Ultime lettere di Jacopo Ortis/Lorenzo a chi legge

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Lorenzo a chi legge

../Frammento della storia di Lauretta ../Parte seconda IncludiIntestazione 27 dicembre 2016 100% Da definire

Frammento della storia di Lauretta Parte seconda
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LORENZO A CHI LEGGE



Tu forse, o Lettore, ti se’ fatto amico di Jacopo, e brami di sapere la storia della sua passione; onde io per narrartela, andrò quindi innanzi interrompendo la serie delle sue lettere.

La morte di Lauretta accrebbe la sua malinconia, fatta ancor più nera per l’imminente ritorno di Odoardo. Dimagrato, sparuto, con gli occhi incavati, ma spalancati e pensosi, la voce cupa, i passi tardi, andava per lo più inferrajuolato, senza cappello, e con le chiome giù per la faccia; vegliava le notti intere girando per le campagne, e il giorno fu spesso veduto dormire sotto qualche albero.

In questa, tornò Odoardo in compagnia di un giovine pittore che ripatriava da Roma. Quel giorno stesso incontrarono Jacopo. Odoardo gli si fe’ incontro abbracciandolo; Jacopo quasi sbigottito si arretrò. Il pittore gli disse ch’avendo udito a parlare di lui e dell’ingegno suo, da gran tempo bramava di conoscerlo di persona. — Ei lo interruppe: Io? — io, signor mio, non ho mai potuto conoscere me medesimo negli altri mortali; però non credo che gli altri possano mai conoscere sè medesimi in me. Gli domandarono interpretazione di sì ambigue parole. Ed ei per tutta risposta si ravvolse nel suo tabarro, si cacciò fra gli alberi; e sparì. Odoardo si dolse di questo contegno col padre di Teresa, il quale già incominciava a temere della passione di Jacopo.

Teresa dotata di un’indole meno risentita, ma passionata ed ingenua, propensa a una affettuosa malinconia, priva nella solitudine d’ogni altro amico di cuore, nell’età in cui parla in noi la dolce necessità di amare e di essere riamati, incominciò a confidare a Jacopo tutta l’anima sua, e a poco a poco se ne innamorò; ma non ardiva confessarlo a se stessa: e dopo la sera di quel bacio viveva assai riservata sfuggendo l’amante, e tremando alla presenza del padre. Allontanata da sua madre, senza consiglio e senza conforto, atterrita dal suo stato futuro, e dalla virtù e dall’amore, divenne solitaria, non parlava quasi mai, leggeva sempre, trascurava e il disegno, e la sua arpa, e il suo abbigliamento, e fu spesso sorpresa dai famigliari con le lagrime agli occhi. Sfuggiva la compagnia delle giovinette sue amiche che a primavera villeggiavano a’ colli Euganei: e dileguandosi a tutti e alla sua sorellina, sedeva molte ore ne’ luoghi più appartati del suo giardino. Regnava quindi in quella casa un silenzio e una certa diffidenza che turbarono lo sposo, trafitto anche da’ modi sdegnosi di Jacopo incapace di simulazione. Naturalmente parlava con enfasi; e sebbene conversando fosse taciturno, fra’ suoi amici era loquace, pronto al riso, e ad una allegria schietta, eccessiva. Ma in que’ giorni le sue parole ed ogni suo atto [p. 71 modifica]erano veementi e amari come l’anima sua. Instigato una sera da Odoardo che giustificava il trattato di Campo Formio, si pose a disputare, a gridare come un invasato, a minacciare, a percuotersi la testa, e a piangere d’ira. Avea sempre un’aria assoluta; ma il signore T*** mi raccontava che allora o stava sepolto ne’ suoi pensieri, o se discorreva, s’infiammava d’improvviso, i suoi occhi metteano paura, e talvolta fra il discorso gli abbassava inondati di pianto. Odoardo si fe’ più circospetto, e sospettò la cagione del cangiamento di Jacopo.

