Storia di Lauretta/Parte prima

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Storia di Lauretta Parte seconda



Carlo Belmonte militò nella sua prima gioventù, e vide, ora vincitore, ora prigioniero, quasi tutte le contrade d’Europa. L’ultima pace lo ha restituito all’Italia. Florido ancor d’anni e di vita, e già disingannato delle fortune amorose, rivolse il suo fervido cuore alla dolcezza degli affetti domestici. I lucidi fantasmi della gloria militare non erano più per lui. Procreando figliuoli un valoroso soldato, ridivenuto cittadino, deve sdebitarsi verso l’umanità delle vite innocenti che nel corso di tante guerre può avere sacrificate. Belmonte era ricco, e deliberò di ammogliarsi.

Non appena si riseppe nella città di.... la sua risoluzione, Carlo si vide circondato a poco a poco da certi scaltri faccendieri, che abbondano in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Chi gli proponeva una partita alla campagna del conte C.... padre di tre belle e ricche fanciulle. Chi voleva condurlo alla popolosa conversazione di casa L.... dove intervengono molte savie madri e molte amabili damigelle, le quali con un’onestà senza pari cantano tutte le sere le ariette più tenere, e danzano i più stretti waltz che si sieno mai danzati. Carlo si disfece prestamente degl’importuni. «Signori miei, disse loro, io non regalo camice ai paraninfi»; e i paraninfi lo lasciarono solo.

Lauretta Elisei, figlia d’un povero pittore, abitava nella casa di Carlo un piccolo appartamento condotto in affitto dal di lei padre. La giovinetta era bella. Grandi occhi nerissimi; alta persona, e d’armoniche proporzioni; un volto espressivo sparso di quella pallidezza, che ora chiamano sentimentale.... era tale insomma da servir di modello per dipingere una Malvina, che guardando il cielo invochi sull’arpa il ben amato spirito dei prode figlio di Ossian. Carlo visitava sovente lo studio dei pittore. Si sarebbe detto che il buon militare cominciava a prender gusto per le belle arti.

Ho dimenticato di avvertire che Lauretta aveva, un anno prima, perduta infelicemente la madre. La circostanza è influentissima: il buon pittore amava assai la propria figlia, ma non amava meno l’arte sua. Fantasticava ognora nuovi soggetti e dipingeva tutto il giorno. La fanciulla, per non annojarsi, leggeva.

Così trascorrevano rapidamente per ambedue le volubili ore di questa affannosa e cara vita mortale. L’artista povero ed onorato si consolava della non curanza degli uomini, immaginando il bello ideale, e trasfondendolo sulle tele. E sua figlia studiando qualche libro di educazione, un po’ di storia, e leggendo alcuni buoni romanzi, fortificava la mente e nodriva il suo cuore meglio assai che non facciano nella frequenza del mondo le figlie de’ ricchi. È vero che la solitudine e la lettura preparavano quella bell’anima a sentire con forza l’inevitabile impero dell’amore. Ma io per me lodo quell’educazione che, salvando i costumi, coltiva nelle fanciulle un’indole appassionata. Atri lodino pure la falsa prudenza di que’ rigidi istitutori, che credono inconciliabili fra loro la sensibilità e la virtù; che vietano a questa il libero sorriso della gioja, e condannano come orribile delitto un brivido, un rossore improvviso, una lagrima d’amore. Più e più sempre comprimendo i moti spontanei de’ giovani cuori, gli stolti educatori ne inacerbiscono le passioni invece d’imbrigliarle; o ponendo per tutta perfezione una morta apatia, trasformano l’umano petto in un freddo deserto. Viene poi tempo che i fragili ripari di siffatta educazione sono posti alla prova tra le mille seduzioni del mondo; e allora veggiamo la vanità, l’interesse, la civetteria tenersi tirannicamente l’impero delle anime femminili.

Le visite di Carlo avevano destato il segreto sospiro della fanciulla. Non cedeva ella, come sogliono le sue pari, né allo splendore dell’uniforme, né ad una certa felice prepotenza che il mestiere dell’armi conferisce ai giovani valorosi. Ma quando pensava che in mezzo a tante stragi Carlo aveva conservato un carattere umano, che aveva corsi tanti pericoli e non se ne vantava; e che ministro della forza aveva nondimeno il costume d’essere amico dei deboli, ella non sapeva più resistere alla dolce simpatia che provava per lui.

