Storia di Lauretta/Parte terza

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Parte terza

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Parte seconda



Tutto lieto il Contino d’aver ben recitato il suo magro complimento, s’era ridotto insieme a Buontempi in un giovane bosco di pini che si specchiava nel lago. Là cominciò coll’uomo servizievole a meditare i casi suoi.

«Questa mattina, gli disse ringalluzzandosi, ho fallito il colpo perché scioccamente non ho preveduto che la diplomatica Lauretta non avrebbe stretto il trattato in tua presenza. Io la credeva superiore a certe convenienze che non istanno col bon-ton. Tocca a te, mio caro Buontempi, a riparare il male accaduto. Sei tu capace d’avviarmi la bella verso questo boschetto un po’ dopo l’Ave Maria, e prima che s’illumini il giardino? Vorrei tentar di nuovo di. entrare nella grazia di lei». «Datemi parola da cavaliere che serberete il silenzio, e ve la mando senz’altro, sig. Contino. Non so resistere all’amicizia che m’inspirate; ma se altri lo risapesse....». «Non dubitare Buontempi; ti sarò grato in eterno, e tacerò». Buontempi Buontempi si sente allora gridare dalla parte d’un tempietto, cui proteggeva una folta macchia di lauri. Era la voce d’Eugenia, la quale accennava con mano al parassito di venire a lei. Corse a tutto potere il vile GNATONE, e s’inginocchiò quasi a’ piedi della signora supplicandola umilissimamente che gli facesse l’onore di comandargli. «Ascoltate Buontempi, disse sotto voce la doppiamente infedele. Io non ho mai dimenticato che quando la signora madre mi confidava talvolta alla vostra vigilanza, voi sapeste essere a tempo un Argo mansueto, che chiudeva i cento occhi con molta discrezione. La mia tavola, la mia casa sono a vostra disposizione.... ma.... via.... vorrei che mi capiste».

«Sì; v’indovino: avete un marito poverina! come tante altre. Un servente fastidioso.... eppoi, eppoi.... non parliamo di lui. E ora...?».

«E ora, mi tocca un amante timido».

«Timido il colonnello! un uomo che non temeva le batterie? ma prima di tutto, vi ama egli?».

«Mi ama certamente, ma terne di sua moglie, la quale non teme di lui. Sarebbe sciocchezza perdere l’amicizia del colonnello per non saperla afferrare. È una buona relazione, non meno nobile di quella del Contino, e se Lauretta non avesse le piccole idee, che deve avere la figlia di un pittore, vedreste com’egli saprebbe far brillare le sue ricchezze in bellissimi cavalli, in equipaggi d’ultimo gusto e in feste d’ogni sorta».

«Bisogna restituire al bel mondo questo mortale traviato, riprese Buontempi. Che posso io fare?».

«Quando il cielo si imbrunerà, mi sarà più facile liberarmi per qualche tempo della compagnia di Lauretta. Guidatelo voi come a diporto nel giardino, là verso quella grotta profonda posta di contro questo tempietto. Io mi ci troverò come per caso. La solitudine del loco, l’ora, le mie stesse parole spero che avranno potere d’inspirargli il coraggio necessario per offerirmi il suo cuore».

«Riposate sulla mia fede, conchiuse Buontempi, tutto sarà fatto».

Intanto una lieta musica di avene pastorali, di zampogne e di sistri si fece sentire dal lato orientale del giardino, che era già tutto coperto dall’ombra. I satiri e le driadi del mattino, restituiti al loro vero aspetto, intrecciavano danze e s’animavano col canto al tripudio de’ piedi. Alzavano sulle braccia i loro fanciulli, li palleggiavano nell’aria, e rappresentavano urta scena d’innocenza e d’allegria degna de’ buoni tempi dell’umanità. Eugenia ricevette con sussiego inamabile i loro mazzetti di fiori. Lauretta invece, aggirandosi in mezzo alla turba, sorrideva alle spose e accarezzava i loro fanciulli. Non poteva saziarsi d’ammirare quella teste bionde e ricciute, quei piccioli corpi ben disposti, quei volti pienotti e imporporati del lieto colore dell’aurora.

«Concedami il cielo, diceva ella alle contadine, di dare a mio marito un figlio simile ai vostri. Lo alimenterò dei mio latte, l’eserciterò alla fatica, al caldo ed al freddo come fate voi».

«Che idea malinconica è questa, soggiunse allora Eugenia. Voi perderete la vostra salute e la bellezza se vorrete allattare; ed allevando il vostro bambino alla contadinesca correrete pericolo d’abbreviare i suoi giorni. La gente di campagna nasce più robusta di noi».

«V’è un modo, rispose Lauretta, d’acquistare una pari robustezza».

«E qual’è? ».

«Bisogna come fanno essi custodire la salute coi buoni costumi».

In quel mentre sopraggiunse don Gaudenzio con donna Eufrosia, la quale si lagnava dell’insopportabile inciviltà di Annibale, che gli aveva abbandonata per disperdersi nella campagna.

