Ultime lettere di Jacopo Ortis/Frammento della storia di Lauretta

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Frammento della storia di Lauretta

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Parte prima Lorenzo a chi legge
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FRAMMENTO DELLA STORIA DI LAURETTA.


«Non so se il cielo badi alla terra. Pur se ci ha qualche volta badato (o almeno il primo giorno che la umana razza ha incominciato a formicolare) io credo che il Destino abbia scritto negli eterni libri:


l’uomo sarà infelice.


Nè oso appellarmi di questa sentenza, perchè non saprei forse a che tribunale, tanto più che mi giova crederla utile alle tante altre razze viventi ne’ mondi innumerabili. Ringrazio nondimeno quella Mente che, mescendosi all’universo degli enti, li fa sempre rivivere distruggendoli; perché con le miserie, ci ha dato almeno il dono del pianto, ed ha punito coloro che con una insolente filosofia si vogliono ribellare dalla umana sorte, negando loro gl’inesausti piaceri della compassione — Se vedi alcuno addolorato e piangente non piangere1. Stoico! or non sai tu che le lagrime di un uomo compassionevole sono per l’infelice più dolci della rugiada su l’erbe appassite?

O Lauretta! io piansi con te sul sepolcro del tuo povero amante, e mi ricordo che la mia compassione disacerbava l’amarezza del tuo dolore. T’abbandonavi sovra il mio seno, e i tuoi biondi capelli mi coprivano il volto, e il tuo pianto [p. 54 modifica]bagnava le mie guancie; poi col tuo fazzoletto mi rasciugavi le tue lagrime che tornavano a sgorgarti dagli occhi e scorrerti sulle labbra. — Abbandonata da tutti! — ma io no; non ti ho abbandonata mai.

Quando tu erravi fuor di te stessa per le romite spiagge del mare, io seguiva furtivamente i tuoi passi per poterti salvare dalla disperazione del tuo dolore. Poi ti chiamava a nome, e tu mi stendevi la mano, e sedevi al mio fianco. Saliva in cielo la Luna, e tu guardandola cantavi pietosamente — taluno avrebbe osato deriderti: ma il Consolatore de’ disgraziati, che guarda con un occhio stesso e la pazzia e la saviezza degli uomini, e che compiange e i loro delitti e le loro virtù — udiva forse le tue meste voci, e ti spirava qualche conforto: le preci del mio cuore t’accompagnavano: e a Dio sono accetti i voti e i sacrificj delle anime addolorate. — I flutti gemeano con flebile fiotto, e i venti che gl’increspavano, gli spingeano a lambir quasi la riva dove noi stavamo seduti. E tu, alzandoti appoggiata al mio braccio, t’indirizzavi a quel sasso ove parevati di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce, e la sua mano, e i suoi baci. — Or che mi resta? esclamavi; la guerra mi allontana i fratelli, e la morte mi ha rapito il padre e l’amante: abbandonata da tutti!

O Bellezza, genio benefico della natura! Ove mostri l’amabile tuo sorriso scherza la gioja, e si diffonde la voluttà per eternare la vita dell’universo: chi non ti conosce e non ti sente incresca al mondo e a sè stesso. Ma quando la virtù ti rende più cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e la invidia della felicità, ti mostrano ai mortali co’ crini sparsi e privi delle allegre ghirlande — chi è colui che può passarti davanti e non altro offerirti che un’inutile occhiata di compassione?

Ma io t’offeriva, o Lauretta, le mie lagrime, e questo mio romitorio dove tu avresti mangiato del mio pane, e bevuto nella mia tazza, e ti saresti addormentata sovra il mio petto.2 Tutto quello ch’io aveva! e meco forse la tua vita, sebbene non lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore nella solitudine e nella pace va a poco a poco obliando i suoi affanni; perché la pace e la libertà si compiacciono della semplice e solitaria natura.

Una sera d’autunno la luna appena si mostrava alla terra rifrangendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che accompagnandola l’andavano ad ora ad ora coprendo, e che sparse per l’ampiezza del cielo rapivano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti a’ lontani fuochi de’ pescatori, e al canto del gondoliere che col suo remo rompea il silenzio e la calma [p. 55 modifica]oscura laguna. Ma Lauretta volgendosi cercò con gli occhi intorno il suo innamorato; e si rizzò, e ramingò un pezzo chiamandolo; poi stanca tornò dov’io sedeva, e s’assise quasi spaventata della sua solitudine. Guardandomi parea che volesse dirmi: Io sarò abbandonata anche da te! — e chiamò il suo cagnuolino.

