, vi entrarono dieci o dodici Cacciatori delle Alpi con dei Picciotti, a tentar di salvarle. Nel pian terreno ci si poteva ancora, ma cerca di qua, cerca di là non si trovavano monache in nessuna parte. Che si fossero lasciate perir arse nei piani superiori, non pareva da credersi. Finalmente uno andò nell’oratorio, e là ne vide che, come larve bianche nella penombra in fondo, piangevano, fuggivano a nascondersi fino in certe loro catacombe. Raggiunte, si inginocchiavano in terra, torcendo le braccia, porgendo le gole come a dei carnefici; pregate di uscir di là dentro, perchè presto non ci sarebbe stato più tempo, non volevano lasciarsi condur via a niun patto. Sicchè quei soldati dovettero minacciare di porre loro addosso le mani per salvarle a forza. E allora esse si lasciarono mettere in fila, lunga fila di religiose di tutte le età, monache e converse. Ve n’erano di bellezza celestiale, giovani come aurore; ve n’erano delle vecchie mummificate. I fratelli Carlo e Pietro Invernizzi da Bergamo, bizzarrissimi spiriti, ne portavano via sulle spalle una per ciascuno quasi paralitiche, e mentre che agli atti pareva che reggessero dei reliquiari, parlavano in bergamasco da diavoli cose che avrebbero fatto ridere i sassi. Fu questa la sola profanazione, se si può dir così; tutti gli altri vennero fuori serii con quella strana processione; e a vedere la raffinatezza dei riguardi che sapevano usare, faceva orgoglio. Condussero quelle meschine a un altro monastero; e là, nella gioia della salvezza, qualche stretta di mano, sin qualche bacio fu dato e preso.
La seconda giornata passò dunque come la prima e peggio; ma la terza furono cose indescrivibili. Tutte le vie erano ormai gremite di gente. A cagione del bombardamento, lo stare in casa era più pericoloso che lo star fuori; perchè dove una bomba cadeva su di un tetto, sprofondava giù fino a terreno, scoppiava e faceva crollar tutto. Invece per quelle che cadevano nelle piazze o nelle vie, la gente si gettava a terra, le lasciva scoppiare, poi su, si levava gridando: «Viva Santa Rosalìa, Garibaldi, l’Italia!» E si esaltava, e si lasciava pigliare da un certo cupo entusiasmo della strage, senza neppur più inorridire perchè qualcuno restava a terra morto o ferito. Di tanto in tanto si udiva uno scoppio di grida furiose qua e là; erano donne del popolo che avevano fatto la posta a qualche birro, e riuscite a pigliarlo, urlandogli «Sorcio, Sorcio!» lo malmenavano, lo straziavano a brani. Così dovevano aver urlato: «Mora! Mora!» le loro antenate dei Vespri. Senonchè ora bastava che capitasse in tempo un garibaldino a stender le mani sul birro sciagurato, e quelle donne glielo cedevano vivo, quasi contente, urlando ancora: «Viva Santa Rosalìa!» Di quei miseri servi della polizia ne furono salvati parecchi in tal modo, e pel momento venivano messi nei sotterranei del Palazzo pretorio, dove almeno nessuno poteva più torturarli.
Così le turbe si aggiravano per la città, passando da barricata a barricata pei vani lasciativi apposta; e incontrandosi ai Quattro Cantoni si incrociavano, si acclamavano e si confondevano come quattro correnti. Ivi un gran tendone tirato tra due palazzi celava la metà di via Toledo verso porta Felice, all’altra metà di lì in su, verso al Palazzo reale. Perciò i borbonici del Palazzo non potevano più comunicare a segni con le loro navi da guerra del porto. Quel tendone era come un immenso arazzo bene istoriato, e però spiaceva vederlo sforacchiare dalle cannonate borboniche; ma dal Palazzo reale ci si erano accaniti contro. Diceva un Cattaneo da Bergamo, rimasto loro prigioniero e mandato a Garibaldi per certa ambasciata, con promessa sua che sarebbe tornato, come infatti volle tornare; diceva che i borbonici già quasi ridotti a cibarsi di lattughe, provavano dispetto e noia di quel tendone più che di tutto. Erano anche arrabbiati, perchè l’Ospedale militare pieno di risorse era stato preso dai garibaldini.
