Supplemento alla Storia d'Italia/XXXVII

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XXXVII - Bonaparte parla al Direttorio della sua condizione militare, amministrativa, e politica in Livorno

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XXXVII - Bonaparte parla al Direttorio della sua condizione militare, amministrativa, e politica in Livorno
XXXVI XXXVIII


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Dal Quartier Generale di Castiglione, 2 termidoro anno 4

(20 Luglio 1796)


XXXVII - Al Direttorio esecutivo.


Io debbo, cittadini Direttori, parlarvi della nostra condizione militare, amministrativa e politica in Livorno. [p. 63 modifica]

Le batterie che guardano il mare, sono in buono stato. Noi abbiamo restaurato una Cittadella dove la guernigione può mettersi in salvo da una sollevazione; e vi abbiamo in presidio 2,800 uomini di buonissima truppa, due compagnie d’artiglieria, ed un buono uffiziale del corpo degl’ingegnieri. Se l’esercito fosse costretto a lasciare il settentrione dell’Italia, questo presidio si ritirerebbe per Massa e per la riviera di Genova. Il Generale Vaubois, che n’è al comando, è un uomo prudente, fermo e buon militare.

Al momento del nostro ingresso in Livorno, io commisi al cittadino Belleville, console della Repubblica in questo porto, di apporre i sigilli sopra tutti i magazzini spettanti agl’Inglesi, Portoghesi, Russi ed agli altri potentati nostri nemici, non meno che ai negozianti di queste diverse nazioni. Avviso il cittadino Belleville ch’ei risponderà personalmente dei dilapidamenti che potessero aver luogo. Quest’uomo è generalmente stimato per la sua probità. Dopo la mia partenza una ciurma di trafficatori Genovesi è corsa ad impadronirsi di tutte queste ricchezze. Tutti i provvedimenti che io aveva preso, sono stati disordinati, e ad un solo responsabile si sono sostituite delle commissioni, dove tutti dilapidano scambievolmente fraudandosi. Voi troverete qui annesso l’estratto di due lettere del General Vaubois, si trattano i negozianti Livornesi con ogni maniera di durezza; e maggior rigore si usa con loro di quello che voi non avete intenzione che si usi con gli stessi negozianti Inglesi: ciò mette in costernazione il commercio di tutta Italia, fa che riguardati siamo come altrettanti Vandali, ne ha totalmente resi avversi i negozianti della città di Genova, e la massa del popolo di questa Città, che si è sempre mostrata a noi favorevole, si è ora mossa a gravissimo sdegno contro di noi.

Se la nostra condotta in Livorno, quanto alle faccende amministrative, è detestabile, la nostra condotta politica verso la Toscana non è migliore. Io mi sono sempre astenuto dal fare veruna sorta di proclama, ed ho espressamente ordinato che non si facesse alcun atto di governo. Voi vedrete dal proclama qui annesso, quanto [p. 64 modifica]poco si osservino i miei avvisamenti e gli ordini che io ho dato. Lo spediente di cacciar via gli emigrati da Livorno e da venti leghe all’intorno, per mezzo di un proclama, è inutile del pari che inconsiderato. Pochissimi sono in Livorno gli emigrati: il Granduca stesso ha dato ordine che ne siano espulsi. Era molto più semplice farne arrestare tre o quattro dalle autorità stesse del paese; che allora quei pochi che vi fossero restati, si sarebbero prestamente salvati. Questo proclama, coll’arrogarsi che vi si fa di una giurisdizione di venti leghe di paese, è di un pessimo effetto, a meno che non vogliasi (il che è contrario affatto alle istruzioni da voi date) assumere il tuono e la politica dell’antica Roma.

Gli Inglesi si sono impadroniti di Porto Ferrajo. Signori come essi sono del mare, era difficile l’opporsi a questa impresa. Quando noi occupata avremo la Corsica, lo che presto avverrà, allora ci sarà possibile di scacciarli da quell’isola. Voi troverete qui annessa copia della lettera che mi ha scritta il Granduca di Toscana, di quella del nostro Ministro a Firenze, e la copia della risposta.

Nell’attuale condizione delle cose d’Italia, bisogna procurare di non farci alcun nuovo nemico, ed attender l’esito della Campagna per pigliare un partito conveniente ai veri interessi della Repubblica. Apprenderete allora senza dubbio non convenirvi di lasciare il ducato di Toscana al fratello dell’Imperatore. Io bramerei che sino a quel tempo non si venisse ad alcuna minaccia, né a risoluzione alcuna in Livorno contro la Corte di Toscana. Si vanno investigando le più piccole parole che da me e dai vostri Commissarj si fanno, e insieme poi con grand’importanza confrontansi.