Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro secondo/Capo secondo

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CAPO SECONDO

(Dall’anno di Roma 546 al 709.)

I. Scipione in Sicilia. Il territorio locrese è devastato da bande armate che escono da Reggio. A Scipione, prima di passare in Affrica, è offerta occasione di ricuperar Locri. L’impresa è condotta a buon fine da lui medesimo accorsovi in persona; ed è reso vano il soccorso di Annibale. II. Fatti di Pleminio in Locri. Per ordine del Popolo Romano è condotto prigioniero in Reggio con altri trentadue suoi complici, e di quivi in Roma. Muore nel carcere. III. Annibale, vinto dal console Publio Sempronio, si ritrae in Crotone. È sollecitato da’ Cartaginesi a passare in Affrica. Sue atrocità prima di partire d’Italia. Scipione, tornando dall’Affrica vittorioso, tocca Sicilia, passa in Reggio, e va in Roma, tra le feste del popolo italiano. IV. Stato deplorabile dell’Italia dopo la seconda guerra punica. Condizione di Reggio. V. Le città italiche sono mutate quali in municipii, quali in colonie. Reggio dura città federata di Roma. VI. Malcontento de’ popoli italici. Guerra Sociale. Legge Giulia; legge Plozia. Battaglia di Ascoli. VII. I capitani della Lega Italica corrono sopra Reggio; la quale, ajutata da Cajo Norbano, pretore di Sicilia, resiste validamente. Morte di Popedio Silone, e termime della guerra. Tremuoto in Reggio. VIII. Effetti della legge Giulia. Reggio di città federata si trasmuta in municipio fundano; ma conserva le sue greche istituzioni e costumanze. IX. Guerra di Spartaco. Sue vicende, e morte. X. Stato di Reggio dopo la guerra di Spartaco sino a quella tra Cesare Ottaviano e Sesto Pompeo. Cicerone, fuggendo da Clodio, viene in Reggio.


I. Scipione, non ostante la contraria sentenza di Fabio Massimo, tirato il gran punto di trasferir nell’Affrica la guerra, si mise alla vela per la Sicilia con trenta triremi, e sopravi un settemila volontarii (An. di R. 549. av. Cr. 205). Posato nell’isola, per accrescersi grazia in quel popolo, elesse di vestire alla greca, ed affettar greche usanze. A quel tempo medesimo circa ottanta navi onerarie cartaginesi, che recavano provvisioni ad Annibale, venivano preda di Cneo Ottavio sulle coste di Sardegna. Mentre che Scipione stava per passare di Sicilia in Affrica, da un accidente per se stesso di poco momento raccolse cagione di sottrarre Locri a’ Cartaginesi, e ridarla a’ Romani; e fu questo.

