Traduzioni e riduzioni/Dall'Odissea/L'ariete maggiore
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l’ariete maggiore
L’Alba nel ciel mattutino stampava le dita di rose,
quando di fuor dalla grotta n’uscirono a pascere i maschi,
mentre non munte le femmine intorno a’ graticci, le poppe
piene di latte, belavano. Ed egli, il padrone, di doglie
fiere trafitto, palpava di tutti i suoi pecori il dosso,
come si stavano sui quattro piedi; e colui non s’accorse
bimbo! chi gli era, alla pancia del gregge lanoso, legato.
Ultimo il capo del branco movea per uscirsene, grave
della sua lana e di me, col mio furbo consiglio nel cuore.
E palpeggiatolo un po’, Polifèmo il gagliardo, gli disse:
“Pecoro caro, perchè per la grotta tu m’esci, del gregge
l’ultimo? Prima non già rimanevi alle pecore indietro,
anzi il primissimo tu vai brucando i fioretti dell’erba,
a lunghi passi e per primo tu giungi alle rive dei fiumi,
come per primo desii ritornare allo stabbio la sera.
Or l’ultimissimo sei. Oh! tu forse dolente rimpiangi
l’occhio del caro padrone, che un uomo cattivo accecava
coi maledetti compagni, domatogli il cuore col vino,
Niuno, che non credo io sia già fuggito alla morte?
Se come me tu pensassi, se tu divenissi parlante
che mi dicessi ove mai si sottragga al mio sdegno quell’uomo!
Le sue cervella un po’ qua un po’ là per la grotta dal capo
suo fracassato per terra n’andrebbero sparse, e il mio cuore
respirerebbe da’ guai che mi diede quel Niuno da nulla„.
Questo egli disse e da sè sospinse il suo pecoro fuori.