Io? — Chi l’avrebbe mai detto che quella dovesse essere l’ultima sera ch’io la vedeva! Era vestita di bianco; un nastro cilestro raccogliea le sue chiome, e tre mammole appassite spuntavano in mezzo al lino che velava il suo seno. — Io l’ho accompagnata fino all’uscio della sua casa; e sua madre che venne ad aprirci mi ringraziava della cura ch’io mi prendeva per la sua disgraziata figliuola. Quando fui solo m’accorsi che m’era rimasto fra le mani il suo fazzoletto: — gliel ridarò domani, diss’io.

I suoi mali incominciavano già a mitigarsi, ed io forse — è vero; io non poteva darti il tuo Eugenio; ma ti sarei stato sposo, padre, fratello. I miei concittadini persecutori, giovandosi de’ manigoldi stranieri, proscrissero improvvisamente il mio nome; nè ho potuto, o Lauretta, lasciarti neppure l’ultimo addio.

Quand’io penso all’avvenire e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo, e tremo e mi abbandono con la memoria a’ giorni passati, io vo per lungo tratto vagando sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare, e i fuochi lontani, e il canto del gondoliere. M’appoggio ad un tronco — sto pensando: il cielo me l’avea conceduta; ma l’avversa fortuna me l’ha rapita! traggo il suo fazzoletto: infelice chi ama per ambizione! ma il tuo cuore, o Lauretta, è fatto per la schietta natura: m’ascugo gli occhi, e torno sul far della notte alla mia casa.

Che fai tu frattanto? torni errando lungo le spiagge e mandando preghiere e lagrime a Dio? — Vieni! tu corrai le frutta del mio giardino; tu berrai nella mia tazza, tu mangerai del mio pane, e ti poserai sovra il mio seno e sentirai come batte, come oggi batte assai diversamente il mio cuore. Quando si risveglierà il tuo martirio, e lo spirito sarà vinto dalla passione, io ti verrò dietro per sostenerti in mezzo al cammino, e per guidarti, se ti smarrissi, alla mia casa; mai ti verrò dietro tacitamente, per lasciarti libero almeno il conforto del pianto. Io ti sarò padre, fratello — ma, il mio cuore — se tu vedessi il mio cuore! — una lagrima bagna la carta e cancella ciò che vado scrivendo.

Io la ho veduta tutta fiorita di gioventù e di bellezza; e poi impazzita, raminga, orfana; e la ho veduta baciare le labbra morenti del suo unico consolatore — e poscia inginocchiarsi con pietosa superstizione davanti a sua madre lagrimando e pregandola, acciocché ritirasse la maledizione che quella madre infelice aveva fulminata contro la sua figliuola. — Così la povera Lauretta mi lasciò nel cuore per sempre [p. 56 modifica]la compassione delle sue sventure. Preziosa eredità ch’io vorrei pur dividere con voi tutti a’ quali non resta altro conforto che di amare la virtù e di compiangerla. Voi non mi conoscete; ma noi, chiunque voi siate, noi siamo amici. Non odiate gli uomini prosperi; solamente fuggiteli.»

4 maggio.

Hai tu veduto dopo i giorni della tempesta prorompere fra l’auree nuvole dell’oriente il vivo raggio del Sole, e riconsolar la natura? Tale per me è la vista di costei. — Discaccio i miei desiderj, condanno le mie speranze, piango i miei inganni: no, io non la vedrò più; io non l’amerò. Odo una voce che mi chiama traditore; la voce di suo padre! M’adiro contro me stesso, e sento risorgere nel mio cuore una virtù sanatrice, un pentimento. — Eccomi dunque saldo nella mia risoluzione; fermo più che mai: ma poi? — All’apparir del suo volto ritornano le illusioni, e l’anima mia si trasforma, e obblia se medesima, e s’imparadisa nella contemplazione della bellezza.

8 maggio.

E la non t’ama; e se pure volesse amarti, nol può. È vero, Lorenzo: ma s’io consentissi a strapparmi il velo dagli occhi, dovrei subito chiuderli in sonno eterno; poiché senza questo angelico lume, la vita mi sarebbe terrore, il mondo caos, la natura notte e deserto. — Anziché spegnere una per una le fiaccole che rischiarano la prospettiva teatrale e disingannare villanamente gli spettatori, non sarebbe assai meglio calar il sipario in un subito, e lasciarli nella loro illusione? Ma se l’inganno ti nuoce: — che monta? se il disinganno mi uccide!