Da Reggio, ove protetti dal presidio romano eransi raccettati tutti que’ Bruttii ed Italioti che non avevano voluto aderirsi a’ Cartaginesi, uscivano allo spesso numerose bande di armali a far correrie per i territorii di quelle città che stavano per Annibale. Avvenne una volta fra tante che tali bande si gittassero al guasto del territorio di Locri; e fattesi quasi fin sotto lo mura di questa città, avessero predato alcuni Locresi, a cui mancò tempo allo scampo. Nel novero de’ prigionieri eranvi taluni operai che lavoravano nella rocca di [p. 74 modifica]Locri. Cotesti menati in Reggio furono riconosciuti da que’ magnati Locresi, che come vedemmo vi si erano ricoverati quando li costrinse a fuggirsi da Locri l’avversa fazione che aveva tradito ad Annibale la loro patria. Ed interrogali del come stessero le cose interne di quella città, dettero speranza che se loro si prometteva di rimandarli in libertà, avrebbero praticato la restituzione di Locri ai Romani. Per la qual cosa condotti senza dimora in Siracusa da parecchi esuli Locresi, ripeterono alla presenza di Scipione le loro profferte. Ed il console, non volendo pretermettere quella congiuntura che poteva partorir buono effetto, accolse con lieto animo le parole de’ prigionieri. Ed indettatosi con quelli del modo di condurre la cosa, e divisato il tempo ed i segni, onde aveva a maturarsi, concedette loro la chiesta libertà, perchè si riconducessero in Locri ad attener la loro compromissione. Nel tempo stesso spacciò in Reggio i due tribuni militari Marco Sergio e Publio Malieno, acciocchè da quivi facessero muovere tremila soldati per Locri. Ed ordinò altresì in Reggio al propretore Quinto Pleminio che prestasse ogni suo concorso al bisogno. Furono preparate a tale uopo scale che dessero all’altezza della rocca locrese, e queste colà trasportate da’ soldati. Era già buona pezza di notte, quando i Romani giungevano da Reggio sotto le mura di Locri, così quatti quatti, ed in profondo silenzio. E come fu tempo, scambiati i segni cogli operai locresi, che già si mostravano di su la rocca, di primo lancio fu fatto impeto sulle scolte, i cui gemiti corsi alle orecchie dei loro compagni, ingenerarono un’indicibile costernazione, e tutto fu confusione e tumulto. A niuno di que’ di dentro era aperta la cagione del caso; e quando si accorsero che le dette scolte giacevano morte, il nemico era già salito a man salva: allora il dar all’armi, l’apprestarsi alla difesa, e l’ordinarsi alla pugna, fu tutt’uno. E certo i Romani, pochi ancora di numero, sarebbero stati accoppati, se le tumultuarie grida di quelli che rinfusi fuori della fortezza non sapevano che dirsi e che farsi, non facessero andato ogni vigoroso e risoluto proponimento. Sicchè, reputando i Cartaginesi che già la rocca fosse in balia de’ nemici, come più presto potettero la sgomberarono, e si ritrassero nell’altra rocca, che restava ivi a non molta distanza.

In tal maniera delle due rocche di Locri una era tenuta da Amilcare col presidio cartaginese, l’altra da Quinto Pleminio col presidio romano. La città rimaneva in potere de’ cittadini; premio a quale de’ due nemici vincesse. Quotidiane erano le reciproche ingiurie che si rimandavano Romani e Cartaginesi; ma come tosto Annibale intese l’avvenuto, vi accorse in ajuto de’ suoi. E sarebbe suc[p. 75 modifica]cessa a lui la vittoria sopra i Romani, se la moltitudine de’ Locresi, a cui tornò in quell’ora alla mente l’insolenza e l’avarizia affricana, non si fosse dimostrata a’ Romani favorevole. I quali nondimeno non avevano trascurato di spedir nunzii in Sicilia a Scipione a fargli nota la gravità dello stato, e come Annibale fosse in procinto dì soverchiarli con tutte le sue forze. E Scipione fattosi da Siracusa a Messana, ivi imbarcò sulle navi un buon rinfresco di gente, e si diresse a tutte vele per Locri. Quando fu colà pervenuto il giorno non durava che poche ore ed egli poneva in terra, ed introduceva nella città i soldati con tal prestezza che il sole non era ancor tramontato. Seppe in quel mentre che la rocca ov’erano i Romani, battuta da Annibale a gran furia, stava in estremo bisogno di arrendersi. Allora il duce romano, che dalla città aveva già introdotto nella fortezza gran parte de’ suoi, operò una sortita così subita e veemente, che Annibale ne restò trasecolato. E saputo che vi era entro Scipione, si tolse spacciatamente dall’assalto, e da Locri si allontanò con tutta la sua gente. Così questa città era restituita a’ Romani; e Scipione, lasciatovi un forte presidio sotto il prefetto Quinto Pleminio, fece ritorno a Messana con quelle milizie che seco aveva condotte.