Così passò tutto giugno. Il misero giovine diveniva ogni dì più tetro ed infermo; nè scriveva più alla sua famiglia, nè rispondeva alle mie lettere. Spesso fu veduto da’ contadini cavalcare a briglia sciolta per luoghi scoscesi, e in mezzo alle fratte, e a traverso de’ fossi; ed è maraviglia com’ei non sia pericolato. Una mattina il pittore stando a ritrarre la prospettiva de’ monti, udì la sua voce fra il bosco: gli si accostò di soppiatto, e intese ch’ei declamava una scena del Saule. Allora gli riuscì di disegnare il ritratto dell’Ortis, appunto quand’ei si soffermava pensoso dopo avere proferito que’ versi dell’atto II, scena I.

     ......Precipitoso
Già mi sarei fra gl’inimici ferri
Scagliato io da gran tempo, avrei già tronca
Così la vita orribile ch’io vivo.

Poi lo vide arrampicarsi sino alla cima della montagna, guardare all’ingiù risolutamente, con le braccia aperte, e tutto ad un tratto arrestarsi sclamando: O madre mia!

Una domenica rimase a desinare in casa T***. Pregò Teresa perché suonasse, e le porse l’arpa egli stesso. Mentr’ella incominciava, entrò suo padre e le s’assise da canto. Jacopo pareva inondato da una dolce mestizia, e il suo aspetto si andava rianimando; ma a poco a poco chinò la testa, e ricadde in una malinconia più compassionevole di prima. Teresa lo sogguardava, e sforzavasi di reprimere il pianto: Jacopo se n’avvide, né potendosi contenere s’alzò e partì. Il padre intenerito si voltò a Teresa dicendole: O figlia mia, tu vuoi dunque precipitare teco noi tutti? A queste parole le sgorgarono d’improvviso le lagrime; si gittò fra le braccia di suo padre, e gli confessò. — In questa, entrava Odoardo a chiamare a tavola, e l’atteggiamento di Teresa, e il turbamento del signore T*** lo raffermarono ne’ suoi dubbj. Queste cose le ho udite dalla bocca di Teresa.

Il dì seguente, che fu la mattina de’ 7 luglio, Jacopo andò da Teresa, e vi trovò lo sposo, e il pittore che le faceva il ritratto nuziale. Teresa confusa e tremante uscì in fretta come per badare a qualche cosa di cui s’era dimenticata; ma passando davanti a Jacopo gli disse ansiosamente e sottovoce: Mio padre sa tutto. Ei non fe’ motto: ma passeggiò tre o quattro volte su e giù per la stanza, ed uscì. Per tutto quel giorno non si lasciò vedere ad anima vivente. Michele, che lo aspettava a desinare, ne cercò invano. Non si ridusse a casa che a mezzanotte suonata. Si gettò vestito sul letto, e mandò a dormire il ragazzo. Poco dopo s’alzò e scrisse.


mezzanotte.

Io mandava alla Divinità i miei ringraziamenti, e i miei voti, ma io non l’ho mai temuta. Eppure adesso che sento tutto il flagello delle sventure, io la temo e la supplico.

Il mio intelletto è acciecato, la mia anima è prostrata, il mio corpo è sbattuto dal languore della morte. [p. 72 modifica] È vero! i disgraziati hanno bisogno di un altro mondo diverso da questo dove mangiano un pane amaro, e bevono l’acqua mescolata alle lagrime. La immaginazione lo crea, e il cuore si consola. La virtù sempre infelice quaggiù persevera con la speranza di un premio. — Ma sciagurati coloro che per non essere scellerati hanno bisogno della religione!

Mi sono prostrato in una chiesetta posta in Arquà, perché io sentiva che la mano di Dio pesava sopra il mio cuore.

Son io debole forse, Lorenzo? Il cielo non ti faccia mai sentire la necessità della solitudine, delle lagrime, e di una chiesa!

ore 2.

Il cielo è tempestoso: le stelle rare e pallide; e la luna mezza sepolta fra le nuvole batte con raggi lividi le mie finestre.

all’alba.