Una domenica intesi il parroco che sgridava i villani perchè s’ubbriacavano. E non s’accorgeva come avvelenava a que’ meschini il conforto di addormentare nell’ebbrietà della sera le fatiche del giorno, di non sentire l’amarezza del loro pane bagnato di sudore e di lagrime, e di non pensare al rigore e alla fame che il venturo verno minaccia.


11 maggio.

Conviene dire che la natura abbia pur d’uopo di questo globo, e della specie di viventi litigiosi che lo stanno abitando. E per provvedere alla conservazione di tutti, anzichè legarci in reciproca fratellanza, ha costituito ciascun uomo così amico di sè medesimo, che volentieri aspirerebbe all’esterminio dell’universo per vivere più sicuro della propria esistenza, e rimanersi despota solitario di tutto il creato. Niuna generazione ha mai veduto per tutto il suo corso la dolce pace; la guerra fu sempre l’arbitra de’ diritti, e la forza ha dominato tutti i secoli. [p. 57 modifica]Così l’uomo or aperto, or secreto, e sempre implacabile nemico della umanità, conservandosi con ogni mezzo, cospira all’intento della natura che ha d’uopo della esistenza di tutti: e i discendenti di Caino e d’Abele, quantunque imitino i loro primitivi parenti, e si divorino perpetuamente l’un l’altro, vivono e si propagano. — Or odi. Ho accompagnato stamattina per tempo Teresa e sua sorellina in casa di una lor conoscente venuta a villeggiare. Credeva di desinare in lor compagnia, ma per mia disgrazia aveva fin dalla settimana passata promesso al chirurgo di andare a pranzo con lui, e se Teresa non me ne facea sovvenire, io, a dirti la verità, me n’era dimenticato. Mi vi sono dunque avviato un’oretta innanzi al mezzogiorno; ma affannato dal caldo, mi sono a mezza strada coricato sotto un ulivo: al vento di jeri fuor di stagione, oggi è succeduta un’arsura nojosissima: e me ne stava lì al fresco spensieratamente come se avessi già desinato. Voltando la testa mi sono avveduto di un contadino che guardavami bruscamente: — Che fate voi qui?

— Sto, come vedete, riposando.

— Avete voi possessioni? — percotendo la terra col calcio del suo schioppo.

— Perchè?

— Perchè? — sdrajatevi su i vostri prati, se ne avete, e non venite a pestare l’erba degli altri: — e partendo, — fate ch’io tornando vi trovi!

Io non mi era mosso, ed egli se n’era ito. A bella prima, io non aveva badato alle sue bravate; ma ripensandoci; se ne avete! e se la fortuna non avesse conceduto a’ miei padri due pertiche di terreno, tu m’avresti negato anche nella parte più sterile del tuo prato l’estrema pietà del sepolcro! — Ma osservando che l’ombra dell’ulivo diventava più lunga, mi sono ricordato del pranzo.

Poco fa tornandomi a casa ho trovato su la mia porta l’uomo stesso di stamattina. — Signore, vi stava aspettando; se mai — vi foste adirato meco; vi domando perdono.

— Riponete il cappello: io non me ne sono già offeso.— Perché mai questo mio cuore nelle stesse occasioni ora è pace pace, ora è tutto tempesta?

Diceva quel viaggiatore: Il flusso e riflusso dei miei umori governa tutta la mia vita. Forse un minuto prima il mio sdegno sarebbe stato assai più grave dell’insulto.

Perché dunque rimetterci al beneplacito di chi ne offende, permettendo ch’egli ci possa turbare con una ingiuria non meritata? Vedi come l’amor proprio ruffiano si prova con questa pomposa sentenza di ascrivermi a merito un’azione che è derivata forse da — chi lo sa? In pari occasioni non ho usato di eguale moderazione: è vero che passata mezz’ora ho filosofato contro di me; ma la ragione è venuta zoppicando; e il pentimento, per chi aspira alla saviezza, è sempre tardo; ma [p. 58 modifica]nè io v’aspiro: io mi sono uno de’ tanti figliuoli della terra, non altro; e porto meco tutte le passioni e le miserie della mia specie.

Il contadino andava ridicendo: — Vi ho fatto villania, ma io non vi conosceva; que’ lavoratori che segavano il fieno ne’ prati vicino mi hanno dopo avvertito.

— Non importa, buon uomo: come andrà egli il raccolto quest’anno?

— Patiremo del caro: or pregovi, signor mio, perdonatemi. Dio volesse v’avessi allor conosciuto!

