Temistocle/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA I
Deliziosa nel palazzo di Serse.
Temistocle e Neocle.
Neocle. Lascia ch’io vada
quel superbo a punir. Vedesti, o padre,
come ascoltò le tue richieste? E quanti
insulti mai dobbiam soffrir?
Temistocle. Raffrena
gli ardori intempestivi. Ancor supponi
d’essere in Grecia, e di vedermi intorno
la turba adulatrice,
che s’affolla a ciascun quando è felice?
Tutto, o Neocle, cambiò. Debbono i saggi
adattarsi alla sorte. È del nemico
questa la reggia: io non son più d’Atene
la speranza e l’amor. Mendico ignoto,
esule, abbandonato,
ramingo, discacciato,
ogni cosa perdei: sola m’avanza,
e il miglior mi restò, la mia costanza.
Neocle. Ormai, scusa, o signor, quasi m’irríta
questa costanza tua. Ti vedi escluso
che il tuo sangue serbò; trovi per tutte
della patria inumana
l’odio persecutor che ti circonda,
che t’insidia ogni asilo, e vuol ridurti
che a tal segno si venga,
che non abbi terren che ti sostenga;
e lagnar non t’ascolto!
e tranquillo ti miro! Ah! come puoi
soffrir con questa pace
perversitá sí mostruosa?
Temistocle. Ah! figlio,
nel cammin della vita
sei nuovo pellegrin: perciò ti sembra
mostruoso ogni evento. Il tuo stupore
non condanno però: la meraviglia
dell’ignoranza è figlia
e madre del saper. L’odio, che ammiri,
è de’ gran benefizi
la mercé piú frequente. Odia l’ingrato,
e assai ve n’ha, del benefizio il peso
nel suo benefattor; ma l’altro in lui
ama all’incontro i benefizi sui.
Perciò diversi siamo:
quindi m’odia la patria, e quindi io l’amo.
Neocle. Se solo ingiusti, o padre,
fosser gli uomini teco, il soffrirei;
ma con te sono ingiusti ancor gli dèi.
Temistocle. Perché?
Neocle. Di tua virtú premio si chiama
questa misera sorte?
Temistocle. E, fra la sorte
o misera o serena,
sai tu ben quale è premio e quale è pena?
Neocle. Come?
Temistocle. Se stessa affina
nelle felicitá. Limpida è l’onda
rotta fra’ sassi, e, se ristagna, è impura.
Brando, che inutil giace,
splendeva in guerra, è rugginoso in pace.
Neocle. Ma il passar da’ trionfi
a sventure sí grandi...
Temistocle. Invidieranno
forse l’etá future,
piú che i trionfi miei, le mie sventure.
Neocle. Sia tutto ver. Ma qual cagion ti guida
a cercar nuovi rischi in questo loco?
L’odio de’ greci è poco? Espor de’ persi
anche all’ire ti vuoi? Non ti sovviene
che l’assalita Atene
uscí per te di tutta l’Asia a fronte,
Serse derise e il temerario ponte?
Deh! non creder sí breve
l’odio nel cor d’un re. Se alcun ti scopre,
a chi ricorri? Hai gran nemici altrove:
ma qui son tutti. A ciascheduno ha tolto,
nella celebre strage, il tuo consiglio
o l’amico o il congiunto o il padre o il figlio.
Deh! per pietá, signore,
fuggiam...
Temistocle. Taci: da lungi
veggo alcuno appressar. Lasciami solo;
attendimi in disparte.
Neocle. E non poss’io
teco, o padre, restar?
Temistocle. No: non mi fido
della tua tolleranza; e il nostro stato
molta ne chiede.
Neocle. Ora...
Temistocle. Ubbidisci.
Neocle. Almeno
abbi cura di te.
Temistocle. Va’; taci e spera.
Neocle. Ch’io speri! Ah! padre amato
e come ho da sperar?
Qual astro ha da guidar
la mia speranza?
Mi fa tremar del fato
l’ingiusta crudeltá;
ma piú tremar mi fa
la tua costanza. (parte)
SCENA II
Aspasia, Sebaste e Temistocle in disparte.
quegli mi par: sará men rozzo. A lui
chieder potrò... Ma una donzella è seco,
e par greca alle vesti.)