II. Ma così fatte furono le scelleraggini e le rapine consumate da Pleminio in Locri (An. di R. 550. av. Cr. 204), (il quale imitando l’esempio di Dionisio e di Pirro, non aveva avuto ripugnanza di far suo il tesoro di Proserpina) che i Locresi se ne richiamarono vivamente in Roma al Senato ed al popolo. A così giuste querele una commozione grandissima si eccitò in Roma a favor de’ Locresi; e fu preso che i tribuni del popolo Claudio Marcello e M. Cincio Alimento, dieci legati, il pretore della Sicilia Marco Pomponio, ed un edile della plebe si recassero a Locri senza ritardo, e prendessero minuta informazione di quanto veniva imputato al prefetto. Il quale per sottrarsi alla burrasca che stava per riversarglisi in capo, fuggì di soppiatto da Locri per Napoli. Scoperto però quivi da Quinto Metello, uno de’ dieci legati, fu sostenuto e ricondotto per forza a Reggio, ove eziandio erano mandati presi da Locri quanti avevano tenuto mano alle sue enormezze.

Prima che ogni altra cosa, i legati ingiunsero a Pleminio di restituire a’ Locresi il tesoro di Proserpina; e ad essi Locresi fu ridonata libertà di reggersi al modo delle altre città federate. E da ultimo il pretore con pubblica grida annunziò che chiunque avesse a muover lamento contro Pleminio, il seguisse in Reggio. Donde poi il prigioniero con altri trentadue suoi complici fu trascinato a Roma [p. 76 modifica]in catene. Ivi perì meritamenle o di fastidio o di veleno nel carcere prima di esser giudicato dal popolo romano.

III. Ma gli avvenimenti precipitavano. Annibale, battuto appieno dal console Publio Sempronio, si cansava tra mesto e scorato verso Crotone. Ed intanto dall’Affrica continui messaggi il pressavano di accorrere a liberar la patria dalle orribili strette che le davano le legioni romane, accese a gloriose prove da Cornelio Scipione. Contuttociò Annibale di mala voglia si risolveva a cavarsi d’Italia; di quell’Italia ch’era stata testimone e campo delle sue glorie, ed ora delle sue sventure si rallegrava a baldanza. Prima della sua dipartita, (An. di R. 551. av. Cr. 203) Annibale collocò in quelle poche città de’ Bruttii (che come nella lieta, così gli erano rimaste amiche nella fortuna avversa) que’ suoi soldati ch’erano impotenti al militar servigio. E trucidò con matta ferocia nel tempio stesso di Giunone Lacinia, sino allora asilo inviolato degli sventurati, un gran numero di soldati italiani, che ritrosi a seguirlo nell’Affrica, vi si erano ricoverati. Così lasciava Annibale l’Italia, seco portando i residui del suo esercito; e le sue gesta che alla sua discesa delle Alpi avevano avuto al Ticino così glorioso principio, erano ora suggellate alla sua uscita con una atrocissima e sacrilega carneficina.

Dicesi che Annibale nella spianata di quel tempio avesse già fatto erigere una marmorea colonna, e scolpirvi la narrazione delle sue imprese in Italia. Avrebbe dovuto anche raccontare a’ posteri questa ultima impresa.

Faceva due anni dalla partenza di Annibale, (An. di R. 553. av. Cr. 201) allorchè Scipione vittorioso ritornava dall’Affrica a Lilibeo; donde avviato per Roma il più dell’armata, pigliò terra in Reggio, e, preso il cammino a traverso dell’Italia tra due file interminate di popolo, che si accalcava commosso a salutare il fortunato vincitore di Cartagine, entrava ovante in Roma.