Dunque tra gli strazi che si vedevano, le buone notizie davano gran conforto. E si seguivano. Il bastione di Porta Montalto era stato preso dal colonnello Sirtori, mosso dal convento dei Benedettini alla testa di alcuni, che si erano lasciato mettere in petto il fuoco dell’eroismo da quel prete soldato. I regi dell’Annunziata erano stati costretti a sgombrare; e comparivano a Palazzo pretorio dei giovani che avevan durato a star là giorno e notte per vincere quel posto. Venivano carichi di armi, e alcuni portavano superbi mantelli tolti a quei nemici. Ma correvano intanto gli annunzi delle morti e delle ferite. Adolfo Azzi, il forte timoniere del Lombardo, era caduto con una coscia trapassata da una palla; Liberio Chiesa, chiassoso ma prode, giaceva anch’egli con una gamba spezzata.
A confortar i feriti un po’ dappertutto, andava il prete Gusmaroli da Mantova, e portava loro i saluti dei combattenti, e tra i combattenti tornava, serbando una calma e una pace di cuore meravigliosa. Mai che impugnasse un’arma! Essere ucciso poteva; uccidere no. Egli non voleva macchiare di sangue le sue mani di sacerdote. Andava così vendicandosi a modo suo dell’offesa che gli aveva fatto l’Austria, impiccandoli nella sua Mantova Orioli, Grioli e Speri e Poma e gli altri di Belfiore. E siccome somigliava molto ai ritratti di Garibaldi, per questo, dove appariva, i Picciotti, credendolo il Generale in persona, sotto i suoi sguardi gareggiavano a chi mostrasse d’aver più cuore. Egli aveva allora quarantanove anni, ma se avesse saputo quali dolori gli serbavano gli altri dodici che stette poi ancora al mondo, si sarebbe augurato di averne cento per morire se non lo volevano le palle di qualunque altra morte, ma là, ma allora. Finì nel 1872, in una misera casupola della Maddalena, dove era suo solo conforto contemplare almeno l’altra isola, quella di Garibaldi, dal cui cuore fu fatto cadere.
Bello e grande fu l’atto della 8ª Compagnia che, mantenutasi più compatta delle altre per l’ostinata voglia di occupare la Cattedrale, vi riuscì finalmente alle quattordici di quel terzo giorno. Rovinava allora lì a lato con indicibile fragore il palazzo del principe Carini, incendiato da una bomba, come erano già rovinati i palazzi Cutò, D’Azzale e altri. E allora appunto, in faccia ai borbonici di Palazzo reale, quei bergamaschi invasero tutto il di fuori del tempio e dentro e su fino il campanile. E di là si misero a tirare sui soldati stipati nella gran piazza. Uccidevano a schioppettate gli artiglieri sui pezzi. Il loro capitano Bassini li governava coi trilli di certo suo fischietto da cacciatore, fumando alla pipa, tutto scoperto ai nemici che lo tempestavano di palle senza toccarlo. Ma egli si credeva invulnerabile.
Ma se le sorti volgevano a male per i borbonici, anche dalla parte di Garibaldi crescevano le angustie. Quella sera non v’erano quasi più munizioni. Si lavorava a fabbricare polvere, ma non ne veniva abbastanza pel bisogno, specialmente perchè i Picciotti, come scrisse poi Garibaldi, sparavano troppo. E da tutti i punti della città dove si combatteva, giungevano uomini a chieder cartucce, come chi spasima per fame chiede pane. Gli aiutanti del Generale rispondevano alzando le braccia muti: il Sirtori, sempre tranquillo, raccomandava di dir dappertutto che le munizioni giungerebbero, che intanto i combattenti s’ingegnassero con la baionetta. E invocava la notte. Almeno ci sarebbero state alcune ore di riposo. E poi girava già viva la voce che tra i regi fosse cominciato un grande scoraggiamento; si diceva che altri loro ufficiali erano passati alla rivoluzione, tra i quali due capitani del genio ed era vero; e ormai pareva certo che i dodicimila uomini del Palazzo reale stessero isolati affatto, senza viveri e senza comunicazioni col porto e con Castellamare. Dunque una risoluzione il loro generale l’avrebbe dovuta prendere; o avventarli tutti a morire o capitolare. Ma venuta la notte l’inquietudine non cessò, anzi faceva terrore il pensiero di quel che sarebbe potuto succedere il mattino seguente; e quasi si agognava che fosse già l’alba, per tornare nella furia invece di consumar l’anima in orribili fantasie.