Un giorno Carlo era salito per vedere un gran quadro di storia, che l’artista aveva condotto con amore, e che gli era ben riuscito. Rappresentava la pietà figliale d’Antigone, quando guidò a Colone Edipo vecchio e cieco, sbandito dal trono e da Tebe. Entrando, Carlo s’accorse d’una certa tristezza che velava i begli occhi della fanciulla e la fronte rugosa di suo padre. «Sig. Annibale, gli disse (questo era il nome dell’artista), non so se m’inganni, ma voi non siete lieto come al solito». «È ben vero, signor Belmonte, e la mia opera istessa è la cagione di questa tristezza». «Non ne siete contento? A me par bella? ». «Ve ne ringrazio: ma se ha qualche pregio lo devo tutto al soggetto ed alla tristezza che m’ha inspirato. Io ho veduto in Antigone la mia figlia, e nel povero vecchio ho veduto me stesso quando questa mano già stanca non potrà più guidare il pennello. Amara riflessione! Le belle arti non fruttano tesoro. Noi Italiani ce ne vantiamo, ma l’artista va nudo; e le Taidi ed i mimi trapassando in un cocchio dorato lo schiacciano per le vie. Quel po’ di nome che possiamo farci vivendo ne lo straziano in cento guise i competitori ed i falsi intelligenti: foro poi lo raccolgono i rivenditori di quadri, quando le nostre ossa giacciono tranquillamente nel seno della gran madre. Che sarà un giorno della mia povera figlia? Ha l’animo alto, sapete..., ella sarà infelice e abbandonata». Al suono di queste querele la giovinetta aveva già gli occhi pieni di lagrime. Voleva confortare suo padre, e non ardiva favellare in presenza di Carlo. Una striscia di fuoco solcava il pallore della sua faccia... Ella era per uscire. Allora Carlo riprese: «Fermatevi, Lauretta, ve ne scongiuro, e voi, nobile uomo, ascoltatemi. È vero pur troppo che la fortuna esalta quasi sempre i cattivi e calca i buoni: ma v’è pure qualche anima che s’innamora della virtù, la quale è tanto più amabile quando risiede in una bella persona. Io non sono avvezzo a lunghi preamboli. Ho ventotto anni e sono ricco; se vostra figlia non mi ricusa sarò marito a lei e figlio a voi».

La proposta giungeva affatto inaspettata. Annibale rimase interdetto e guardò sua figlia, che non osava sollevare gli occhi da terra. Le sue lunghe palpebre le ombreggiavano il volto, e lo rendevano ancor più modesto e più bello.

Riavutosi da quella grata sorpresa: «Sia Colonnello, rispose Annibale, qual ventura è mai questa, e quanta deve essere la mia gratitudine? Ma non mi patisce il cuore d’interrompere il corso della vostra fortuna. Voi dovete accasarvi nobilmente, ed accrescere con nuove ricchezze lo splendore della vostra famiglia. Che potrebbe mai recarvi in dote la povera figlia di un pittore?». «Ella mi recherà l’educazione che le avete data, il fiore eterno ed impassibile de’ suoi gentili costumi, e l’amore suo vero; dacché io so bene ch’ella non consentirà d’essere mia se il cuore non le dice che potrà amarmi. Decidete adunque, o Lauretta, del mio e del vostro destino». Allora la fanciulla diede tale sguardo a suo padre, che manifestò tacitamente tutta l’anima sua. Dopo quell’eloquente silenzio si conclusero tosto le nozze.

Coppia avventurosa e ben nata, quanto invidio la vostra condizione! Perché non sono io poeta? Non farei già risuonare intorno a voi le profane e ridicole cantilene, che l’Italia intuona per costume sul talamo, de’ potenti ben altri versi mi suggerirebbero lo spettacolo sacro della virtù felice tra gli affetti domestici. Questa, questa è la vera musa che io cerco; questa è quella, pur troppo, che non ho trovata finora.