Lorenzo, non odi? t’invoca l’amico tuo: qual sonno! spunta un raggio di giorno, e forse per inasprire i miei mali. — Dio non mi ode. Mi condanna anzi ad ogni minuto all’agonia della morte: e mi costringe a maledire i miei giorni che pur non sono macchiati di alcun delitto.

Che? se tu se’ un Dio forte, prepotente, geloso, che rivedi le iniquità de’ padri ne’ figli, e che visiti nel tuo furore la terza e la quarta generazione,1 dovrò io sperar di placarti? Manda in me — bensì non in altri che in me — l’ira tua, la quale raccende nell’inferno le fiamme2 che dovranno ardere milioni e milioni di popoli a’ quali non ti se’ fatto conoscere. — Ma Teresa è innocente: e anziché stimarti crudele, t’adora con serenità soavissima d’animo. Io non ti adoro, appunto perché ti pavento — e sento pure che ho bisogno di te. Spogliati, deh! spogliati degli attributi di cui gli uomini t’hanno vestito per farti simile a loro. Non se’ tu forse il consolatore degli afflitti? E il tuo Figlio divino non si chiamava egli il Figlio dell’uomo? Odimi dunque. Questo cuore ti sente, ma non t’offendere del gemito a cui la natura costringe le viscere dilaniate dell’uomo. E mormoro contro di te, e piango, e t’invoco, sperando di liberare l’anima mia — di liberarla? ma e come, se non è piena di te? se non ti ha implorato nella prosperità, e solo rifugge al tuo ajuto, e domanda il tuo braccio or quando è atterrata nella miseria? se ti teme, e non ha in te veruna speranza? Nè spera, nè desidera che Teresa: e ti vedo in lei sola.

Ecco, o Lorenzo, fuor delle mie labbra il delitto per cui Dio ha ritirato il suo sguardo da me. Non l’ho mai adorato [p. 73 modifica]come adoro Teresa. — Bestemmia! Pari a Dio colei che sarà a un soffio scheletro e nulla? Vedi l’uomo umiliato. Dovrò dunque io anteporre Teresa a Dio? — Ah da lei si spande beltà celeste ed immensa, beltà onnipotente. Misuro l’universo con uno sguardo; contemplo con occhio attonito l’eternità; tutto è caos, tutto sfuma, e s’annulla; Dio mi diventa incomprensibile; e Teresa mi sta sempre davanti.