IV. Tra le vicende della seconda guerra punica, combattuta per diciassette anni in Sicilia e in Italia, tutte queste contrade affogarono in tante calamità ed infortunii che la parola non può valere a narrarli. Ove già sorgeva potente, florida, e popolosa la Magna Grecia; ov’erano opulente città, scuole di antica sapienza, capolavori di arte greca, gara di nobilissimi studii e di utili traffichi, gentilezza di costumi, desterità di liberi e sottili ingegni; ov’erano feconde e deliziose campagne, lussuria di messi e di vigneti, abbondanza di ogni cosa attrattiva al vivere agiato e civile; ivi più non vedevi che la rigogliosa ortica tra un mucchio di poveri e spalcati casolari; non vedevi che terre deserte ed incolte, che popoli scaduti e sventura[p. 77 modifica]tissimi, a cui niun altra cosa avanzava che la nojosa memoria del tempo felice, e la presente abbiezione. All’operosità era succeduta l’ignavia, alla concitazione il silenzio, la morte alla vita. Allo stesso inclito nome di Magna Grecia era prevalso quello di Bruttii in mezzo alla rovina di tante famose repubbliche, scompigliate ed imbarbarite dalla violenza delle armi, e sotto le orme de’ feroci conquistatori. Un aspro e barbaro gergo, che non aveva alcun sapore dell’antico italico, tenne il luogo del morbido e delicato idioma degli Italioti. E gli stessi monumenti delle arti italiche, usciti illesi del guasto e del cozzo delle battaglie, erano da’ vincitori involati, e traportati quali in Roma, quali in Cartagine. Si volle insomma per ogni guisa cancellare il vestigio dell’antica civiltà degl’Italioti, come già erasene cancellata la nazione e lo stato.

Bisogna imperò affermare che in tal conquasso delle città e terre italiote, Reggio validamente tenuta da’ Romani, non fu mai tormentata dalle efferatezze de’ Cartaginesi o de’ Bruttii; e niuna fazione fu mai cotanta che sopraffacesse la cosa pubblica, e menomasse l’osservanza verso i Romani. Mentre la rimanente Italia laceravano le discordie interne; e le sue più nobili città, sguazzate dal dominio cartaginese al romano, e da questo a quello, secondo le vittorie e le sconfitte, non avevano mai posa. Reggio, non cessando di governarsi con le sue proprie leggi e costumanze, potè conservarsi intatta da ogni scoria straniera la sua indole greca nella favella, ne’ magistrati, nel culto religioso, nelle civili usanze. Nè trovo che innanzi a’ tempi di Augusto fosse stata mai compresa nella regione de’ Bruttii.

V. Al termine della seconda guerra punica, la condizione delle città d’Italia, e della loro federazione con Roma fu grandemente alterata. Conciossiachè avendo già molte di esse fatta volontaria defezione ad Annibale, i Romani vincitori, poichè le ebbero strappate al nemico, fecero stima di non essere più tenuti agli antichi patti. E di federate che erano, le mutarono in pena della loro slealtà, quali in municipii, quali in colonie. Reggio sola tra le città italiote, mantenutasi fedele a Roma, seguitò di esserle federata sino al pubblicarsi della legge Giulia. Di che sappiamo che nella guerra contro Filippo re di Macedonia, quando l’armata romana andò in Cefalonia (An. di R. 555. av. Cr. 199), per ordine del pretore Lucrezio, il costui fratello (che pur Lucrezio avea nome, ed era al comando della medesima) richiese, giusta i patti federali, a’ Reggini una trireme, due a’ Locresi, quattro a’ Bruttii, per unirle all’armata. Così pure nella guerra di Antioco, re di Siria (An. di R. 561 [p. 78 modifica]av. Cr. 193) Cajo Livio prefetto del navile romano, quando salpato con cinquanta navi da Roma per alla volta di Messana, iva richiedendo le navi che a tenor dei trattati dovevano prestare i Socii, erano tra costoro i Reggini, i Locresi, i Veliesi ed i Pestani.

Reggio, come dicemmo, non ebbe a sofferir nulla ne’ rivolgimenti che nelle vicine contrade erano avvenuti; nè fu perturbata, a quel che sembra, da interne commozioni per tutto il secolo, e più, trascorso dal fine della guerra di Annibale sino alla guerra Sociale. Questo fece che durasse popolosa e splendida di antiche e nuove arti e di lettere, e ricca di commerci. Di che ove tace la storia fanno indubitata testimonianza le antiche lapidi che tuttavia presso di noi si conservano, e che furono ampiamente interpretate ed illustrate da chiarissimi ed accurati scrittori.