Aspasia. (a Sebaste) Odi.
Sebaste. (in atto di partire) Non posso,
bella Aspasia, arrestarmi:
m’attende il re.
Aspasia. Solo un momento. È vero
questo barbaro editto?
Sebaste. È ver. Chi a Serse
Temistocle conduce estinto o vivo,
grandi premi otterrá. (incamminato per partire)
Aspasia. (Padre infelice!)
Temistocle. Signor, dimmi, se lice (incontrando Sebaste)
tanto saper: può del gran Serse al piede
ciascuno andar? quando è permesso, e dove?
Aspasia. (Come il padre avvertir?)
Sebaste. (a Temistocle con disprezzo) Chiedilo altrove.
m’avverti dell’error. Stranier son io
e de’ costumi ignaro.
Sebaste. Aspasia, addio.
(dopo aver guardato Temistocle come sopra, parte)
SCENA III
Temistocle ed Aspasia.
Aspasia. (A queste sponde, o numi,
deh! non guidate il genitor.)
Temistocle. (Si cerchi
da questa greca intanto
qualche lume miglior.) Gentil donzella,
se il ciel... (Stelle, che volto!)
Aspasia. (Eterni dèi!
è il genitore, o al genitor somiglia.)
Temistocle. Di’...
Aspasia. Temistocle!
Temistocle. Aspasia!
Aspasia. | (s’abbracciano) | Ah, padre! | |
Temistocle. | Ah, figlia! |
Temistocle. E tu vivi?
Aspasia. Ah! fuggi,
caro mio genitor. Qual ti condusse
maligna stella a questa reggia? Ah! Serse
vuol la tua morte: a chi ti guida a lui
premi ha proposti... Ah! non tardar: potrebbe
scoprirti alcun.
Temistocle. Mi scoprirai con questo
eccessivo timor. Di’: quando in Argo
io ti mandai per non lasciarti esposta
non si perdé?
Aspasia. Sí, naufragò, né alcuno
campò dal mare. Io, sventurata, io sola
alla morte rapita,
con la mia libertá comprai la vita.
Temistocle. Come?
Aspasia. Un legno nemico all’onde... oh Dio!
lo spavento m’agghiaccia... all’onde insane
m’involò semiviva;
prigioniera mi trasse a questa riva.
Temistocle. È noto il tuo natal?
Aspasia. No: Serse in dono
alla real Rossane
mi die’ non conosciuta. Oh, quante volte
ti richiamai! con quanti voti il cielo
stancai per rivederti! Ah, non temei
sí funesti adempiti i voti miei!
Temistocle. Rasserénati, o figlia: assai vicini
han fra loro i confini
la gioia e il lutto; onde il passaggio è spesso
opra sol d’un istante. Oggi potrebbe
prender la nostra sorte un ordin nuovo:
giá son meno infelice or che ti trovo.
Aspasia. Ma qual mi trovi! in servitú. Qual vieni!
solo, proscritto e fuggitivo. Ah! dove,
misero genitor, dov’è l’usato
splendor che ti seguía? le pompe, i servi,
le ricchezze, gli amici?... Oh, ingiusti numi!
oh, ingratissima Atene!
e il terren ti sostiene! e oziosi ancora
i fulmini di Giove...
Temistocle. Olá, piú saggia
regola, Aspasia, il tuo dolor. Mia figlia
non è chi può lo scempio
della patria bramar; né un solo istante
tollero in te sí scellerata idea.
Temistocle. Mai piú...
Aspasia. Parti una volta,
fuggi da questo ciel.
Temistocle. Di che paventi,
se ignoto a tutti...
Aspasia. Ignoto a tutti! E dove
è Temistocle ignoto? Il luminoso
carattere dell’alma, in fronte impresso,
basta solo a tradirti. Oggi piú fiero
sarebbe il rischio. Un orator d’Atene
in Susa è giunto. A’ suoi seguaci, a lui
chi potrebbe celar...
Temistocle. Dimmi: sapresti
a che venga e chi sia?
Aspasia. No, ma fra poco
il re l’ascolterá. Puoi quindi ancora
il popolo veder, che giá s’affretta
al destinato loco.
Temistocle. Ognun, che il brami,
andar vi può?