— Galantuomo; o conoscendo o non conoscendo, non date noja a nessuno, perchè starete a rischio a ogni modo o di inimicarvi il ricco, o di maltrattare il povero: quanto a me non occorre pensarvi.

— Dice bene il signore; Dio gliene rimeriti. — E si partì. E farà forse peggio; gli ha un certo che di sfacciato nel viso; e la ragione degli animali ragionevoli, quando non sentono verecondia, è ragione perniciosissima a chiunque ha che fare con loro.

Intanto? crescono ogni giorno i martiri perseguitati dal nuovo usurpatore della mia patria. Quanti andranno tapinando e profughi ed esiliati, senza il letto di poca erba nè l’ombra di un ulivo — Dio lo sa! Lo straniero infelice è cacciato perfino dalla balza dove le pecore pascono tranquillamente.

12 maggio

Non ho osato no, non ho osato. — Io poteva abbracciarla e stringerla qui, a questo cuore. L’ho veduta addormentata: il sonno le tenea chiusi que’ grandi occhi neri; ma le rose del suo sembiante si spargeano allora più vive che mai su le sue guance rugiadose. Giacea il suo bel corpo abbandonato sopra un sofà. Un braccio le sosteneva la testa, e l’altro pendea mollemente. Io la ho più volte veduta a passeggiare e a danzare; mi sono sentito sin dentro l’anima e la sua arpa e la sua voce, e la ho adorata pien di spavento come se l’avessi veduta discendere dal paradiso — ma così bella come oggi, io non l’ho veduta mai, mai. Le sue vesti mi lasciavano trasparire i contorni di quelle angeliche forme; e l’anima mia le contemplava e — che posso più dirti? tutto il furore e l’estasi dell’amore mi aveano infiammato e rapito fuori di me. Io toccava come un divoto e le sue vesti e le sue chiome odorose e il mazzetto di mammole ch’essa aveva in mezzo al suo seno — sì sì, sotto questa mano diventata sacra ho sentito palpitare il suo cuore. Io respirava gli aneliti della sua bocca socchiusa — io stava per succhiare tutta la voluttà di quelle labbra celesti — un suo bacio! e avrei benedette le lagrime che da tanto tempo bevo per lei — ma allora allora io la ho sentita sospirare fra il sonno: mi sono arretrato, respinto quasi da una [p. 59 modifica]mano divina. T’ho insegnato io forse ad amare, ed a piangere? e cerchi tu un breve momento di sonno, perchè ti ho turbato le tue notti innocenti e tranquille? A questo pensiero me le sono prostrato davanti immobile immobile rattenendo il sospiro: — e sono fuggito per non ridestarla alla vita angosciosa in cui geme. Non si querela; e questo mi strazia ancor più: ma quel suo viso sempre più mesto, e quel guardarmi con pietà, e tremare sempre al nome di Odoardo, e sospirare sua madre — ah! il cielo non ce l’avrebbe conceduta, se non dovesse anch’essa partecipare del sentimento del dolore. Eterno Iddio! esisti tu per noi mortali? o sei tu padre snaturato verso le tue creature? So che quando hai mandato su la terra la Virtù, tua figliuola primogenita, le hai dato per guida la Sventura. Ma perché poi lasciasti la giovinezza e la beltà così deboli da non poter sostenere le discipline di sì austera istitutrice? in tutte le mie afflizioni ho alzato le braccia sino a te, ma non ho osato nè mormorare nè piangere: ahi adesso! E perchè farmi conoscere la felicità, s’io doveva bramarla sì fieramente, e perderne la speranza per sempre? — per sempre! No, Teresa è mia, tutta; tu me l’hai assegnata, perché mi creasti un cuore capace di amarla immensamente, eternamente.

13 maggio.