Nella prima sedizione de’ servi in Sicilia (An. di R. 619. av. Cr. 135), attizzata da Euno di Apamea, e nell’altra da Salvio ed Atenione contro la spietata pressura de’ padroni romani, anche Reggio fu tentata fortemente dalle pratiche, che que’ servi ribelli aveano appiccate nel continente italico. Perciocchè s’ingegnavano a far che il tumulto pigliasse terreno, e desse di spalla alla loro impresa. Ma Reggio, non lasciatasi smuovere dalle sollecitazioni de’ servi siculi, stette salda con Roma.

VI. Cessata la guerra affricana, quanto più nella pace Roma erasi aggrandita di potenza e prosperità, tanto si andava aggravando su’ popoli italici. A’ quali tolto interamente lo stato di nazioni, non rimaneva nella perdita dell’indipendenza che il penoso dovere di lavorar la terra, e di buscarsi a stento quanto bastava al vivere necessario, ed a pagare (il che non sempre bastava) il tributo a’ loro superbi dominatori. Ma gl’Italici ricordevoli di quel ch’erano un tempo, pativano vergogna e rabbia dello stremo in che erano condotti oggimai da una repubblica, per la cui grandezza e sicurtà avevano fatto tanto getto di lor sangue, di loro armi, di lor fortuna. Cercarono prima con legali petizioni ed istanze al Senato di conseguire almanco che, a contrappeso di tante gravezze insopportabili, fosse loro concesso qualcuno de’ diritti della romana cittadinanza. E fattisi interpreti de’ loro voti prima Cajo Gracco, e poi Marco Livio Druso, fu proposta al Senato una legge che accordasse tal cittadinanza agl’Italici (An. di R. 632, av. Cr. 122); ma tutto fu indarno. Esacerbati per questo, e trovandosi d’altra parte affratellati dalla sventura, ed esercitati nelle armi sotto la scuola de’ loro dominatori, gl’Italici cominciarono a praticare di togliersi alla comune oppressione colla perseveranza del proposito, colla concordia [p. 79 modifica]de’ mezzi, collo sforzo delle armi (An. di R. 663, av. Cr. 91). Diedero la prima spinta all’impresa i Marsi, stimolati a ciò da un loro gran cittadino Popedio Silone, che ne fu prima autore, e poi duce. A collegarsi con que’ primi furono volenterosi e presti i Piceni, i Vestini, gli Appuli, i Lucani, ed i Bruttii; ed a mano a mano tatti gli altri popoli italici. Solo non vollero impigliarsi i Reggini, e l’altra gente italiota, a cui la federazione con Roma era costante, ed anzi utile che grave. Corfinio città de’ Peligni, posta quasi nel centro de’ popoli confederati, fu fatta capo della Lega, e la intitolarono Italia, a significare che a questa lega avessero ad abbracciarsi tutti gl’Italici. Furono creati due consoli, Quinto Popedio Silone, marsico, e Cajo Aponio, o come altri dice, Papio Mutilo, sannita. Erano ministri de’ loro ordini dodici Pretori, sei per ciascuno. Spartirono in due provincie l’Italia; nè durarono a’ Romani altri alleati che gli Umbri, gli Etruschi, ed i Latini a tramontana, ed a mezzodì le città italiote, tra le quali Reggio e Locri. Scorrendo Popedio, autore ed ordinatore dell’impresa, per ogni angolo dell’Italia, accendeva le città ed i popoli alle armi. E quando i primi fatti seguirono favorevoli a’ Socii, anche gli Umbri e gli Etruschi abbandonarono Roma, ed appresso i Latini. Popedio conduceva i Marsi ed i Latini, Afranio gli Umbri, Vezio Catone i Sanniti, e Telesino i Lucani ed i Bruttii. Dalla parte loro i Romani opposero Catone agli Etruschi, Gabinio a’ Marsi, Carbone a’ Lucani, e Silla a’ Sanniti. Ma la defezione degli Umbri, degli Etruschi, e de’ Latini aveva tanto sbigottito i Romani, che dubitando non il loro esempio riuscisse pernicioso, presero partito di condiscendere mezzanamente al desiderio di tutta Italia.