Aspasia. Sí.
Temistocle. Dunque resta: io volo
a render pago il desiderio antico,
che ho di mirar dappresso il mio nemico.
Aspasia. Ferma! misera me! che tenti? Ah! vuoi
ch’io muoia di timor? Cambia, se m’ami,
cambia pensier. Per questa mano invitta,
che supplice e tremante
torno a baciar; per quella patria istessa,
che non soffri oltraggiata,
che ami nemica e che difendi ingrata...
Temistocle. Vieni al mio sen, diletta Aspasia. In questi
palpiti tuoi d’un’amorosa figlia
conosco il cor. Non t’avvilir. La cura
di me lascia a me stesso. Addio. L’aspetto
dal padre intanto a disprezzare impara.
Al furor d’avversa sorte
piú non palpita e non teme
chi s’avvezza, allor che freme,
il suo volto a sostener.
Scuola son d’un’alma forte
l’ire sue le piú funeste,
come i nembi e le tempeste
son la scuola del nocchier. (parte)
SCENA IV
Aspasia e poi Rossane.
che tremar non mi senta.
Rossane. Aspasia, io deggio
di te lagnarmi. I tuoi felici eventi
perché celar? Se non amica, almeno
ti sperai piú sincera.
Aspasia. (Ah! tutto intese.
Temistocle è scoperto.)
Rossane. Impallidisci!
non parli! È dunque ver? Sí gran nemica
ho dunque al fianco mio?
Aspasia. Deh! principessa...
Rossane. Taci, ingrata! Io ti scopro
tutta l’anima mia, di te mi fido;
e tu m’insidi intanto
di Serse il cor!
Aspasia. (D’altro ragiona.)
Rossane. È questa
de’ benefizi miei
la dovuta mercé?
e m’insulti e ti sdegni. Il cor di Serse
possiedi pur, non tel contrasto: io tanto
ignota a me non sono,
né van le mie speranze insino al trono.
Rossane. Non simular. Mille argomenti ormai
ho di temer. Da che ti vede, io trovo
Serse ogni dí piú indifferente; osservo
come attento ti mira; odo che parla
troppo spesso di te, che si confonde
s’io d’amor gli ragiono; e, mendicando
al suo fallo una scusa,
della sua tiepidezza il regno accusa.
Aspasia. Pietoso e non amante
forse è con me.
Rossane. Ciò, che pietá rassembra,
non è sempre pietá.
Aspasia. Troppa distanza
v’è fra Serse ed Aspasia.
Rossane. Assai maggiori
ne agguaglia Amor.
Aspasia. Ma una straniera...
Rossane. Appunto
questo è il pregio ch’io temo. Han picciol vanto
le gemme lá dove n’abbonda il mare:
son tesori fra noi, perché son rare.
Aspasia. Rossane, per pietá, non esser tanto
ingegnosa a tuo danno. A te fai torto,
a Serse e a me. Se fra le cure acerbe
del mio stato presente avesser parte
quelle d’amor, non ne sarebbe mai
il tuo Serse l’oggetto. Altro sembiante
porto nel core impresso; e Aspasia ha un core
che ignora ancor come si cambi amore.
Rossane. Tu dunque...
SCENA V
Sebaste e dette.
se vuoi mirarlo, or l’orator d’Atene
al re s’invia.
Rossane. Verrò fra poco.
Aspasia. (a Sebaste)Ascolta.
È ancor noto il suo nome?
Sebaste. Lisimaco d’Egisto.
Aspasia. (Eterni dèi!
questi è il mio ben.) Ma perché venne?
Sebaste. Intesi
che Temistocle cerchi.
Aspasia. (Ancor l’amante
nemico al padre mio! Dunque fa guerra
contro un misero sol tutta la terra!)
Rossane. Precedimi, Sebaste. (parte Sebaste) Aspasia, addio.
Deh! non tradirmi.
Aspasia. Ah! scaccia
questa dal cor gelosa cura. E come
può mai trovar ricetto
in un’alma gentil sí basso affetto?