Anche Garibaldi ebbe quella sera un momento in cui quasi disperò. Gli avevano portato la nuova che erano sbarcati alla Flora due battaglioni di bavaresi, gente aizzata da Napoli e per tutta la traversata con feroci promesse, ed esaltata dalla lusinga d’aver essa l’onore di dar il colpo mortale alla rivoluzione. Ma la notizia non era esatta. I due battaglioni erano sbarcati sì, ma non alla Flora. E il generale Lanza aveva commesso l’errore di chiamarseli al Palazzo reale. Dunque erano men da temersi, stando essi nelle mani di chi non sapeva adoprar bene neppur le buone truppe che aveva già. E Garibaldi si rassicurò. Ma quella era la notte del dolore, ed Egli ebbe pur quello di venir a sapere che alcuni de’ suoi, tre o quattro in tutti, non potendo più star con l’animo alla paura, erano ricorsi ai consoli stranieri, per farsi munire di passaporti. Il dolore che ne provò non si può dire; la pena del suo disprezzo che inflisse a quei tali fu mortale. Uno di essi, poi, che portava un bel nome nizzardo, era ricorso al consolato di Francia! Il Generale ne pianse. Gli toccava là, nel pieno della sua grandezza, fosse pure alla vigilia forse della catastrofe suprema, gli toccava là quella atroce puntura di veder quel suo uomo aver riconosciuto con quell’atto che Nizza era Francese! Egli, così proclive a compatire, a scusare, non perdonò; e il nome di quell’uomo fu spento.
Il giorno appresso, mentre il fuoco, riacceso in tutti i punti sin dall’alba, lasciava indovinare ne’ regi una certa stanchezza, ma teneva pur sempre in forse dell’esito finale, Garibaldi ricevè un messaggio del generale Lanza. Questi che sin dal 28 aveva chiesto all’Ammiraglio inglese d’intromettersi per imporre una breve tregua, onde si potessero raccogliere i feriti e seppellire i morti, ma però senza voler trattare egli con Garibaldi; e dall’inglese aveva ricevuto in risposta che appunto a Garibaldi doveva rivolgersi: ora nel suo messaggio dava di Eccellenza al Filibustiere! E gli chiedeva un armistizio di ventiquattr’ore, e lo invitava a un ritrovo con due suoi generali, per trattar d’altre cose. Designava per luogo la nave ammiraglia inglese. Garibaldi concesse subito l’armistizio, accettò l’invito al ritrovo, e da una parte e dall’altra fu subito dato l’ordine di cessare il fuoco.
Erano le undici antimeridiane. Il ritrovo doveva avvenire alle ore quattordici. Ma mentre Garibaldi trattava di queste cose nel Palazzo pretorio, e sottoscriveva l’armistizio col Colonnello messaggero del Generale nemico, gli giunse un grido di tradimento, propagato sia da Porta Termini, grido terribile di cui veniva interprete a lui, smaniando, quel prete Di Stefano che gli era apparso dei primi, il mattino del 27. Insomma a Porta Termini erano giunti a marcie forzate i cinque i seimila uomini del Von Mechel e del Bosco, quelli che dal dì 24, credendo di inseguir Garibaldi in fuga, erano andati fino a Corleone. Là, avendo alla fine saputo l’inganno in cui erano caduti, s’erano rivolti volando al ritorno; ed adesso erano lì alla porta stessa per cui Garibaldi era entrato in Palermo, furiosi, sguinzagliati dai loro comandanti come belve fuor di catena. Una mezz’ora prima che fossero sopravvenuti, entravano di lancio fino al Palazzo pretorio, perchè da quella parte della città le barricate non erano quasi guardate. E chi sa? forse Garibaldi sarebbe finito davvero nella tragedia. Invano li avevano voluti arrestare combattendo gli accorsi al grido del loro arrivo; i Bavaresi avanzavano di barricata in barricata, erano già alla Fiera Vecchia.