Allora il console Lucio Giulio Cesare, per consiglio ed autorità del Senato, promulgò una legge (An. di R. 664, av. Cr. 90) che concedeva il diritto della cittadinanza romana a quegli alleati che si erano mantenuti fedeli, ed a quelli altri che ritornerebbero volontariamente alla fede de’ Romani. Concorse a questa prima legge anche la legge Plozia, proposta dal tribuno Plauzio Silvano, la quale prometteva la cittadinanza romana a tutti gli stranieri già ammessi alla cittadinanza delle città federate, e che avessero domicilio in Italia. Queste due leggi, contentando in gran parte i malcontenti, tolsero molto nerbo alla lega. Ma quelli che avevano impugnato le armi, e che montavano a meglio che settantamila, non lasciandosi volgere dalle promesse di Roma, e levandosi a disegni più speciosi fecero massa in Ascoli. Ivi li provocò a giornata Strabone Pompeo che conduceva settantacinquemila Romani (An. di R. 665, av. Cr. 89). [p. 80 modifica]Fu combattuta la battaglia con prodigioso valore da ambe le parti; ma la vittoria arrise a’ Romani, ed Ascoli fu compiutamente disfatta, e trasse Corfinio nella sua rovina. Per questa terribile sconfitta cadde il fiato a’ Socii, e la lega andò perdendo terreno. Primi i Peligni, e poscia i Marsi si ricondussero all’alleanza romana. Rimaneva il peso e l’ordine della guerra a’ Sanniti ed a’ Lucani.

VII. Costoro, dopo la rotta di Ascoli, raccozzatisi con quanti altri Socii non disperavano ancora, e stavano fermi alle riscosse, tiraronsi nel paese de’ Bruttii, ove si rifecero e sostennero per assai tempo. Quivi con parte delle loro genti ponendo l’assedio a Tisia città forte di quella regione, si spinsero col grosso dell’esercito, capitanati da Popedio, Marco Aponio, e Tiberio Clepsio, all’assalto di Reggio (An. di R. 666, av. Cr. 88). Questa città aveva ributtato fermamente tutte le lusinghe praticate da’ Socii per averla amica, e tutte le minacce per averla suggetta. Eglino per contra volevano soggiogarla ad ogni modo, per aprirsi il passo, o la ritirata in Sicilia, qualora non potessero più oltre pettoreggiare i Romani. E per il vero, ridotti come si vedevano nell’estremità dell’Italia, avrebbero tirato un gran punto, se loro fosse succeduto l’insignorirsi di Reggio, ivi affortificarsi, ed aver fondamento di uno scampo nell’isola. Dove mettendo in combustione quel popolo, e sommovendo gli schiavi, che vi dimoravano assai malcontenti, promettevansi di poter lungamente sostenersi. Ma i loro computi furono tempo gittato. Reggio tenne la punta a’ nemici con incredibile bravura, ed ebbe opportuni ajuti da Cajo Nerbano, pretore di Sicilia. Perciocchè costui, come seppe il caso di Reggio, vi corse in fretta dalla prossima Messana con un fiore d’armati, e strinse il nemico a partirsi.

Con questo mal andato tentativo sopra Reggio pare che abbia avuto termine la guerra Sociale, che costò la vita a circa trecentomila cittadini. Imperciocchè morto in quel mezzo Popedio Silone, che l’aveva ordita e diretta, nè cessato durante il suo vivere di rilevarla da’ pessimi termini a che era venuta, le schiere de’ Socii che stavano tuttavia sulle armi, si disordinarono e dispersero. Circa questi tempi un violento tremuoto conquassò in molte parti l’Italia, e travagliò Reggio gravemente.

VIII. La conseguenza precipua ed immediata della legge Giulia, a cui diede occasione la guerra Sociale, si fu di trasformare moralmente l’Italia in una sola città, di abolire le distinzioni da’ Latini ad Italici, da Confederati a Coloni, e di ridurre così alla pari i loro diritti che tutte le città italiche, cessando di esser federale, o colonie, o altro che sia, andassero a fondersi o a dar fondo nella città [p. 81 modifica]di Roma, onde furon detti Municipii fundani; e tutti gl’Italici conseguirono a pieno la romana cittadinanza.