Rossane. Basta dir ch’io sono amante,
per saper che ho giá nel petto
questo barbaro sospetto,
che avvelena ogni piacer;
che ha cent’occhi, e pur travede;
che il mal finge, — il ben non crede;
che dipinge — nel sembiante
i deliri del pensier. (parte)
SCENA VI
Aspasia sola.
vien Lisimaco istesso! Ah! l’incostante
giá m’obbliò: mi crede estinta, e crede
che agli estinti è follia serbar piú fede.
Questo, fra tanti affanni,
questo sol mi mancava, astri tiranni.
Chi mai d’iniqua stella
provò tenor piú rio?
chi vide mai del mio
piú tormentato cor?
Passo di pene in pene;
questa succede a quella;
ma l’ultima, che viene,
è sempre la peggior. (parte)
SCENA VII
Luogo magnifico destinato alle pubbliche udienze. Trono sublime da un lato. Veduta della cittá in lontano.
Temistocle e Neocle: indi Serse e Sebaste
con numeroso séguito.
il tuo pensier. Temo ogni sguardo, e parmi
che ognun te sol rimiri. Ecco i custodi
e il re: partiam.
Temistocle. Fra il popolo confusi
resteremo in disparte.
Neocle. È il rischio estremo.
Neocle. (Io tremo.)
(si ritirano da un lato)
Serse. Olá! venga e s’ascolti
il greco ambasciador. (parte una guardia)
Sebaste, e ancora
all’ire mie Temistocle si cela?
allettano sí poco
il mio favor, le mie promesse?
Sebaste. Ascoso
lungamente non fia: son troppi i lacci
tesi a suo danno.
Serse. Io non avrò mai pace
fin che costui respiri. Egli ha veduto
Serse fuggir. Fra tante navi e tante,
onde oppressi l’Egeo, sa che la vita
a un vile angusto legno
ei mi ridusse a confidar; che poca
torbid’acqua e sanguigna
fu la mia sete a mendicar costretta,
e dolce la stimò bevanda eletta.
E vivrá chi di tanto
si può vantar? No, non fia vero: avrei
questa sempre nel cor smania inquieta. (va sul trono)
Neocle. (Udisti?)
Temistocle. (Udii.)
Neocle. (Dunque fuggiam.)
Temistocle. (T’accheta.)
SCENA VIII
Lisimaco con séguito di greci, e detti.
non solo Atene onora
la real maestá, ma dal tuo core,
maggior di tutti i doni.
Serse. Pur che pace non sia, siedi ed esponi. (Lisimaco siede)
Neocle. (È Lisimaco?) (a Temistocle)
Temistocle. (Sí.) (a Neocle)
Neocle. (Potria giovarti
un amico sí caro.)
Temistocle. (O taci o parti.)
Lisimaco. L’opprimer chi disturbi
il pubblico riposo è de’ regnanti
interesse comun. Debbon fra loro
giovarsi in questo anche i nemici. A tutti
nuoce chi un reo ricetta,
ché la speme d’asilo a’ falli alletta.
Temistocle (ah! perdona,
amico sventurato) è il delinquente,
che cerca Atene. In questa reggia il crede;
pretenderlo potrebbe; in dono il chiede.
Neocle. (Oh domanda crudele!
oh falso amico!)
Temistocle. (Oh cittadin fedele!)
Serse. Esaminar per ora,
messaggier, non vogl’io qual sia la vera
cagion per cui qui rivolgesti il piede,
né quanto è da fidar di vostra fede.
So ben che tutta l’arte
dell’accorto tuo dir punto non copre
l’ardir di tal richiesta. A me che importa
il riposo d’Atene? Esser degg’io
de’ vostri cenni esecutor? Chi mai
questo nuovo introdusse
obbligo fra’ nemici? A dar venite
leggi o consigli? Io non mi fido a questi,
quelle non soffro. Eh! vi sollevi meno
l’aura d’una vittoria; è molto ancora
la greca sorte incerta;
è ancor la via d’Atene a Serse aperta.
Temistocle esser può?
Serse. Vi sará noto,
quando si trovi in mio poter.
Lisimaco. Finora
dunque non v’è?
Serse. Né, se vi fosse, a voi
ragion ne renderei.
Lisimaco. Troppo t’accieca
l’odio, o signor, del greco nome; e pure
se in pacifico nodo...
Serse. Olá! di pace
ti vietai di parlarmi.
Lisimaco. È ver; ma...
Serse. Basta!