Ma l’armistizio era firmato. Il Colonnello borbonico, messaggero che si trovò di fronte a Garibaldi, a sentirsi dare quasi di traditore, si offerse di andar egli stesso a fermare quella terribile colonna, e andò lealmente. Garibaldi seguì. Tra via incontrarono il colonnello Carini che veniva via di là, portato su d’una barella, ferito gravemente in un omero, e gridava di accorrere, di accorrere, che se no era finita.
Cessato anche il fuoco alla Fiera Vecchia come già per tutta la città, non si udì più che qualche colpo di qualche mal disciplinato sperduto. Ma allora, peggior di quello del combattimento, cominciò lo strazio dei feriti e dei morti da cercare. Se ne trovaron dappertutto. Facevano grande pietà le donne, i vecchi, i fanciulli. Quanti destini infranti, quante lacrime da essi lasciate dietro!
E dal Palazzo pretorio fu subito dato l’ordine di riunire le Compagnie dei Cacciatori delle Alpi ciascuna a un punto designato, dove si dovevano raccogliere tutti coloro che non fossero impegnati alla guardia dei posti. Così oltre il numero dei morti, sarebbe stato possibile sapere il numero dei feriti ricoverati negli ospedali o nelle case dei cittadini. Allora avvennero gli incontri dei compagni che in qualche momento di quei tre giorni si erano perduti di vista fra loro, e nella confusione avevano partecipato ai fatti d’arme in punti diversi, dubitando reciprocamente della vita gli uni degli altri, o avendo ricevuto notizie vaghe di ferite e di morte. « E tu dove ti sei trovato? E tu cosa hai fatto, e dove eri la notte tale? dove hai mangiato, dormito, vissuto? » Ve n’erano di così storditi, di così disfatti dalle veglie, dalle fatiche, dalle emozioni, che non sapevano nemmen essi che dire. Ma parlava per loro il loro aspetto. Di alcuni che parevano riposati e pasciuti si mormorava. E così, alla grossa, si potè fare il conto delle morti. Non erano molte. La vittoria di Calatafimi era costata assai di più. Ma in Palermo le Compagnie avevano combattuto, governandosi ogni soldato quasi quasi da sè, esponendosi appena quant’era necessario per far fuoco, e avanzando con quell’abilità naturale con cui si sa cogliere il destro a scansare i danni, a pigliarsi i vantaggi. Invece moltissimi erano i feriti, i più nel capo o nella parte superiore del torso. Le barricate avevano salvato il resto della persona. Ed era stata fortuna, perchè i feriti nelle gambe morirono poi quasi tutti.
Molti più erano i morti borbonici. In certi luoghi, come al bastione di Porta Montalto, erano così fitti, che non si capiva chi ne avesse potuti uccidere tanti. Ma quasi nessun ufficiale tra loro. Di questi, in tutti i tre giorni, non ne morirono che quattro, misera testimonianza del valore di quella ufficialità, se pur non fu una manifestazione di sentimento già nato negli animi, almen dei giovani, quello dell’inutilità d’ogni sacrificio contro colui che, non impersonando la milizia di un altro Re, rappresentava un’idea della quale sarebbero stati volentieri soldati.
In quel pomeriggio, tutti si misero a dar una ripulita alle armi; poi chi di qua chi di là, i più andarono a visitar i compagni feriti o a trovar le famiglie dalle quali erano capitati, durante quell’inferno dei tre giorni, per caso o per chiedere un tozzo o un sorso. E là erano accoglienze da principi. Ve ne furono che capitarono in casa di gente altolocata ma malveduta dal popolo, e che senza saperlo servirono di copertura agli ospiti da cui furono tenuti in casa come guardie. Altri furon visti accompagnar di qua e di là tra la folla famiglie sgomente che, così protette, si facevano condurre nei monasteri o alla marina, dove si imbarcavano per andare al sicuro su qualche nave, ad aspettare il resto della tragedia. Perchè ventiquattr’ore di armistizio sarebbero presto passate.
