Trionfi (Bortoli)/Trionfo della fama/Capitolo II
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DEL TRIONFO
DELLA FAMA
CAPITOLO SECONDO.
Pien d’infinita e nobil meraviglia
Presa a mirar il buon popol di Marte,
Ch’al mondo non fu mai simil famiglia,
Giungea la vista con l’antiche carte
Ove son gli alti nomi e’ sommi pregi,
E sentiv’ al mio dir mancar gran parte;
Ma disviarmi i pellegrini egregi,
Anibal primo, e quel cantato in versi
Achille, che di fama ebbe gran fregi,
I duo chiari Troiani e’ duo gran Persi,
Filippo e ’l figlio, che da Pella agl’lndi
Correndo vinse paesi diversi.
Vidi l’altro Alessandro non lunge indi
Non già correr così, ch’ebbe altro intoppo
(quanto del vero onor, Fortuna, scindi!);
I tre Teban ch’ i’ dissi, in un bel groppo;
Ne l’altro, Aiace, Diomede e Ulisse
Che desiò del mondo veder troppo;
Nestor che tanto seppe e tanto visse;
Agamenón e Menelao, che ’n spose
Poco felici al mondo fer gran risse;
Leonida, ch’ a’ suoi lieto propose
Un duro prandio, una terribil cena,
E ’n poca piazza fe’ mirabil cose;
Et Alcibiade, che sì spesso Atena
Come fu suo piacer volse e rivolse
Con dolce lingua e con fronte serena;
Milziade che ’l gran gioco a Grecia tolse,
E ’l buon figliuol che con pietà perfetta
Legò sé vivo e ’l padre morto sciolse;
Teseo, Temistoclès con questa setta,
Aristidès che fu un greco Fabrizio:
A tutti fu crudelmente interdetta
La patria sepoltura, e l’altrui vizio
Illustra lor, ché nulla meglio scopre
Contrari due com ’piccolo interstizio.
Focïon va con questi tre di sopre,
Che di sua terra fu scacciato morto;
Molto diverso il guidardon da l’opre!
Com’io mi volsi, il buon Pirro ebbi scorto,
E ’l buon re Massinissa, e gli era avviso
D’esser senza i Roman ricever torto.
Con lui, mirando quinci e quindi fiso,
Jero siracusan conobbi, e ’l crudo
Amilcare da lor molto diviso.
Vidi, qual uscì già del foco, ignudo
Il re di Lidia, manifesto esempio
Che poco val contra Fortuna scudo.
Vidi Siface pari a simil scempio;
Brenno, sotto cui cadde gente molta,
E poi cadde ei sotto il delfico tempio.
In abito diversa, in popol folta
Fu quella schiera; e mentre gli occhi alti ergo,
Vidi una parte tutta in sé raccolta,
E quel che volse a Dio far grande albergo
Per abitar fra gli uomini, era il primo;
Ma chi fe’ l’opra gli venia da tergo:
A lui fu destinato, onde da imo
Produsse al sommo l’edificio santo,
Non tal dentro architetto, com’io stimo.
Poi quel ch’a Dio familïar fu tanto
In grazia, a parlar seco a faccia a faccia,
Che nessun altro se ne può dar vanto;
E quel che, come un animal s’allaccia,
Co la lingua possente legò ’l sole,
Per giugner de’ nemici suoi la traccia.
O fidanza gentil! chi Dio ben cole,
Quanto Dio ha creato aver suggetto,
E ’l ciel tener con semplici parole!
Poi vidi ’l padre nostro, a cui fu detto
Ch’uscisse di sua terra e gisse al loco
Ch’a l’umana salute era già eletto;
Seco il figlio e ’l nipote, a cui fu il gioco
Fatto de le due spose; e ’l saggio e casto
Joseph dal padre lontanarsi un poco.
Poi stendendo la vista quant’io basto,
Colui vidi oltra il qual occhio non varca,
La cui inobedienza ha il mondo guasto.