Dopo due giorni ammalò. Il padre di Teresa andò a visitarlo, e si giovò di quell’occasione a persuaderlo che s’allontanasse da’ colli Euganei. Come discreto e generoso ch’egli era, stimava l’ingegno e l’animo di Jacopo, e lo amava come il più caro amico ch’ei potesse aver mai; e m’accertò che in tempi diversi avrebbe creduto d’ornare la sua famiglia pigliandosi per genero un giovine che se partecipava d’alcuni errori del nostro tempo, ed era dotato d’indomita tempra di cuore, aveva ad ogni modo, al dire del signore T***, opinioni e virtù degne de’ secoli antichi. Ma Odoardo era ricco, e d’una famiglia sotto la cui parentela il signore T*** fuggiva alle persecuzioni e alle insidie de’ suoi nemici, i quali lo accusavano d’avere desiderato la verace libertà del suo paese: delitto capitale in Italia. Bensì imparentandosi all’Ortis, avrebbe accelerato la rovina di lui, e della propria famiglia. Oltre di che, aveva obbligata la sua fede: e per mantenerla s’era ridotto a dividersi da una moglie a lui cara. Né i suoi bilanci domestici gli acconsentivano di accasare Teresa con una gran dote, necessaria alle mediocri sostanze dell’Ortis. Il signore T*** mi scrisse queste cose, e le disse a Jacopo che sapeale da sè, e le ascoltò con aspetto riposatissimo; ma non sì tosto udì parlare di dote. No, lo interruppe, esule, povero, oscuro a tutti i mortali, mi vorrei sotterrar vivo anziché domandarvi vostra figlia in isposa. Sono sfortunato: non però vile. — Né i miei figliuoli dovranno riconoscere mai la loro fortuna dalla ricchezza della loro madre. Vostra figlia è ricca e promessa. — Dunque? rispose il signore T***. — Jacopo non fiatò. Alzò gli occhi al cielo, e dopo molta ora: O Teresa, esclamò, sarai a ogni modo infelice! O amico mio, gli soggiunse allora amorevolmente il signore T***, e per chi mai cominciò ad essere misera se non per voi? Erasi già per amor mio rassegnata al suo stato; e sola poteva rappacificare una volta i suoi poveri genitori. Vi ha amato; e voi che pure l’amate con sì altera generosità, voi pur le rapite uno sposo, e manterrete discorde una casa ove foste, e siete, e sarete sempre accolto come figliuolo. Arrendetevi; allontanatevi per alcuni mesi. Forse avreste trovato in altri un padre severo; ma io! — sono stato anch’io sventurato; ho provato le passioni, pur troppo! e ne provo; e ho imparato a compiangerle, perchè sento io pure il bisogno d’essere compatito. Bensì da voi solo all’età mia quasi canuta ho imparato come alle volte si stima l’uomo che ci danneggia, massime se è dotato di tale carattere da far parere generosi e tremendi gli affetti che in altri paiono colpevoli insieme e risibili. Nè io vel dissimulo: voi, dal dì che primamente vi ho conosciuto, avete assunto tale inesplicabile predominio sopra di me, da costringermi a temervi insieme ed amarvi: e spesso andava noverando i minuti per impazienza di rivedervi, e nel tempo stesso io sentivami preso d’un tremito subitaneo e secreto, allorché i miei servi mi davano avviso che voi salivate le scale. Or voi abbiate pietà di me, e della vostra gioventù, e della fama di Teresa. La sua beltà e la sua salute vanno languendo; le sue viscere si struggono nel silenzio, e per voi. Io vi scongiuro in nome di Teresa, partite; sacrificate la vostra passione alla sua quiete; e non vogliate ch’io sia l’amico insieme e il marito e il padre più misero che sia mai nato. — Jacopo parea [p. 74 modifica]intenerito; non però mutò aspetto, nè gli cadde lagrima dagli occhi, né rispose parola; benché il signore T*** a mezzo il discorso si rattenesse a stento dal piangere: e restò a canto del letto di Jacopo sino a notte tardissima: ma nè l’uno nè l’altro aprirono bocca se non quando si dissero addio. — La malattia del giovine aggravò; e ne’ giorni seguenti fu sovrappreso da febbre pericolosa.

Frattanto io sgomentato e dalle lettere recenti di Jacopo, e da quelle del padre di Teresa, studiava ogni via per accelerare la partenza dell’amico mio, come solo rimedio alla sua violenta passione. Nè ebbi cuore di rivelarla a sua madre, la quale aveva già avuto mille altre dolorosissime prove dell’indole sua capace d’eccessi; e le dissi soltanto, ch’era un po’ malato, e che il mutar aria gli avrebbe certamente giovato.

In quel tempo stesso incominciavano a inferocire a Venezia le persecuzioni. Non v’erano leggi, ma tribunali arbitrarj; non accusatori, non difensori; bensì spie di pensieri, delitti nuovi, ignoti a chi n’era punito, e pene subite, inappellabili. I più sospettati gemevano carcerati; gli altri, benché d’antica e specchiata fama, erano tolti di notte alle proprie case, manomessi dagli sgherri, strascinati a’ confini e abbandonati alla ventura, senza l’addio de’ congiunti, e destituti d’ogni umano soccorso. Per alcuni pochi l’esilio scevro da questi modi violenti ed infami fu somma clemenza. Ed io pure tardo, e non ultimo, e tacito martire, vo da più mesi profugo per l’Italia, volgendo senza nessuna speranza gli occhi lagrimosi alle sponde della mia patria. Onde io allora, adombrato anche per la libertà di Jacopo, persuasi sua madre, quantunque desolatissima, a raccomandargli che sino a tempi migliori cercasse rifugio in altro paese; tanto più che quando s’era partito di Padova, si scusò allegando gli stessi pericoli. Fu fidata la lettera a un servo, il quale giunse a’ colli Euganei la sera de’ 15 luglio, e trovò Jacopo ancora a letto, sebbene migliorato d’assai. Gli sedeva vicino il padre di Teresa. Lesse la lettera sommessamente, e la posò sul guanciale: poco dopo la rilesse; parve commosso, ma non ne parlò.