Intesi i sensi tuoi;
la mia mente spiegai: partir giá puoi.
Lisimaco. Io partirò; ma, tanto
se l’amistá ti spiace,
non ostentar per vanto
questo disprezzo almen.
Ogni nemico è forte,
l’Asia lo sa per prova;
spesso maggior si trova,
quando s’apprezza men. (parte)
SCENA IX
Serse, Sebaste, Temistocle e Neocle.
credon, Sebaste, i greci? Ah! cerca e spia
se fosse vero: il tuo signor consola.
Questa vittima sola
l’odio, che il cor mi strugge,
calmar potrebbe.
Temistocle. (Ecco il punto: all’impresa!) (si fa strada fra le guardie)
Neocle. (Ah, padre! ah, senti!)
Temistocle. Potentissimo re. (presentandosi dinanzi al trono)
Sebaste. Che ardir! (alle guardie) Quel folle
dal trono s’allontani.
Temistocle. Non oltraggiano i numi i voti umani.
Sebaste. Parti.
Serse. No, no: s’ascolti.
Parla, stranier: che vuoi?
Temistocle. Contro la sorte
cerco un asilo, e non lo spero altrove:
difendermi non può che Serse o Giove.
Serse. Chi sei?
Temistocle. Nacqui in Atene.
Serse. E greco ardisci
di presentarti a me?
Temistocle. Sí. Questo nome
qui è colpa, il so; ma questa colpa è vinta
da un gran merito in me. Serse, tu vai
Temistocle cercando: io tel recai.
Serse. Temistocle! Ed è vero?
Temistocle. A’ regi innanzi
non si mentisce.
Serse. Un merito sí grande
premio non v’è che ricompensi. Ah! dove
quest’oggetto dov’è dell’odio mio?
Temistocle. Giá sugli occhi ti sta.
Serse. Qual è?
Temistocle. Son io.
Serse. Tu!
Temistocle. Sí!
Neocle. (Dove m’ascondo?) (parte)
Serse. E cosí poco
temi dunque i miei sdegni?
Dunque...
de’ giuochi della sorte
un esempio, o signor. Quello son io,
quel Temistocle istesso,
che scosse giá questo tuo soglio, ed ora
a te ricorre, il tuo soccorso implora.
Ti conosce potente,
non t’ignora sdegnato; e pur la speme
d’averti difensore a te lo guida:
tanto, o signor, di tua virtú si fida.
Sono in tua man: puoi conservarmi, e puoi
vendicarti di me. Se il cor t’accende
fiamma di bella gloria, io t’apro un campo
degno di tua virtú: vinci te stesso,
stendi la destra al tuo nemico oppresso.
Se l’odio ti consiglia,
l’odio sospendi un breve istante, e pensa
che vana è la ruina
d’un nemico impotente, util l’acquisto
d’un amico fedel; che re tu sei,
ch’esule io son, che fido in te, che vengo
vittima volontaria a questi lidi.
Pensaci, e poi del mio destin decidi.
Serse. (Giusti dèi! chi mai vide
anima piú sicura?
qual nuova spezie è questa
di virtú, di coraggio? A Serse in faccia
solo, inerme e nemico
venir, fidarsi... Ah! questo è troppo.) Ah! dimmi,
Temistocle: che vuoi? con l’odio mio
cimentar la mia gloria? Ah! questa volta
non vincerai. Vieni al mio sen:
(scende dal trono ed abbraccia Temistocle)
m’avrai
qual mi sperasti. In tuo soccorso aperti
saranno i miei tesori; in tua difesa
fia Temistocle e Serse un nome istesso.
Temistocle. Ah! signor, fin ad ora
un eccesso parea la mia speranza,
e pur di tanto il tuo gran cor l’avanza.
Che posso offrirti? i miei sudori? il sangue,
la vita mia? Del benefizio illustre
sempre saran minori
la mia vita, il mio sangue, i miei sudori.
Serse. Sia Temistocle amico
la mia sola mercé. Le nostre gare
non finiscan però. De’ torti antichi
se ben l’odio mi spoglio,
guerra con te piú generosa io voglio.
Contrasto assai piú degno
comincerá, se vuoi,
or che la gloria in noi
l’odio in amor cambiò.