S’io fossi pittore! che ricca materia al mio pennello! l’artista immerso nella idea deliziosa del bello addormenta o mitiga almeno tutte le altre passioni. — Ma se anche fossi pittore? Ho veduto ne’ pittori e ne’ poeti la bella e talvolta anche la schietta natura; ma la natura somma, immensa, inimitabile non l’ho veduta dipinta mai. Omero, Dante e Shakespeare, tre maestri di tutti gl’ingegni sovrumani, hanno investito la mia immaginazione ed infiammato il mio cuore: ho bagnato di caldissime lagrime i loro versi; e ho adorato le loro ombre divine come se le vedessi assise su le volte eccelse che sovrastano l’universo a dominare l’eternità. Pure gli originali che mi veggo davanti mi riempiono tutte le potenze dell’anima; e non oserei, Lorenzo, non oserei, s’anche si trasfondesse in me Michelangelo, tirarne le prime linee. Sommo Iddio! quando tu miri una sera di primavera ti compiaci forse della tua creazione? tu mi hai versato per consolarmi una fonte inesausta di piacere, ed io l’ho guardata sovente con indifferenza. — Su la cima del monte indorato dai pacifici raggi del sole che va mancando, io mi vedo accerchiato da una catena di colli su i quali ondeggiano le mèssi, e si scuotono le viti sostenute in ricchi festoni dagli ulivi e dagli olmi: le balze e i gioghi lontani van sempre crescendo come se gli uni fossero imposti su gli altri. Di sotto a me le coste del monte sono spaccate in burron infecondi, fra i quali si vedono offuscarsi le ombre della sera, che a poco a poco s’innalzano; il fondo oscuro e [p. 60 modifica]orribile sembra la bocca di una voragine. Nella falda del mezzogiorno l’aria è signoreggiata dal bosco che sovrasta e offusca la valle dove pascono al fresco le pecore, e pendono dall’erta le capre sbrancate. Cantano flebilmente gli uccelli come se piangessero il giorno che muore, mugghiano le giovenche, e il vento pare che si compiaccia del susurrar delle fronde. Ma da settentrione si dividono i colli, e s’apre all’occhio una interminabile pianura: si distinguono ne’ campi vicini i buoi che tornano a casa; lo stanco agricoltore li siegue appoggiato al suo bastone; e mentre le madri e le mogli apparecchiano la cena alla affaticata famigliuola, fumano le lontane ville ancor biancicanti, e le capanne disperse per la campagna. I pastori mungono il gregge, e la vecchiarella che stava filando su la porta dell’ovile, abbandona il lavoro e va carezzando e fregando il torello e gli agnelletti che belano intorno alle loro madri. La vista intanto si va dilungando, e dopo lunghissime file di alberi e di campi, termina nell’orizzonte dove tutto si minora e si confonde: lancia il sole partendo pochi raggi, come se quelli fossero gli estremi addio che dà alla natura; e le nuvole rosseggiano, poi vanno languendo, e pallide finalmente si abbujano: allora la pianura si perde, l’ombre si diffondono su la faccia della terra; ed io, quasi in mezzo all’oceano, da quella parte non trovo che il cielo.

Jer sera appunto dopo più di due ore d’estatica contemplazione d’una bella sera di maggio, io scendeva a passo a passo dal monte. Il mondo era in cura alla notte, ed io non sentiva che il canto della villanella, e non vedeva che i fuochi de’ pastori. Scintillavano tutte le stelle, e mentr’io salutava ad una ad una le costellazioni, la mia mente contraeva un non so che di celeste, ed il mio cuore s’innalzava come se aspirasse ad una regione più sublime assai della terra. Mi sono trovato su la montagnuola presso la chiesa: suonava la campana de’ morti, e il presentimento della mia fine trasse i miei sguardi sul cimiterio dove ne’ loro cumuli coperti di erba dormono gli antichi padri della villa: — Abbiate pace, o nude reliquie: la materia è tornata alla materia; nulla scema, nulla cresce, nulla si perde quaggiù; tutto si trasforma e si riproduce — umana sorte! men infelice degli altri chi men la teme. — Spossato mi sdrajai boccone sotto il boschetto dei pini, e in quella muta oscurità, mi sfilavano dinanzi alla mente tutte le mie sventure e tutte le mie speranze. Da qualunque parte io corressi anelando alla felicità, dopo un aspro viaggio pieno di errori e di tormenti, mi vedeva spalancata la sepoltura dove io m’andava a perdere con tutti i mali e tutti i beni di questa inutile vita. E mi sentiva avvilito e piangeva perché avea bisogno di consolazione — e ne’ miei singhiozzi io invocava Teresa. [p. 61 modifica]

14 maggio.