Il dì 19 s’alzò da letto. In quel giorno stesso sua madre gli riscrisse inviandogli danaro, due cambiali, e parecchie commendatizie, e scongiurandolo per le viscere di Dio che partisse. Assai prima di sera andò da Teresa; e non trovò che l’Isabellina, la quale tutta intenerita contò ch’ei s’assise muto, si rizzò, la baciò, e se ne andò. Tornò dopo un’ora, e salendo per le scale la incontrò nuovamente; e se la strinse al petto, la baciò più volte, e la bagnò di lagrime. Si pose a scrivere, mutò varii fogli, e li stracciò poi tutti. Si aggirò pensieroso per l’orto. Un servo, passandovi su l’imbrunire, lo vide sdrajato: ripassando, lo trovò ritto presso al rastrello in atto d’uscire, e col capo rivolto attentissimo verso la casa ch’era battuta dalla luna.

Tornatosi a casa, rimandò il messo rispondendo a sua madre, che domani su l’alba partiva. Fece ordinare i cavalli alla posta più vicina. Innanzi di coricarsi, scrisse la lettera seguente per Teresa, e la consegnò all’ortolano. All’alba partì.


ore 9.

Perdonami, Teresa; io ho funestato la tua giovinezza, e la quiete della tua casa: ma fuggirò. Nè io mi credeva dotato di tanta costanza. Posso lasciarti, e non morir di dolore; e non è poco: usiamo dunque di questo momento finchè il cuore mi regge, e la ragione non mi abbandona affatto. Pur la mia mente è sepolta nel solo pensiero di amarti sempre, e di piangerti. Ma sarà obbligo mio di non più scriverti, nè di mai più rivederti, se non se quando sarò certissimo di lasciarti quieta [p. 75 modifica]davvero e per sempre. Oggi t’ho cercato invano per dirti addio. Abbiti almeno, o Teresa, queste ultime righe ch’io bagno, tu’l vedi, d’amarissime lagrime. Mandami in qualunque tempo, in qualunque luogo il tuo ritratto. Se l’amicizia, se l’amore — o la compassione e la gratitudine ti parlano ancora per questo sconsolato, non negarmi il ristoro che addolcirà tutti i miei patimenti. Tuo padre stesso me lo concederà, spero — egli, egli che potrà vederti, ed udirti, e sentirsi riconfortato da te; mentr’io nelle ore fantastiche del mio dolore e delle mie passioni, noiato di tutto il mondo, diffidente di tutti, camminando sopra la terra come di locanda in locanda, e drizzando volontariamente i miei passi verso la sepoltura — perché ho veramente necessità di riposo — io mi conforterò intanto baciando dì e notte l’immagine tua; e così tu m’infonderai da lontano costanza da sopportare questa mia vita, — e finché avrò forze, io la sopporterò per te, e te lo giuro. E tu prega — prega, o Teresa, dalle viscere del tuo cuore purissimo il cielo, non che mi perdoni i dolori, che forse avrò meritati, e che forse sono inerenti alla tempra dell’anima mia, bensì che non mi levi le poche facoltà che ancora mi avanzano, da tollerarli. Con l’immagine tua farò men angosciose le mie notti, e meno tristi i miei giorni solitarj, que’ giorni ch’io dovrò pur vivere senza di te. Morendo, io volgerò a te gli ultimi sguardi, io ti raccomanderò il mio sospiro; verserò sovra di te l’anima mia, ti porterò meco nella mia sepoltura attaccata al mio petto — e se è pure prescritto ch’io chiuda gli occhi in terra straniera, e dove nessun cuore mi piangerà, io ti richiamerò tacitamente al