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Trionfi (Bortoli)/Trionfo della fama/Capitolo I

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Capitolo I

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Trionfo della fama Trionfo della fama - Capitolo II


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CAPITOLO PRIMO.


Da poi che Morte triunfò nel volto
     Che di me stesso triunfar solea,
     E fu del nostro mondo il suo sol tolto,
Partissi quella dispietata e rea,
     Pallida in vista, orribile e superba
     Che ’l lume di beltate spento avea:

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Quando, mirando intorno su per l’erba,
     Vidi da l’altra parte giugner quella
     Che trae l’uom del sepolcro e ’n vita il serba.
Quale in sul giorno un’amorosa stella
     Suol venir d’orïente inanzi al sole
     Che s’accompagna volentier con ella,
Cotal venia; et oh! di quali scole
     Verrà ’l maestro che descriva a pieno
     Quel ch’io vo’ dir in semplici parole?
Era d’intorno il ciel tanto sereno,
     Che per tutto ’l desir ch’ardea nel core
     L’occhio mio non potea non venir meno.
Scolpito per le fronti era il valore
     De l’onorata gente, dov’io scorsi
     Molti di quei che legar vidi Amore.
Da man destra, ove gli occhi in prima porsi,
     La bella donna avea Cesare e Scipio,
     Ma qual più presso a gran pena m’accorsi:
L’un di vertute, e non d’Amor mancipio,
     L’altro d’entrambi. E poi mi fu mostrata,
     Dopo sì glorïoso e bel principio,
Gente di ferro e di valore armata;
     Siccome in Campidoglio al tempo antico
     Talora o per Via Sacra o per Via Lata,
Venian tutti in quell’ordine ch’i’ dico,
     E leggeasi a ciascuno intorno al ciglio
     Il nome al mondo più di gloria amico.
Io era intento al nobile pispiglio,
     Ai volti, agli atti: ed ecco, i primi due,
     L’un seguiva il nipote e l’altro il figlio,
Che sol senz’alcun pari al mondo fue;
     E quei che volser a’ nemici armati
     Chiudere il passo co le membra sue,
Duo padri da tre figli accompagnati:
     L’un giva inanzi e due venian dopo,
     E l’ultimo era il primo fra’ laudati.

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Poi fiammeggiava a guisa d’un piropo
     Colui che col consiglio e co la mano
     A tutta Italia giunse al maggior uopo:
Di Claudio dico, che notturno e piano,
     Come il Metauro vide, a purgar venne
     Di ria semenza il buon campo romano.
Egli ebbe occhi a vedere, a volar penne;
     Et un gran vecchio il secondava appresso,
     Che con arte Anibàle a bada tenne.
Duo altri Fabii e duo Caton con esso,
     Duo Pauli, duo Bruti e duo Marcelli,
     Un Regol ch’amò Roma e non se stesso,
Un Curio ed un Fabrizio, assai più belli
     Con la lor povertà che Mida o Crasso
     Con l’oro onde a virtù furon rebelli;
Cincinnato e Serran, che solo un passo
     Senza costor non vanno, e ’l gran Camillo
     Di viver prima che di ben far lasso,
Perch’a sì alto grado il ciel sortillo
     Che sua virtute chiara il ricondusse
     Onde altrui cieca rabbia dipartillo.
Poi quel Torquato che ’l figliuol percusse,
     E viver orbo per amor sofferse
     De la milizia perché orba non fusse;
L’un Decio e l’altro, che col petto aperse
     Le schiere de’ nemici: o fiero voto,
     Che ’l padre e ’l figlio ad una morte offerse!
Curzio venia con lor, non men devoto,
     Che di sé e de l’arme empié lo speco
     In mezzo il Foro orribilmente voto;
Mummio, Levino, Attilio; et era seco
     Tito Flamminio che con forza vinse,
     Ma vie più con pietate, il popol greco.
Eravi quei che ’l re di Siria cinse
     D’un magnanimo cerchio, e co la fronte
     E co la lingua a sua voglia lo strinse;

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E quel ch’armato, sol, difese un monte,
     Onde poi fu sospinto; e quel che solo
     Contra tutta Toscana tenne un ponte;
E quel che in mezzo del nemico stuolo
     Mosse la mano indarno, e poscia l’arse,
     Sì seco irato che non sentì il duolo;
E chi ’n mar prima vincitor apparse
     Contra’ Cartaginesi, e chi lor navi
     Fra Cicilia e Sardigna ruppe e sparse.
Appio conobbi agli occhi, e’ suoi, che gravi
     Furon sempre e molesti a l’umil plebe.
     Poi vidi un grande con atti soavi,
E se non che ’l suo lume a lo stremo ebe,
     Forse era il primo, e certo fu fra noi
     Qual Bacco, Alcid’e Epaminonda a Tebe;
Ma ’l peggio è viver troppo. E vidi poi
     Quel che da l’esser suo destro e leggero
     Ebbe nome, e fu ’l fior degli anni suoi;
E quanto in arme fu crudo e severo,
     Tanto quei che ’l seguia, Corvo, benigno,
     Non so se miglior duce o cavaliero.
Poi venia que’ che livido maligno
     Tumor di sangue, bene oprando, oppresse,
     Nobil Volumnio e d’alta laude digno;
Cosso e Filon, Rutilio, e da le spesse
     Luci in disparte tre soli ir vedeva,
     Rotti i membri e smagliate l’arme e fesse:
Lucio Dentato e Marco Sergio e Sceva,
     Que’ tre folgori e tre scogli di guerra,
     Ma l’un rio successor di fama leva;
Mario poi, che Jugurta e’ Cimbri atterra
     E ’l tedesco furore, e Fulvio Flacco,
     Ch’a l’ingrati troncar a bel studio erra,
Et il più nobil Fulvio, e solo un Gracco
     Di quel gran nido garrulo inquïeto
     Che fe’ il popol roman più volte stracco,

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E quel che parve altrui beato e lieto,
     Non dico fu, ché non chiaro si vede
     Un chiuso cor profondo in suo secreto:
Metello dico, e suo padre, e suo’ rede,
     Che già di Macedonia e de’ Numidi
     E di Creta e di Spagna addusser prede.
Poscia Vespasïan col figlio vidi,
     Il buono e bello, non già il bello e rio,
     E ’l buon Nerva, e Traian, principi fidi,
Elio Adriano e ’l suo Antonin Pio,
     Bella successïone infino a Marco,
     Ché bono a buono ha natural desio.
Mentre che vago oltre cogli occhi varco,
     Vidi il gran fondatore e i regi cinque;
     L’altro era in terra di mal peso carco,
Come adiven a chi virtù relinque.