Anche jer sera tornandomi dalla montagna, mi posai stanco sotto que’ pini; anche jer sera io invocava Teresa. — Udii un calpestio fra gli alberi; e mi parea d’intendere bisbigliare alcune voci. Mi sembrò poi di vedere Teresa con sua sorella. Impaurite a prima vista fuggivano. Io le chiamai per nome, e la Isabellina riconosciutomi, mi si gittò addosso con mille baci. Mi rizzai. Teresa s’appoggiò al mio braccio, e noi passeggiammo taciturni lungo la riva del fiumicello sino al lago de’ cinque fonti. E là ci siamo quasi di consenso fermati a mirar l’astro di Venere che ci lampeggiava su gli occhi. — Oh! diss’ella, con quel dolce entusiasmo tutto suo, credi tu che il Petrarca non abbia anch’egli visitato sovente queste solitudini, sospirando fra le ombre pacifiche della notte la sua perduta amica? Quando leggo i suoi versi io me lo dipingo qui — malinconico — errante — appoggiato al tronco di un albero, pascersi de’ suoi mesti pensieri, e volgersi al cielo cercando con gli occhi lagrimosi la beltà immortale di Laura. Io non so come quell’anima, che avea in sé tanta parte di spirito celeste, abbia potuto sopravvivere in tanto dolore, e fermarsi fra le miserie de’ mortali: oh quando s’ama davvero! — E mi parve ch’essa mi stringesse la mano, e io mi sentiva il cuore che non voleva starmi più in petto. Sì! tu eri creata per me, nata per me, ed io — non so come ho potuto soffocare queste parole che mi scoppiavano dalle labbra.

E saliva su per la collina, ed io la seguitava. Le mie potenze erano tutte di Teresa; ma la tempesta che le aveva agitate era alquanto sedata. — Tutto è amore, diss’io; l’universo non è che amore! e chi lo ha mai più sentito, chi più del Petrarca lo ha fatto dolcissimamente sentire? Que’ pochi genj che si sono innalzati sopra tanti altri mortali mi spaventano di meraviglia; ma il Petrarca mi riempie di fiducia religiosa e d’amore; e mentre il mio intelletto gli sacrifica come a nume, il mio cuore lo invoca padre e amico consolatore. — Teresa sospirò insieme e sorrise.

La salita l’aveva stancata: riposiamo, diss’ella: l’erba era umida, ed io le additai un gelso poco lontano. Il più bel gelso che mai. È alto, solitario, frondoso: fra’ suoi rami v’ha un nido di cardellini. Ah vorrei poter innalzare sotto l’ombre di quel gelso un altare! — La ragazzina intanto ci aveva lasciati, saltando su e giù, cogliendo fioretti e gettandoli dietro le lucciole che veniano aleggiando: Teresa sedea sotto il gelso, ed io seduto vicino a lei con la testa appoggiata al tronco, le recitava le odi di Saffo: sorgeva la Luna — oh! —

Perchè mentre scrivo il mio cuore batte sì forte? beata sera! [p. 62 modifica]

14 maggio, ore 11.

Sì, Lorenzo! — dianzi io meditai di tacertelo — Or odilo, la mia bocca è tuttavia rugiadosa — d’un suo bacio — e le mie guance sono state inondate dalle lagrime di Teresa. Mi ama — lasciami, Lorenzo, lasciami in tutta l’estasi di questo giorno di paradiso.

14 maggio, a sera.

O quante volte ho ripigliato la penna, e non ho potuto continuare: mi sento un po’ calmato e torno a scriverti. — Teresa giacea sotto il gelso — ma e che posso dirti che non sia tutto racchiuso in queste parole: Vi amo? A queste parole tutto ciò ch’io vedeva mi sembrava un riso dell’universo: io mirava con occhi di riconoscenza il cielo, e mi parea ch’egli si spalancasse per accoglierci: deh! a che non venne la morte? e l’ho invocata. Sì; ho baciato Teresa; i fiori e le piante esalavano in quel momento un odore soave; le aure erano tutte armonia; i rivi risuonavano da lontano; e tutte le cose s’abbellivano allo splendore della luna che era tutta piena della luce infinita della divinità. Gli elementi e gli esseri esultavano nella gioja di due cuori ebbri di amore — Ho baciata e ribaciata quella mano — e Teresa mi abbracciava tutta tremante, e trasfondea i suoi sospiri nella mia bocca, e il suo cuore palpitava su questo petto: mirandomi co’ suoi grandi occhi languenti, mi baciava, e le sue labbra umide, socchiuse mormoravano su le mie — Ahi! che ad un tratto mi si è staccata dal seno quasi atterrita: chiamò sua sorella, e s’alzò correndole incontro. Io me le sono prostrato, e tendeva le braccia come per afferrar le sue vesti — ma non ho ardito di rattenerla, né richiamarla. La sua virtù — e non tanto la sua virtù, quanto la sua passione, mi sgomentava: sentiva e sento rimorso di averla io primo eccitata nel suo cuore innocente. Ed è rimorso — rimorso di tradimento! Ahi, mio cuore codardo! — Me le sono accostato tremando. — Non posso essere vostra mai! — e pronunciò queste parole dal cuore profondo, e con una occhiata con cui parea rimproverarsi e compiangermi. Accompagnandola lungo la via, non mi guardò più; nè io avea più coraggio di dirle parola. Giunta alla ferriata del giardino mi prese di mano la Isabellina e lasciandomi: Addio, diss’ella; e rivolgendosi dopo pochi passi, — addio.