mio capezzale, e mi parrà di vederti in quell’aspetto, in quell’atto, con quella stessa pietà che io ti vedeva, quando una volta, assai prima che tu sapessi di amarmi, assai prima che tu t’accorgessi dell’amor mio — ed io era ancora innocente verso di te — mi assistevi nella mia malattia. — Di te non ho se non l’unica lettera che mi scrivesti quando io era in Padova: felice tempo! ma chi l’avrebbe mai detto? Allora parevami che tu mi raccomandassi di ritornare: — ed ora? scrivo ed eseguirò fra poche ore il decreto della nostra eterna separazione. Da quella tua lettera comincia la storia dell’amor nostro; e non mi abbandonerà mai. O mia Teresa! e questi sono pure delirj: ma sono insieme la sola consolazione di chi è sommamente infelice. Addio. Perdonami, mia Teresa — ohimè, io mi credeva più forte! — scrivo male e di un carattere appena leggibile; ma ho l’anima lacerata, e il pianto su gli occhi. Per carità non mi negare il tuo ritratto. Consegnalo a Lorenzo: e s’ei non me lo potrà far arrivare, lo custodirà come eredità santa che gli ricorderà sempre e le tue virtù, e la tua bellezza, e l’unico eterno infelicissimo amore del suo misero amico. Addio; — ma non è l’ultimo: mi rivedrai; e da quel giorno in poi sarò fatto tale da obbligare gli uomini ad avere pietà e rispetto alla nostra passione; e a te non sarà più delitto [p. 76 modifica]l’amarmi. — Pur se innanzi ch’io ti rivegga, il mio dolore mi scavasse la fossa, concedimi ch’io mi renda cara la morte con la certezza che tu m’hai amato. — Or sì ch’io sento in che dolore io ti lascio. Oh! potessi morire a’ tuoi piedi; oh almeno potessi morire ed essere sepolto nella terra che avrà le tue ossa! — Ma addio.


Michele dissemi che il suo padrone viaggiò per due poste silenziosissimo, e con aspetto assai calmo, e quasi sereno. Poi chiese il suo scrigno da viaggio; e intanto che si rimutavano i cavalli, si pose a scrivere il seguente biglietto al signore T***.


Signore ed amico mio.3

All’ortolano di casa mia ho raccomandato jer sera una lettera da ricapitarsi alla signorina; — e bench’io l’abbia scritta quand’io già m’era saldamente deliberato a questo partito d’allontanarmi, temo a ogni modo d’avere versato sovra quel foglio tanta afflizione da contristare quella innocente. A lei dunque, signor mio, non rincresca di farsi mandare quella lettera dall’ortolano; e gli fo dire che non la fidi se non a lei solo. La serbi così sigillata o la bruci. Ma perché alla sua figliuola riescirebbe amarissimo ch’io mi partissi senza lasciarle un addio, e tutto jeri non mi fu dato mai di vederla — ecco qui annesso un polizzino pur sigillato — ed ardisco sperare ch’ella, signor mio, lo consegnerà a Teresa T*** innanzi che diventi moglie del marchese Odoardo. — Non so se ci rivedremo: — ho ben decretato di morire, non foss’altro, vicino alla mia casa paterna; ma quand’anche questo mio proponimento fosse deluso, sono certo ch’ella, signore ed amico mio, non vorrà mai dimenticarsi di me.


Il signore T*** mi fe’ capitare la lettera per Teresa (che ho riportato dianzi) a sigillo inviolato: nè tardò a dare a sua figlia il polizzino. L’ebbi sott’occhio: era di pochissime righe, e d’uomo che pareva tornato in sé.