Non è men vero però che Roma, disserrando le sue porte a tanta moltitudine di cittadini, che ivi convenivano da ogni città italica, quando era tempo della tratta de’ magistrati della repubblica, allargò e poi sciolse il freno alle stemperate cupidità e gare d’uffizii, alle concioni tumultuarie, alle concitazioni demagogiche, e per conseguente a’ popolari bollori e tumulti. Onde fu partorita la rabbia delle guerre civili, che condussero la repubblica all’ultima perdizione.

Per effetto della legge Giulia Reggio di città federata si mutò in municipio senza suffragio, cioè conservando libertà di governarsi con leggi proprie. Poi la veggiamo convertita in municipio fundano; e ciò viene a dire che andò a fondersi nella cittadinanza romana, coll’ascrizione nelle tribù, col diritto del suffragio nella creazione dei magistrati della repubblica, coll’adito agli uffizii di Roma, e coll’adozione di parecchie leggi romane. Ma conservò sempre i suoi Arconti e Pritani, e le sue greche costumanze, anche dopo discesa alla condizione di colonia militare, come al suo luogo diremo; contuttochè già da gran tempo la consuetudine e la frequenza de’ Romani in queste regioni era così influente che i nomi proprii e gentilizii quasi tutti si conformavano alla guisa romana. E tutte queste cose che la storia non chiarisce abbastanza, ci sono comprovate con la irrepugnabile autenticità degli antichi marmi. Sappiamo che i Reggini erano ascritti in Roma a quella stessa tribù, a cui apparteneva la famiglia de’ Cornificii; ma quale fosse questa tribù non ci è manifesto. Durò Reggio nobile e splendido municipio romano sino al termine della guerra tra Cesare Ottaviano e Sesto Pompeo.

Questa gran città Italica però non comprendeva la Sicilia, la quale considerata da’ Romani fuori d’Italia, era chiamata per questo Provincia Suburbana.

IX. Alla guerra sociale succedette la civile tra Mario e Silla, ed a questa la servile attizzata da Spartaco. Il quale di generoso animo essendo, nè portando in pace l’abbiezione, a che era caduta la razza umana sotto la romana prepotenza, mise tutto se stesso a sollevarla (An. di R. 681, av. Cr. 73): e diede tali trafitture a quella repubblica, che se non fosse il valore e la perseveranza di Licinio Crasso, non sarebbe così presto uscita d’impaccio. Crasso, marciando risoluto con potente esercito contro Spartaco, lo scovò dagli Apennini, dove allora si attendava, ed il forzò ad arretrarsi nella Lucania, e da questa nel paese de’ Bruttii. E non perdendolo mai di vista, e costeggiandolo sempre colle sue coorti con avveduta lentezza, [p. 82 modifica]e senza provocarlo a battaglia, si avanzò sino a Consensa. Ma Spartaco, ch’era ivi presso, non l’aspettò, giudicando non poter tenervisi fermo, e perchè si era posto in mente di affurzarsi nelle vicinanze di Reggio. Donde, quando non gli fosse amica la fortuna, poteva effettuare il disegno già meditato di trafugarsi in Sicilia, dove l’oppressivo e violento governo del pretore Verre faceva la dominazione romana odiatissima. E Spartaco aveva già intelligenza co’ Siculi, che lo stimolavano a recarvisi per ridestare il fuoco, coperto ancora dalle calde ceneri della sollevazione di Salvio ed Atenione. A qual uopo gli si era promesso un buon numero di navi da corsali; ma queste non vennero; e fra di tanto la fortuna cominciava a scoprirglisi avversa. Nè perdeva coraggio, e si provò a tragittare lo Stretto per via di barchettini costrutti a tale intento col legname del luogo. Ma anche questo disegno rendeva vano l’indole burrascosa della stagione e del mare.