Intanto allo Stato Maggiore, il Türr, il Sirtori, gli altri non perdevano il tempo, e tutto quel pomeriggio fu dato loro a fabbricar polvere, a ordinare un poco i Picciotti, a far mettere in batteria certi vecchi cannoni cavati fuori da dove erano stati nascosti nel 1849. Altri ne furono messi su, avuti in dono o comprati dai bastimenti mercantili che stavano in rada. E i Picciotti vi facevano intorno la ronda, li lustravano e li coprivano di immagini sacre, improvvisavano fin delle laudi a quei bronzi, come se fossero eroi o santi. Il giorno appresso si sarebbe sentita la loro voce. Nei luoghi della città più affollati, sebbene l’andirivieni fosse più che mai vivo, bande musicali suonavano arie patriottiche dell’Attila, dei Due Foscari, dei Lombardi, o inni del Quarantotto; qualcuno suonava già anche «Si scopron le tombe....» E, cosa meravigliosa, invece di far adagiare gli animi nella speranza che la lotta non ricominciasse più, l’armistizio li aveva ancora concitati. Perciò si vedevano le gronde dei tetti, i balconi, le finestre, sempre più carichi di materiale da buttar giù; e tra la gente che lavorava a far sempre più alte le barricate, si sentiva dire con sicurezza che neppure centomila uomini avrebbero più potuto venir da fuori al Palazzo pretorio.
Queste erano esagerazioni battagliere. Ma cosa grande davvero, che passa l’immaginazione, fu sul tardi il ritorno di Garibaldi dal suo abboccamento coi generali borbonici Letizia e Chrétien, avvenuto a bordo della nave ammiraglia inglese. Egli vi era andato lasciando in angoscia indicibile chi lo sapeva. Ed essendo giunto a un luogo del porto detto la Sanità, proprio nel momento in cui vi giungevano i generali nemici, l’ufficiale della lancia inglese non sapendo che far di meglio, lo aveva imbarcato insieme con quei due. Come si sentissero in compagnia di quell’uomo in semplice camicia rossa essi tutti galloni, non è facile immaginare; ma narrava il capitano Cenni che parevano aver voglia di far l’altezzoso. E difatti nelle trattative, una volta a bordo e cominciata la conferenza, il general Letizia affettava di non rivolgersi a Garibaldi, e parlava con una certa alterigia. Ciò dispiacque all’ammiraglio Mundy e ai comandanti navali francese, americano e sardo, che egli aveva chiamati sulla sua nave, perchè assistessero al colloquio. E questo si mutò presto quasi in un diverbio. Il Mundy, ospite, ebbe anzi un bel da fare onde Garibaldi, pur con ragione, non trascendesse. Il Letizia aveva tra l’altre cose osato chiedergli che la rappresentanza cittadina di Palermo facesse un atto di sottomissione al suo Re. E allora Garibaldi proruppe che la rappresentanza cittadina era in lui Dittatore, e rotta ogni trattativa si ritirò. Ma nel partirsi da bordo si rivolse al Comandante americano Palmer, confidandogli rapidamente e a bassa voce che in Palermo non aveva quasi più munizioni, e raccomandandosi a lui perchè, se potesse, gliene mandasse. Così tornò a terra.