Tutti quasi i frammenti che seguono mi vennero per la posta in diversi fogli.


Rovigo, 20 luglio.

Io la mirava e diceva a me stesso: Che sarebbe di me se non potessi vederla più? — e correva a piangere meco di consolazione sapendo ch’io le era vicino — e adesso?

Cos’è più l’universo? qual parte mai della terra potrà sostenermi senza Teresa? e mi pare di esserle lontano sognando. Ho avuto io tanta costanza? e m’è bastato il cuore di partire così — senza vederla? né un bacio, né un unico addio! A [p. 77 modifica]minuto a minuto credo di trovarmi alla porta della sua casa, e di leggere nella mestizia del suo volto, che m’ama. Fuggo; e con che velocità ogni minuto mi porta ognor più lontano da lei. E intanto? quante care illusioni! ma io l’ho perduta. Non so più obbedire né alla mia volontà, né alla mia ragione, né al mio cuore sbalordito: mi lascerò trascinare dal braccio prepotente del mio destino. Addio, Lorenzo.

Ferrara, 20 luglio, a sera.

Io traversava il Po, e rimirava le immense sue acque, e più volte io fui per precipitarmi, e profondarmi, e perdermi per sempre. Tutto è un punto! — Ah s’io non avessi una madre cara e sventurata, a cui la mia morte costerebbe amarissime lagrime!

Né finirò così da codardo. Sosterrò tutta la mia sciagura; berrò fino all’ultima lagrima il pianto che mi fu assegnato dal cielo; e quando le difese saranno vane, disperate tutte le passioni, tutte le forze consunte; quando io avrò coraggio di mirare la morte in faccia, e ragionare pacatamente con lei, ed assaporare l’amaro suo calice, ed espiato le altrui lagrime, e disperato di rasciugarle — allora....

Ma ora ch’io parlo non è forse tutto perduto? e non mi resta che la sola memoria e la certezza che tutto è perduto. — Hai tu provata mai quella piena di dolore quando ci abbandonano tutte le speranze?


Né un bacio! né addio! — bensì le tue lagrime mi seguiranno nella mia sepoltura. La mia salute, la mia sorte, il mio cuore, tu — tu! — Insomma tutto congiura, ed io vi obbedirò tutti.

ore....

E ho avuto cuore di abbandonarla? anzi ti ho abbandonata, o Teresa, in uno stato più deplorabile del mio. Chi sarà tuo consolatore? e tremerai al solo mio nome, poichè t’ho fatto vedere io — io primo, io unico, — sull’aurora della tua vita, le tempeste e le tenebre della sventura; e tu, o giovinetta, non sei ancora sì forte nè da tollerare nè da fuggire la vita. Tu, per anche non sai che l’alba e la sera sono tutt’uno. — Ah nè io te lo voglio persuadere! — Eppure non abbiamo più ajuto veruno dagli uomini, nessuna consolazione in noi stessi. Omai non so che supplicare il sommo Iddio, e supplicarlo co’ miei gemiti, e cercare alcuna speranza fuori di questo mondo dove tutti ci perseguitano o ci abbandonano. E se gli spasimi, e le preghiere, e il rimorso ch’è fatto già mio carnefice, fossero offerte accolte dal cielo, ah! tu non saresti così infelice, ed io benedirei tutti i miei tormenti. Frattanto nella mia disperazione mortale chi sa in che pericoli tu sei! nè io posso [p. 78 modifica]difenderti, nè rasciugare il tuo pianto, nè raccogliere nel mio petto i tuoi secreti, nè partecipare delle tue afflizioni. Io non so nè dove fuggo, nè come ti lascio, nè quando potrò più rivederti.