Crasso in questo mezzo aveva ordinate in guisa le sue schiere che a Spartaco dal mar Tirreno all’Ionio erano chiusi i passi per terra; e solo gli rimaneva l’alternativa o di salvarsi per mare, quando gli venissero a tempo le promesse navi, o di traforarsi per mezzo alle file nemiche. E’ già vedeva che ogni ulteriore ritardo gli avrebbe fatta impossibile qualunque via di salvezza; vedeva come in breve gli sarebbero mancati i viveri, e come i presidii romani di Reggio e di Locri sarebbero per premerlo a’ fianchi e alle spalle, quando Crasso continuasse a stringerlo così di vicino. Qui narrano gli storici un’opera gigantesca di Crasso, che con tutta la grandezza romana, a me pare favolosa. Dicono adunque che costui ispirato dalla natura del luogo, avesse concepita e messa in atto la costruzione di un fossato lungo quel tratto di terra che si stende dal seno Napetino allo Scillaceo; che in questo fossato, avente quindici piedi di larghezza e cotanti di profondità, fosse stata alzata una muraglia così alta che togliesse a Spartaco l’uscirsi della penisola Reggina. E Crasso metteva conto che mediante questo stupendo lavoro, Spartaco risecco per fame, sarebbe finalmente costretto a rendersi a discrezione; mentre intanto dalla parte del mare arriverebbe una armata romana per impedirgli la ritirata in Sicilia. Allora Spartaco, capito il disegno di Crasso, cercò di prevenirlo, determinato o di trovar salute, o di morir combattendo. Due volte in un giorno investì i Romani, e due volte ne fu riurtato con grandissima perdita, e scoraggimento de’ suoi. Aggiungi che un fior di soldati de’ presidii di Locri e di Reggio si posero a nojarlo a’ fianchi e alle spalle; ed egli correva or quinci or quindi col proposito di straccare i Romani [p. 83 modifica]che senza posa lo perseguitavano. A malgrado di tutto questo, profittando Spartaco di una notte burrascosa ed oscurissima, riuscì a forzare il passo in un punto, ove la muraglia non era ancor terminata. Di tal maniera che quando Crasso se ne fu accorto appena, Spartaco co’ suoi già si dilungava a gran giornate verso la Lucania. Ma i soldati di lui erano divenuti tanto insubordinati e divisi che quel male, che non potette il nemico, gli fecero i suoi medesimi. E Crasso che ciò seppe, correndogli sopra di colpo, con assai faciltà il mise in rotta collo sterminio di dodici mila combattenti. Contuttociò Spartaco, pugnando sempre da valoroso anche a fronte di Pompeo, che venuto testè dalla Spagna si era aggiunto a Crasso, cadde gloriosamente in mezzo ad una infinità di cadaveri nemici. Da questa sconfitta provenne un estremo abbattimento a’ popoli Italici, a’ quali era ritornata a balenar la speranza, che la guerra di Spartaco potesse offerir loro cagione di liberarsi dall’oppressione romana (An. di R. 683, av. Cr. 71).

X. Dopo que’ tempi Reggio ridivenne floridissima, e potette godere di una pace assai lunga, ed utile alla civil convivenza. Nè questo stato di cose venne mai perturbato sino al principiar della guerra tra Ottaviano e Sesto Pompeo. Reggio allora, non altrimenti che Locri, Vibona, Velia, Taranto, e Napoli, era senza dubbio una delle più ricche, popolose, e culte città dell'Italia greca. Arti greche, scenici artifizii, filosofiche dottrine erano tuttavia in gran favore; ed incliti uomini, fra i quali il poeta Licinio Archia da Antiochia, reputavansi a gloria l’aver ottenuta la cittadinanza reggina.

Tale era la città nostra, quando Cicerone, fuggendo la persecuzione di Clodio, venne a piedi da Pompei a Vibone, e da ivi a Reggio, donde faceva conto di trafugarsi senza dilazione in Sicilia. Ma il Pretore Cajo Virgilio, che pur gli era amico, ricusava di riceverlo; ed il grande oratore ritornando a Vibone, e facendo via verso Brindisi, da quivi dopo tredici giorni si metteva sopra una nave mercantile e moveva per Dirrachio, donde a Tessalonica.