Ma nel breve tragitto dalla marina al Palazzo pretorio, ebbe uno di quei momenti nei quali gli eroi pagano, per dir così, il fio della loro grandezza. Lo pagano con la tempesta che si scatena loro nell’animo, come avvenne al Mazzini nel 1833, nell’ora terribile in cui si trovò a lottar tra l’idea sua, che egli chiamava dovere, e il sacrificio di tanti, che per quell’idea suscitata da lui, si offrivano alla rivoluzione, alla galera, alle forche. E così come narrò di sè il Mazzini, di sè e di quel suo momento narrò Garibaldi. «Confesso che non ero scoraggiato; ma considerando la potenza e il numero del nemico e la pochezza dei nostri mezzi, mi nacque un po’ di indecisione sulla risoluzione da prendersi, cioè se convenisse continuar la difesa della città, oppure rannodare tutte le nostre forze e ripigliar la campagna. Quest’ultima idea mi passò per la mente come un incubo, ma la allontanai da me con dispetto: trattavasi di abbandonar la città di Palermo alle devastazioni di una soldatesca sfrenata! Mi presentai quindi quasi indispettito con me stesso al bravo popolo dei Vespri.»2
Apparve di fatto dal balcone sinistro del Palazzo, nel lampo delle invetriate che, mentre si aprirono, scintillarono percosse dal sole già basso verso Monte Pellegrino, e a capo scoperto, come Ferruccio ai suoi, prima di Gavinana, parlò. Breve, pacato, con voce che suonò come un canto, disse che il nemico gli aveva fatto delle proposte ingiuriose per Palermo e che egli, sapendo il popolo pronto a farsi seppellire sotto le rovine della sua città, le aveva rifiutate.
V’è ancora qualcuno, vivo, al mondo, che, sebbene sia passato quasi mezzo secolo, si sente sempre nell’anima quella voce. E ancora vede ciò che vide in quell’ora. Vede quella moltitudine che non balenò neppur un istante, e che alle ultime parole di Garibaldi ruppe in un grido solo: «Sì! sì! Grazie! grazie!» con una levata di mani, di fronti, di cuori, tale da fare impallidire lui, pel sovrumano peso che gli imponeva, accettando l’onore di lasciarsi sacrificare. Egli guardò un poco, poi si tirò dentro ritemprato (lo narrò nelle sue Memorie), «e da quel momento ogni sintomo di timore, di titubanza, d’indecisione» gli sparve.
Il discorso di Garibaldi comparve poi subito stampato sotto forma di Proclama alle cantonate. Diceva così: «Il nemico mi ha proposto un armistizio. Io accettai quelle condizioni che l’umanità dettava di accettare, cioè ritirar le famiglie e i feriti: ma fra le richieste, una ve n’era ingiuriosa per la brava popolazione di Palermo, ed io la rigettai con disprezzo. Il risultato della mia conferenza d’oggi fu dunque di ripigliar le ostilità domani. Io e i miei compagni siamo festanti di poter combattere accanto ai figli dei Vespri una battaglia, che deve infrangere l’ultimo anello di catene con cui fu avvinta questa terra del genio e dell’eroismo.»
Parrà forse dir troppo ma è verità. La sera di quel giorno, proprio come se ricorresse la sua festa di Santa Rosalìa, Palermo si illuminò tutta. Lasciamo stare che i palazzi e le case dei ricchi nelle grandi vie fecero addirittura la luminaria; ma non vi fu casupola per quanto povera e nascosta ne’ vicoli, che non avesse il suo lume a ogni finestra. E la notte passò in cene e canti e fino in danze. Per prepararsi alla ripresa della guerra, se guerra doveva ancora esservi, si avrebbe avuta poi tutta la mattinata appresso.
Ma quando fu mezzodì e i combattenti erano tornati tutti ai loro posti, pronti a ricominciare, fu fatto dire dappertutto che l’armistizio era prolungato di tre giorni. Allora entrò nei cuori che in quanto a Palermo i regi avevano finito. E tanto più crebbe l’idea quando si arrese la compagnia che custodiva il palazzo delle Finanze in piazza Marina, dove giaceva un tesoro di cinque milioni di ducati. Avevano messo il blocco al palazzo una ventina di Garibaldini e un nugolo di popolani, appostati intorno a distanza, vigili giorno e notte, e così il denaro della Sicilia, rimaneva alla Sicilia.