Padre crudele — Teresa è sangue tuo! quell’altare è profanato; la natura ed il cielo maledicono quei giuramenti; il ribrezzo, la gelosia, la discordia, ed il pentimento gireranno fremendo intorno a quel letto, e insanguineranno forse quelle catene. Teresa è figlia tua; placati. Ti pentirai amaramente, ma tardi: fors’ella un giorno nell’orrore del suo stato maledirà i suoi giorni e i suoi genitori, e conturberà con le sue querele le tue ossa nel sepolcro, quando tu non potrai se non intenderla di sotterra. Placati. — Ohimè! tu non mi ascolti — e dove me la strascini? — la vittima è sacrificata! io odo il suo gemito — il mio nome nel suo ultimo gemito! Barbari! tremate — il vostro sangue, il mio sangue.... — Teresa sarà vendicata — Ahi delirio! — ma io son pure omicida.


Ma tu, Lorenzo mio, che non mi ajuti? Io non ti scriveva perchè un’eterna tempesta d’ira, di gelosia, di vendetta, di amore infuriava dentro di me; e tante passioni mi si gonfiavano nel petto, e mi soffocavano, o mi strozzavano quasi; io non poteva mandare parola, e sentiva il dolore impietrito dentro di me; — e questo dolore regna ancora, e mi chiude la voce e i sospiri, e m’inaridisce le lagrime: — mi sento mancata gran parte della vita, e quel poco che pure mi resta è avvilito dal languore e dalla oscurità della morte.


Or mi adiro sovente di essere partito, e mi accuso di viltà. — Perché mai non hanno ardito d’insultare alla mia passione? Se taluno avesse comandato a quella misera di non rivedermi; se me l’avessero a viva forza strappata, pensi tu ch’io l’avrei lasciata mai? Ma doveva io pagare d’ingratitudine un padre che mi chiamava amico, che tante volte commosso mi abbracciava dicendomi: E perchè la sorte ti ha pur unito a noi disgraziati? Poteva io precipitare nel disonore e nella persecuzione una famiglia che in altre circostanze avrebbe diviso meco e la prosperità e l’infortunio? E che poteva io rispondergli quand’ei mi diceva sospirando e pregandomi: Teresa è mia figlia! — Sì! divorerò nel rimorso e nella solitudine tutti i miei giorni; ma ringrazierò quella tremenda mano invisibile che mi rapì da quel precipizio donde io cadendo avrei strascinata meco nella voragine quella giovinetta innocente. E mi seguitava; ed io crudele andava pur soffermandomi, e voltando gli occhi guardando se affrettavasi dietro a’ miei passi precipitosi: — e mi seguitava, ma con animo spaventato, e con deboli forze. Che? or non son io seduttore? — e non dovrò tormele eternamente dagli occhi? Potessi anzi nascondermi a tutto l’universo, [p. 79 modifica]e piangere le mie sciagure! ma piangere i mali di quella celeste creatura, e piangerli quando io gli ho esacerbati?


Niuno sa quale segreto sta sepolto qui dentro — e questo sudore freddo improvviso, e questo arretrarmi — e il lamento che tutte le sere vien di sotterra, e mi chiama — e quel cadavere — perché io, Lorenzo, non sono forse omicida; ma pur mi veggo insanguinato d’un omicidio.4


Spunta appena il giorno, ed io sto per partire. Da quanto tempo l’aurora mi trova sempre in un sonno da infermo! La notte non trovo mai posa. Poco fa, io spalancava gli occhi urlando e guatandomi intorno come se mi vedessi sul capo il manigoldo. Sento nello svegliarmi certi terrori, simili a quegli sciagurati che hanno le mani calde di delitto. — Addio, addio. Parto, e ognor più lontano. Ti scriverò da Bologna dentr’oggi. Ringrazia mia madre. Pregala perché benedica il suo povero figliuolo. S’ella sapesse tutto il mio stato! Ma taci; su le sue piaghe non aprire un’altra piaga.

Note

  1. Esodo, XX, 5.
  2. Malach., III, 3.
  3. Anche questo biglietto fu omesso nelle edizioni susseguenti alla prima dove unicamente si legge.
  4. Di questo rimorso d’omicidio che spesso prorompe dal secreto del misero giovine, il lettore vedrà la ragione verso la fine del libro, in una lettera datata 14 marzo.