Io rimasi estatico: avrei baciate l’orme de’ suoi piedi: pendeva un suo braccio, e i suoi capelli rilucenti al raggio della luna svolazzavano mollemente: ma poi, appena appena il lungo viale e la fosca ombra degli alberi mi concedevano di travedere le ondeggianti sue vesti che da lontano ancor biancheggiavano; e poiché l’ebbi perduta, tendeva l’orecchio sperando [p. 63 modifica]di udir la sua voce. — E partendo, mi volsi con le braccia aperte, quasi per consolarmi, all’astro di Venere: era anch’esso sparito.

15 maggio.

Dopo quel bacio io son fatto divino. Le mie idee sono più alte e ridenti, il mio aspetto più gajo, il mio cuore più compassionevole. Mi pare che tutto s’abbellisca a’ miei sguardi: il lamentar degli augelli, e il bisbiglio de’ zefiri fra le frondi son oggi più soavi che mai; le piante si fecondano, e i fiori si colorano sotto a’ miei piedi; non fuggo più gli uomini, e tutta la natura mi sembra mia. Il mio ingegno è tutto bellezza ed armonia. Se dovessi scolpire o dipingere la Beltà, io, sdegnando ogni modello terreno, la troverei nella mia immaginazione. O amore! le arti belle sono tue figlie; tu primo hai guidato su la terra la sacra poesia, solo alimento degli animi generosi che tramandano dalla solitudine i loro canti sovrumani sino alle più tarde generazioni, spronandole con le voci e co’ pensieri spirati dal cielo ad altissime imprese: tu raccendi ne’ nostri petti la sola vera virtù utile ai mortali, la pietà, per cui sorride talvolta il labbro dell’infelice condannato ai sospiri: e per te rivive sempre il piacere fecondatore degli esseri, senza del quale tutto sarebbe caos e morte. Se tu fuggissi, la Terra diverrebbe ingrata; gli animali, nemici fra loro; il sole, foco malefico; e il mondo, pianto, terrore e distruzione universale. Adesso che l’anima mia risplende di un tuo raggio, io dimentico le mie sventure; io rido delle minacce della fortuna, e rinunzio alle lusinghe dell’avvenire. — O Lorenzo! sto spesso sdrajato su la riva del lago de’ cinque fonti; mi sento vezzeggiare la faccia e le chiome dai venticelli che alitando sommovono l’erba, e allegrano i fiori, e increspano le limpide acque del lago. Lo credi tu? io delirando deliziosamente mi veggo dinanzi le Ninfe ignude, saltanti, inghirlandate di rose, e invoco in lor compagnia le Muse e l’Amore; e fuor dei rivi che cascano sonanti e spumosi, vedo uscir sino al petto con le chiome stillanti sparse su le spalle rugiadose, e con gli occhi ridenti, le Najadi, amabili custodi delle fontane. — Illusioni! grida il filosofo. — Or non è tutto illusione? tutto! Beati gli antichi che si credeano degni de’ baci delle immortali dive del cielo; che sacrificavano alla Bellezza e alle Grazie; che diffondeano lo splendore della divinità su le imperfezioni dell’uomo, e che trovavano il bello ed il vero accarezzando gli idoli della lor fantasia! Illusioni! ma intanto senza di esse io non sentirei la vita che nel dolore, o (che mi spaventa ancor più) nella rigida e nojosa indolenza: e se questo cuore non vorrà più sentire, io me lo strapperò dal petto con le mie mani, e lo caccerò come un servo infedele. [p. 64 modifica]

21 maggio.

Ohimè che notti lunghe, angosciose! — il timore di non rivederla mi desta: divorato da un presentimento profondo, ardente, smanioso, sbalzo dal letto al balcone, e non concedo riposo alle mie membra nude aggrezzate, se prima non discerno sull’oriente un raggio di giorno. Corro palpitando al suo fianco e — stupido! soffoco le parole, e i sospiri; non concepisco, non odo: il tempo vola, e la notte mi strappa da quel soggiorno di paradiso. — Ahi lampo! tu rompi le tenebre, splendi, passi, ed accresci il terrore e l’oscurità.

25 maggio.