Durante quell’armistizio, stettero le due parti ai loro posti, ognuna con le proprie sentinelle piantate a farsi guardia contro la nemica. E in certi punti della città, le sentinelle si trovavano a essere così vicine fra loro, che in quattro passi potevano gettarsi a zuffa l’una sull’altra. Perciò in quei luoghi insieme coi Picciotti, che dal grande odio non avrebbero saputo stare senza insultarsi o saltare addirittura sui napolitani, fu messo un gruppo di Garibaldini. E talvolta avveniva che dei soldati napolitani qualcuno o la sentinella stessa, da una parola all’altra, si lasciava tirare a conversare coi Garibaldini, perdeva la testa, dava indietro un’occhiata, tentennava un poco, e poi scattava via di lancio a rifugiarsi tra loro, abbracciato, baciato, portato via in trionfo per la città. Così, alla Fiera Vecchia, anche i Bavaresi disertarono a dozzine, ultime figure di mercenarii che avevano fatto quell’ultima apparizione in Italia.
Sparsa la notizia tra i Carabinieri genovesi, andò al Parco Antonio Mosto con alcuni amici; e sul monte, ancora nel posto dov’era stato ucciso, trovò il suo fratello, dolce e gracile giovine, da otto giorni insepolto. E nello stesso posto lo seppellì.
Garibaldi, un di quei giorni, verso sera, fece una passeggiata a cavallo per la città, passando pei luoghi dove le barricate erano meno fitte. Dire che accoglienze gli faceva il popolo parrebbe ora poesia, ora che il mondo è tanto mutato. Miravano le turbe quella figura dolce, e non sapendo ben capire come ad essa convenisse il gran nome guerriero, chinavano religiosamente la fronte, o gli si protendevano come ad un essere sovrumano. Non era difficile immaginare le folle deliranti di certi altri paesi prostrate per voluttà di farsi schiacciare dai carri sacri. Egli correggeva con lo sguardo quei fanatismi.
Spirato quel termine di tre giorni, fu prolungato l’armistizio di altri tre. Si indovinava in ciò gli ondeggiamenti della Reggia di Napoli, dove il re mite e le donne fiere tenevano la questione sospesa tra i consigli di chi voleva che Palermo fosse tutta ridotta in rovine, e il vecchio saggio Filangeri che ammoniva il Re, supplicandolo di non si mettere da sè, con quell’eccidio, al bando di tutta l’Europa liberale. E il suo consiglio prevalse. Così al terzo armistizio seguì una convenzione, per la quale i regi si obbligavano a sgombrar Palermo, però con l’onore delle armi. Garibaldi concesse. Andassero pure onorati! Erano italiani anch’essi, e nel trattarli così, egli poteva dire di riportare un’altra vittoria.
E il giorno 8 giugno fu uno strano spettacolo. Al cospetto di molto popolo in festa, dinanzi a forse quattrocento Cacciatori delle Alpi raccolti per quella cerimonia, sfilarono i ventimila soldati dell’esercito regio, soldati di tutte le armi. Dove andavano, dove si sarebbero ancora incontrati a combattere con quei loro vincitori che, così pochi, avevano dietro di loro l’Italia Nuova? Non sapevano, ma pareva sentissero che il mondo abbandonava il loro sovrano. Tuttavia, se passavano senza fierezza, non avevano aria avvilita. I soldati avevano combattuto. Allora Palermo festeggiò sè stessa magnificamente, e quelli che chiamava i suoi liberatori. Essi, in venticinque giorni dalla partenza da Genova, avevano vissuto quanto si può vivere in parecchi anni, e veduto e sentito quanto in un lungo viaggio, per terre di civiltà antiche e venerande. E avevano anche potuto meditare sugli effetti delle rivoluzioni compiutesi, durante l’ultimo secolo, nell’alta Italia, dove se le miserie della vita erano ancora molte, certa somma di beni s’era pur cumulata nelle città e nelle campagne, e di questi beni tutti ne avevano risentito. Ma là nell’Isola, rimasta nel silenzio e nella solitudine, senza essere stata toccata dalla rivoluzione francese, quasi tutto era ancora come doveva essere stato parecchi secoli indietro. Grandezze da principi in una classe ristretta; povertà, ignoranza e superstizione nella grossa moltitudine; e, salvo le grandi città, assenza quasi assoluta di quel ceto di mezzo colto, ricco, operoso, che nell’alta Italia teneva già sin da allora in pugno le sorti sociali. Però l’anima siciliana si rivelava pronta a liberarsi da quanto di troppo vecchio la impediva, e capace di rimettere in breve il gran tempo perduto. Ma queste eran cose da lasciarsi al poi. Per allora bastava che l’Italia spingesse avanti l’opera iniziata dai Siciliani e dai Mille. Questi si sarebbero modestamente confusi nell’onda grossa di volontari che essa avrebbe mandati, come infatti mandò.