«Lo avrà fatto per distrazione», disse Lauretta scusando suo padre.

«Eh che non credo nulla; dite piuttosto che è pieno soltanto d’idee mondane. Non pensa che a disegnare bei corpi e a lodare i bei volti. Bel mestiere veramente che è la pittura, tutto fatto per lusingare i sensi e per offendere i costumi. Andiamo, andiamo, don Gaudenzio, alla chiesetta vicina a finire un po’ meglio questa giornata».

Eugenia finse di essere pronta ad accompagnarli, ma intanto si dileguò per dare alcuni ordini ai domestici. Lauretta non poteva esporsi a salire un faticoso sentiero quantunque breve, e cercava di Carlo. Le si presentò allora Buontempi per incamminarla al boschetto de’ pini, ove gli pareva, diss’egli, di aver visto fra le piante il colonnello. Non isdegnarti, o lettore, di seguirmi tra questi piccoli avvenimenti, mentre io ti mostro un quadro de’ nostri costumi. Ben sai che non è mia colpa se siamo spregevoli ne’ vizi, e stoltamente intrattabili nell’orgoglio delle false virtù! Carlo aveva sortito sì nobile tempra dalla natura, che non poteva dissimulare ciò che sentiva in suo cuore. Quando per giusti riguardi gli era pur forza tacere, allora sfuggiva l’incontro degli altri e stavasi solo. Dopo aver errato gran tempo lungo le sponde del lago era tornato nel giardino, e s’avviava accidentalmente verso la grotta, seguendo il romore d’una fonte che sgorgava là dentro. Tutto, che aveva veduto ed ascoltato in quel giorno, dispiacevagli assai. Sdegnando quel cambio di corruzione, che viene chiamato nel mondo reciproca tolleranza, capiva benissimo che Lauretta ed Eugenia non potevano e non dovevano essere amiche; e che era vergogna per un suo pari lo starsi a fronte d’un ozioso damerino tra un’insulsa matrona ed un parassito. Assorto in queste riflessioni deliberava tra sé di troncare per l’avvenire ogni relazione con Eugenia e co’ suoi al primo incontro che si presentasse. Egli era lontano dall’immaginare, che l’occasione venisse allora ad offerirgli la chioma.

Già il silenzio regnava nel giardino, già il bosco de’ pini, il tempietto e la grotta erano sepolti e quasi confusi nell’oscurità della notte. Appena Buontempi ebbe indirizzata Lauretta verso la selva, si ritrasse asserendo di non voler disturbare i colloqui maritali. Ricalcando il sentiero già fatto, e oltrepassato il tempietto, vide Carlo che giungeva, e lo scansò destramente per compiere la sua doppia fatica. Eugenia era impaziente. Allo stormire di alcune foglie cadute e inaridite dal sole, Buontempi s’accorge che ella s’avvanza. Accennatale con un dito la grotta, ov’era già Carlo, la vile creatura s’allontana rapidamente.

Intanto il Contino spiando da tutte parti era uscito dal bosco, innoltrandosi sin quasi al tempietto, e poco mancò che non fermasse Eugenia mentre, passava, credendola Lauretta. Avvistosi in tempo, si ritira al bosco ed incontra la male amata donna, la quale cogli occhi desiosi cercava il marito. Ecco invece Frivolucci che baldanzoso di essere giovane e bello le prende arditamente una mano e gliela ricopre di baci.

«Non fuggirmi, adorabile Lauretta», sussurra sotto voce l’intraprendente.

«La fortuna è con me questa sera. So che non doveva comprometterti alla presenza di Buontempi, ma tu condona l’impazienza all’amore, ed accogli i miei sospiri nella solitudine di questo bosco».

«Signor Conte, delira ella? Alla presenza degli uomini e nella solitudine dei boschi io sono egualmente difesa contro i pari suoi dalla mia indifferenza ».

«Dunque la vostra è insensibilità?».

«È dovere, è amore, è sensibilità vera per l’unico uomo che mi ha fatta felice e che occupa tutto il mio cuore».

«Povera Lauretta quanto vivete ingannata. Il Colonnello ama Eugenia».

«Temerario! Non proseguire, o ch’io provocherò contro di te la giusta vendetta di mio marito».

«Il Colonnello ama Eugenia vi dico; egli le parla ora in segreto nel fondo di quella, grotta».

«Menzogna, orrenda menzogna!... Come puoi tu assicurarlo?».

«L’ho veduto io stesso avanzarsi tacitamente ed Eugenia seguirlo».

«Non è vero.... fu caso.... e se anche è vero, tanto più mi sei odioso, vile seduttore, che vuoi sforzarmi alla colpa collo spettacolo delle tue stesse vergogne».

«Inorgoglitevi pure, o Lauretta, del vostro rancido eroismo. Voi sarete ben infelice». «Infelice forse, ma non infedele, né vile».