Di qua da lui, chi fece la grande arca,
E quei che cominciò poi la gran torre
Che fu sì di peccato e d’error carca;
Poi quel buon Juda a cui nessun può torre
Le sue leggi paterne, invitto e franco
Com’uom che per giustizia a morte corre.
Già era il mio desio presso che stanco,
Quando mi fece una leggiadra vista
Più vago di mirar ch’i’ ne fossi anco.
I’ vidi alquante donne ad una lista:
Antiope ed Oritia armata e bella,
Ippolita del figlio afflitta e trista,
E Menalippe, e ciascuna sì snella
Che vincerle fu gloria al grande Alcide:
E’ l’una ebbe, e Teseo l’altra sorella;
La vedova che sì secura vide
Morto ’l figliolo, e tal vendetta feo
Ch’uccise Ciro et or sua fama uccide,
Però che, udendo ancora il suo fin reo,
Par che di novo a sua gran colpa moia,
Tanto quel dì del suo nome perdeo.
Poi vidi quella che mal vide Troia,
E fra queste una vergine latina
Ch’in Italia a’ Troian fe’ molta noia.
Poi vidi la magnanima reina:
Con una treccia avolta e l’altra sparsa
Corse alla babilonica rapina;
Poi Cleopatra, e l’un’e l’altra er’ arsa
D’indegno foco; e vidi in quella tresca
Zenobia del suo onor assai più scarsa.
Bella era, e ne l’età fiorita e fresca;
Quanto in più gioventute e ’n più bellezza,
Tanto par ch’onestà sua laude accresca;
Nel cor femineo fu sì gran fermezza,
Che col bel viso e co l’armata coma
Fece temer chi per natura sprezza:
Io parlo de l’imperio alto di Roma,
Che con arme assalìo; ben ch’a l’estremo
Fusse al nostro trionfo ricca soma.
Fra’ nomi che in dir breve ascondo e premo,
Non fia Judith, la vedovetta ardita,
Che fe’ il folle amador del capo scemo.
Ma Nino ond’ogni istoria umana è ordita,
Dove lasc’io e ’l suo gran successore
Che superbia condusse a bestial vita?
Belo dove riman, fonte d’errore
Non per sua colpa? Dov’è Zoroastro,
Che fu de l’arti magiche inventore?
E chi de’ nostri dogi che ’n duro astro
Passar l’Eufrate fece il mal governo,
A l’italiche doglie fiero impiastro?
Ov’è ’l gran Mitridate, quello eterno
Nemico de’ Roman che sì ramingo
Fuggì dinanzi a lor la state e ’l verno?
Molte gran cose in picciol fascio stringo:
Ov’è un re Arturo, e tre Cesari Augusti,
Un d’Affrica, un di Spagna, un Lottoringo?
Cingean costu’ i suoi dodici robusti;
Poi venia solo il buon duce Goffrido
Che fe’ l’impresa santa e’ passi giusti.
Questo, di ch’io mi sdegno e ’ndarno grido,
Fece in Jerusalem co le sue mani
Il mal guardato e già negletto nido.
Gite superbi, o miseri Cristiani,
Consumando l’un l’altro, e non vi caglia
Che ’l sepolcro di Cristo è in man de’ cani!
Raro o nessun che ’n alta fama saglia
Vidi dopo costui, s’io non m’inganno,
O per arte di pace o di battaglia.
Pur, come uomini eletti ultimi vanno,
Vidi verso la fine il Saracino
Che fece a’ nostri assai vergogna e danno;
Quel di Lurìa seguiva il Saladino,
Poi il duca di Lancastro, che pur dianzi
Era al regno de’ Franchi aspro vicino.
Miro, come uom che volentier s’avanzi,
S’alcuno ivi vedessi qual egli era
Altrove agli occhi miei veduto inanzi;
E vidi duo che si partir iersera
Di questa nostra etate e del paese;
Costor chiudean quella onorata schiera:
Il buon re cicilian che ’n alto intese
E lunge vide e fu veramente Argo;
Da l’altra parte il mio gran Colonnese,
Magnanimo, gentil, constante e largo.