Sparsasi la notizia del matrimonio di Belmonte, se ne parlò almeno per quindici giorni nelle conversazioni, nelle loggie del teatro, e nei caffè. Pareva che la città, non avesse altro a fare. Tanto è il bisogno del cicaleccio, e sì numerosa la turba delle teste vuote ed oziose, che un matrimonio diviene un affare di stato in mancanza di battaglie e di trattati di pace. I ghiottoni sapevano ridirti a puntino l’ordine del convito di nozze, e il numero de’ commensali. Gli avari dimandavano sogghignando con qual parte del suo patrimonio il colonnello Belmonte avrebbe assicurato la gran dote della figlia del pittore. Le matrone chiamavano scandalose queste nozze romanzesche. Le loro figlie poi non sapevano persuadersi come mai quel bel giovane si fosse inamorato d’una fanciulla che non possedeva bellezza alcuna, e che di giunta aveva il vizioso costume di leggere. Le ignorantelle chiamavanla ironicamente la letteratura. Meno ingiusti verso di lei erano i giovani eleganti della città, i quali però, colla loro solita gentilezza, si raffazzonavano allo specchio per prepararsi a farne la conquista.

Carlo aveva un numeroso e nobile parentado nella sua patria. Egli sapeva che varie famiglie, dal giorno delle sue nozze in poi, sdegnavano di riconoscerlo come parente; e se l’animo di lui fosse stato meno fermo ei certo non avrebbe osato di formare la felicità di quella povera fanciulla. Perniciosissima suol essere la stolta vanità degli uomini tanto pel male ch’essa opera, quanto pel bene che impedisce.

Innebbriati delle oneste dolcezze d’un amore santificato dal matrimonio, non si curavano gran fatto gli sposi Belmonte di stringere molte relazioni. Nondimeno avviene, quasi per caso, che si formino alcune conoscenze, le quali insensibilmente divengono un legame difficile a rompersi. Una vecchia signora, chiamata donna Eufrosia, cominciò a visitare di tanto in tanto la sposa. Frequentavano la casa di danna Eufrosia un don Gaudenzio vecchio sacerdote, che era il suo direttore di spirito, e certo sig. Buontempi, uomo di circa cinquant’anni, uno di que’ tali, il cui più favorito esercizio è quello delle mascelle, e che sono ognor pronti a dividere la noja delle vecchie signore per acquistarsi un buon pranzo. Donna Eufrosia aveva, pochi mesi prima, levata di monastero, e maritata poscia da lì a non molto sua figlia Eugenia con un avvocato riputatissimo della città; il quale per non perder tempo colla moglie le aveva accordato in servente il conte Frivolucci, giovane, come egli diceva, che per lo splendore della sua nascita faceva onore alla casa. Queste erano le persone con cui Lauretta, più per urbanità che per altro, passava qualche volta la sera a veglia. Le visite della galante Eugenia e del suo servente si succedevano con instancabile rapidità. Non si dava nuovo spettacolo al teatro senza che Lauretta venisse dolcemente violentata ad assistervi nella loggia di Eugenia e del Contino. Due o tre volte per settimana le conveniva ricevere al mattino la pietosa donna Eufrosia, che dopo la messa, accompagnata non di rado da don Gaudenzio, veniva a fargli esporre dogmaticamente i punti più oscuri di teologia. «Mia cara figliuola, diceva ella a Lauretta, io temo che voi siate assolutamente perduta se non ascoltate don Gaudenzio. Quello strano uomo di vostro padre non v’ha fatto istruire a fondo nella religione, e tolto il vangelo e l’officio della Vergine, non credo che abbiate mai letto verun libro di divozione. Ascoltate don Gaudenzio, vi dico. Egli v’insegnerà come dobbiate condurvi col marito e coi figli che avrete tra poco». Lauretta in fatti cominciava a dare non dubbj segni di fecondità.

Il tenore di vita che erosi stabilito in casa Belmonte contrastava sensibilmente col carattere delle persone che la frequentavano. Una sincera ma non fastosa pietà scaldava il cuore di Lauretta; e dall’altro lato i piaceri romorosi della città non la dilettavano troppo. Piuttosto che annojarsi all’Opera quaranta sere di fila a solo patto di esservi contemplata, ella si recava alla commedia, egregiamente allora rappresentata da una compagnia di comici francesi. Toccava l’arpa a maraviglia, e Carlo passava le iutiere ore a sentirla. Amavano la campagna, e soccorrevano pietosamente i contadini delle loro terre, che Carlo faceva coltivare coi migliori metodi d’agricoltura. L’originalità, la salute, l’allegria del padre di Lauretta compivano la domestica felicità di quella famiglia, la quale trovava altresì nelle belle arti un tesoro d’aggradevoli sensazioni. E nondimeno per non parer selvaggi ed inospitali continuavano a vivere con persone, le cui anime non formavano colla loro un’armonia.