Scórdati tu lo sdegno,
io le vendette obblio;
tu mio sostegno, ed io
tuo difensor sarò. (parte con Sebaste e séguito)
SCENA X
Temistocle solo.
cangi d’aspetto! A vaneggiar vorresti
trarmi con te. No; ti provai piú volte
ed avversa e felice; io non mi fido
del tuo favor; dell’ire tue mi rido.
Non m’abbaglia quel lampo fugace;
non m’alletta quel riso fallace;
non mi fido, non temo di te.
pur la serpe s’asconde, s’aggira;
so che in aria talvolta s’ammira
una stella, che stella non è. (parte)
SCENA XI
Aspasia e poi Rossane.
misera! il genitor? Nol veggo, e pure
qui si scoperse al re. Neocle mel disse:
non poteva ingannarsi. Ah, principessa,
pietá, soccorso! Il padre mio difendi
dagli sdegni di Serse.
Rossane. Il padre!
Aspasia. Oh Dio!
Io son dell’infelice
Temistocle la figlia.
Rossane. Tu! come?
Aspasia. Or piú non giova
nasconder la mia sorte.
Rossane. (Aimè! la mia rival si fa piú forte.)
Aspasia. Deh! generosa implora
grazia per lui.
Rossane. Grazia per lui! Tu dunque
tutto non sai.
Aspasia. So che all’irato Serse
il padre si scoperse: il mio germano,
che impedir nol poté, fuggí, mi vide,
e il racconto funesto
ascoltai dal suo labbro.
Rossane. Or odi il resto.
Sappi...
SCENA XII
Sebaste e dette.
Serse ti chiama a sé. Che sei sua figlia
Temistocle or gli disse; e mai piú lieta
novella il re non ascoltò.
Rossane. (Che affanno!)
Aspasia. Fosse l’odio di Serse
piú moderato almen.
Sebaste. L’odio! Di lui
Temistocle è l’amor.
Aspasia. Come! Poc’anzi
il volea morto.
Sebaste. Ed or l’abbraccia, il chiama
la sua felicitá, l’addita a tutti,
non parla che di lui.
Aspasia. Rossane, addio:
non so, per troppa gioia, ove son io.
È spezie di tormento
questo per l’alma mia
eccesso di contento,
che non potea sperar.
Troppo mi sembra estremo;
temo che un sogno sia;
temo destarmi, e temo
a’ palpiti tornar. (parte)
SCENA XIII
Rossane e Sebaste.
spera, o mio cor.)
Rossane. Che mai vuol dir, Sebaste,
questa di Serse impaziente cura
di parlar con Aspasia?
Sebaste. Io non ardisco
dirti i sospetti miei.
Rossane. Ma pur?
Sebaste. Mi sembra
che Serse l’ami. Allor che d’essa intese
la vera sorte, un’improvvisa in volto
gioia gli scintillò, che del suo core
il segreto tradí.
Rossane. Va’, non è vero:
son sogni tuoi.
Sebaste. Lo voglia il ciel; ma giova
sempre il peggio temer.
Rossane. Numi! e in tal caso
che far degg’io?
Sebaste. Che? Vendicarti. A tanta
beltá facil sarebbe. È un gran diletto
d’un infido amator punir l’inganno.
Rossane. Consola, è ver, ma non compensa il danno.
Sceglier fra mille un core,
in lui formarsi il nido,
e poi trovarlo infido,
è troppo gran dolor.
Voi, che provate amore,
che infedeltá soffrite,
dite se è pena, e dite
se se ne dá maggior. (parte)
SCENA XIV
Sebaste solo.
irritata è Rossane. In lui l’amore,
gli sdegni in lei fomenterò. Se questa
giunge a bramar vendetta.
un gran colpo avventuro. A’ molti amici,
ch’io posso offrirle, uniti i suoi, mi rendo
terribile anche a Serse. Al trono istesso
potrei forse... chi sa? Comprendo anch’io
quanto ardita è la speme;
ma fortuna ed ardir van spesso insieme.
Fu troppo audace, è vero,
chi primo il mar solcò,
e incogniti cercò
lidi remoti.
Ma senza quel nocchiero
sí temerario allor,
quanti tesori ancor
saríano ignoti! (parte)