Mentre correvano fra loro queste parole Lauretta era uscita dal bosco, e giunta al tempietto si soffermò appoggiandosi alla base di una colonna per non essere costretta a vedere in volto il suo persecutore, ed a continuare il cammino con lui. Qui doveva avvenire una scena inaspettata. Un momento prima che ella si abbattesse nel Contino, Eugenia aveva già visto il Colonnello stesso presso la grotta. Accostatasi a lui gli porse il braccio perché la guidasse, diceva, in quella oscurità a visitare la fonte. Intanto ella si stringeva tutta carezzevole e quasi paurosa alla sua scorta. Carlo non dava segno di vita. Affettando un’asprezza non sua, si burlò con Eugenia della di lei timidezza. «Abborro la brutta paura perfino nelle donne, le quali ho osservato che si mostrano timide per essere credute delicate e sensibili e non sono che ridicole ». Queste parole rimbombarono nella cavità della grotta quasi una terribile evocazione delle potenze infernali.

Eugenia sentì d’essere disprezzata e si dispiccò dal fianco del Colonnello. Un freddo ribrezzo d’amore deluso e di vanità vilipesa le pesava sul cuore. In quel mentre la campana della parrocchia, dopo aver sonata l’Ave Maria, diede il segno del De profundis. Che rapida e tormentosa associazione d’idee fu allora la tua, o debole Eugenia? ‘Nel giorno in cui son nata, pensasti fra te, ho tentato invano un delitto, e questo suono mi avverte che verrà pure il giorno della mia morte.... Verrà verrà, e forse l’uno non sarà diviso dall’altro più che l’alba nol sia dalla sera....’ Così le anime volgari ondeggiano sempre fra la colpa e la paura, fra il bene ed il male.

Taciti e divisi Eugenia e Carlo giungevano intanto al tempietto posto tra il bosco e la grotta, e giungevano nel momento che l’incauto Frivolucci pronunciava quelle parole «Il Colonnello ama Eugenia, vi dico, egli le parla ora in segreto nel fondo di quella grotta». Carlo fu lì lì per prorompere, pur si contenne. Eugenia stette sospesa, ripromettendosi di trovare un’altra colpevole. Profonda e diversa fu l’impressione che il restante dialogo fece su l’una e su l’altro. Quando, avanzatosi Carlo, pose lentamente una mano sulla spalla del timido Conte e con voce tuonante: «Miserabile, gli disse, come osi tu calunniarmi, e tentare la moglie di un uomo che ha più cuore di te e che non teme di morire? Ringrazia Iddio che io voglia ancora rispettare l’ospitalità; e godi dentro te stesse d’essere tanto spregevole, che io non degni farti scontare colla spada quest’obbrobriosa avventura.... Ma se ti senti uomo, parla». Un cupo silenzio di un lungo minuto succedette alle parale di Carlo. Non è duopo che io descriva la consolazione di Lauretta, lo scorno d’Eugenia, l’avvilimento del Conte. Mezzo inchinandosi, e mezzo balbettando alcune parole di scusa, scansò la compagnia. Eugenia si rivolse furiosamente per altro sentiero verso la casa. Lauretta e Carlo, rimasti soli, s’abbracciarono. Sorgeva intanto la luna nell’amabile pompa del suo patetico lume. «Benedetto il giorno, esclamò Carlo, che t’ho fatta mia, o cara Lauretta, innanzi agli altari. La tua anima è pura come questa candida luce che ora si riposa sovra i tuoi neri capelli; e tu sei tutta bella come il cielo che ne guarda, e come le acque ed i fiori che ne circondano. Ma fuggiamo questi luoghi; le loro delizie sorridono anche al vizio e non sono incontaminate come sei tu».

Così dicendo e baciandola in fronte, Carlo riconduceva la sua giovane donna, tutta assorta in un dolce silenzio di tenerezza e di piacere. Quand’ecco Annibale che correva alla lor volta. «Che v’indugiate voi?» disse l’artista. «Tutti sono già partiti: il mangiatore ed il damerino chiusi in una carozza, e la buona Eugenia in un’altra fra quelle due pietose sanguisughe d’Eufrosia e di don Gaudenzio. Mi fa meraviglia che v’abbiano bellamente piantati; ma mi consolo che almeno sarò con voi». «Gran cose abbiamo a dirvi, rispose Carlo. Intanto sappiate che Lauretta ed io, se non troveremo miglior compagnia, vogliamo d’ora in avanti conversare con voi solo, e colle creature fantastiche del vostro pennello».

Ebbero questo fine le mal assortite relazioni della casa Belmonte. Si cominciò a bisbigliarne in città. Frivolucci e Buontempi congegnarono alla meglio una certa loro favola che sparsero a tempo nel mondo. Eugenia si rappattumò col servente. Chi dava torto agli uni, chi agli altri. I più però consentivano nel dire che un pittore, un giocane militare ricco ed ammogliato, una donna bella, casta e leggitrice, dovevano essere un vero gruppo di strambi, e che non era possibile di convivere con una famiglia così romanzesca.