Ma nei giorni che corsero tra lo sgombro dei regi e l’arrivo di quella che fu chiamata la seconda spedizione condotta dal Medici, le gioie che Palermo fece loro godere furono cose da novelle orientali. Banchetti e festini, uno che aspettava la fine dell’altro per cominciare. I Mille, smessi i panni borghesi, vi comparivano nelle loro fiammanti camicie rosse, mirabili le Guide nelle pittoresche divise tra ungheresi e francesi; mirabili i Carabinieri genovesi in un costume severo e quanto mai signorile.
Ogni tanto, però, si faceva qualche gran funerale di morti per ferite, perchè grandiosa e solenne doveva essere in Palermo anche l’ospitalità della tomba. Così certi umili volontari che, morti nelle loro case, sarebbero stati accompagnati al cimitero da pochi umili come loro, ebbero esequie da grandi. Quelle di Adolfo Azzi morto il 4 giugno, quelle del colonnello Tuköry morto il dì 8, furono apoteosi. Intanto alla gioia veniva a mescersi certa mestizia. Era di quella che le grandi cose lasciano nel cuore, quando sono compiute. Gli animi alacri e lieti della vigilia cambiano godimento nella tristezza di poi.
Quanto a quelli che avanzarono dopo Palermo, alcuni andarono a morir a Milazzo come Vincenzo Padula da Padula, Gaetano Erede da Genova e Giuseppe Poggi, il bello ed eroico Poggi, cui Garibaldi aveva ammirato a Calatafimi. Pilade Tagliapietra da Treviso, Giuseppe Profumo da Genova, Pietro Zenner da Vittorio e l’angelico Ernesto Belloni da Treviso, caddero a Reggio Calabria; Angelo Cereseto e Giovanni Battista Roggerone, Quirico e Pietro Traverso, tutt’e quattro genovesi, e Innocente Stella da Arsiero, morirono in battaglia sul Volturno, e a Villa Gualtieri, il 1° ottobre. Così in tutti, dei Mille, da Calatafimi al Volturno, quelli che morirono in quel grand’anno furono settantotto. Altri come il Nullo ed Elia Marchetti andarono presto a morir in Polonia cavalieri poeti della libertà; altri ancora come Raniero Taddei e Antonio Ottavi da Reggio Emilia e Stefano Messaggi milanese, morirono combattendo, ufficiali dell’esercito, a Custoza; o come Vincenzo Dalla Santa e Giuseppe Dilani camicie rosse, nel Trentino. Finirono a Mentana Vigo Pelizzari e Antonio Caretti; alcuni, come Giuseppe Gnecco da Genova e Luigi Perla da Bergamo, morirono in Francia, combattendo ne’ Vosgi contro i Prussiani. Di morte naturale, nei primi dieci anni dopo il ’60, morirono quelli che erano già quasi vecchi al tempo della spedizione, ma anche molti, massime dei più giovani, consumati dalla tisi. Non pochi finirono di malattie mentali; troppi si spensero da sè, non rimasti abbastanza forti alla vita.
Si dice che a Quarto sorgerà un giorno un monumento con su tutti i nomi dei Mille incisi nel marmo. Sarà cosa che onorerà la patria; ma lo scoglio da cui Garibaldi scese a imbarcarsi, è da sè monumento cui la poesia fece già più duraturo d’ogni marmo e d’ogni bronzo, essa che vince il silenzio dei secoli!