Ti ringrazio, eterno Iddio, ti ringrazio! Tu hai dunque ritirato il tuo spirito, e Lauretta ha lasciato alla terra le sue infelicità: tu ascolti i gemiti che partono dalle viscere dell’anima, e mandi la morte per isciogliere dalle catene della vita le tue creature perseguitate ed afflitte. Mia cara amica! il tuo sepolcro beva almeno queste lagrime, solo tributo ch’io posso offerirti: le zolle che ti nascondono sieno coperte di poca erba: tu vivendo speravi da me qualche conforto; eppure! non ho potuto nemmeno prestarti gli ultimi ufficj; ma — ci rivedremo — sì!

Quand’io, caro Lorenzo, mi ricordava di quella povera innocente, certi presentimenti mi gridavano dall’anima: È morta. Pure se tu non me ne avessi scritto, io certo non lo avrei saputo mai; perchè, e chi si cura della virtù, quand’è ravvolta nella povertà? Spesso mi sono accinto a scriverle. M’è caduta la penna, e ho bagnato la carta di lagrime: temeva non mi raccontasse de’ nuovi martirj, e mi destasse nel cuore una corda la cui vibrazione non sarebbe cessata sì tosto. Pur troppo! noi sfuggiamo d’intendere i mali de’ nostri amici; le loro miserie ci sono gravi, e il nostro orgoglio sdegna di porgere il conforto delle parole, sì caro agli infelici, quando non si può unire un soccorso vero e reale. Ma — fors’ella e sua madre mi annoveravano fra la turba di coloro che ubbriacati dalla prosperità abbandonano gli sventurati. Lo sa il cielo! Frattanto Dio ha conosciuto che non poteva reggere più: Ei tempera i venti in favore dell’agnello recentemente tosato; — e tosato al vivo! E ti dee pur ricordare com’essa un giorno tornò a casa, portando chiuso nel suo canestrino da lavoro un cranio di morto; e ci scoverse il coperchio, e rideva; e mostrava il cranio in mezzo a un nembo di rose. — E le sono tante e tante, diceva a noi, queste rose; e le ho rimondate di tutte le spine: e domani le si appassiranno: ma io ne compererò ben dell’altre, perché per la morte, ogni giorno, ogni mese crescono rose. — Ma che vuoi tu farne, o Lauretta? io le dissi. — Vo’ coronare questo cranio di rose, e ogni giorno di rose fresche perpetue: — e [p. 65 modifica]rispondendo rideva pur sempre con soave amabilità. E in quelle parole, e in quel riso, e in quell’aria di volto demente, e in quegli occhi fitti sul cranio, e in quelle sue dita pallide e tremanti che andavano intrecciando le rose — tu ti se’ pur avveduto come alle volte il desiderio di morire è necessario insieme e dolcissimo; ed eloquente fin anche sul labbro d’una fanciulla impazzata.

Tornerò, Lorenzo: conviene ch’io esca; il mio cuore si gonfia e geme come se non volesse starmi più in petto: su la cima di un monte mi sembra d’essere alquanto più libero: ma qui nella mia stanza — sto quasi sotterrato in un sepolcro.


Sono salito su la più alta montagna: i venti imperversavano; io vedeva le querce ondeggiar sotto a’ miei piedi; la selva fremeva come mar burrascoso, e la valle ne rimbombava; su le rupi dell’erta sedeano le nuvole — nella terribile maestà della natura la mia anima attonita e sbalordita ha dimenticato i suoi mali, ed è tornata per alcun poco in pace con sè medesima.

Vorrei dirti di grandi cose: mi passano per la mente; vi sto pensando! — m’ingombrano il cuore, s’affollano, si confondono: non so più da quale io mi debba incominciare; poi tutto ad un tratto mi sfuggono, ed io prorompo in un pianto dirotto.

Vado correndo come un pazzo senza saper dove, e perchè: non m’accorgo, e i miei piedi mi strascinano fra' precipizj. Io domino le valli e le campagne soggette; magnifica ed inesausta natura! I miei sguardi e i miei pensieri si perdono nel lontano orizzonte. — Vo salendo, e sto lì — ritto — anelante: guardo all'ingiù; ahi voragine! alzo gli occhi inorridito, e scendo precipitoso appiè del colle dove la valle è più fosca. Un boschetto di giovani querce mi protegge dai venti e dal sole; due rivi d’acqua mormorano qua e là sommessamente: i rami bisbigliano, e un rosignuolo — ho sgridato un pastore che era venuto per rapire dal nido i suoi pargoletti: il pianto, la desolazione, la morte di quei deboli innocenti dovevano essere venduti per una moneta di rame; così va! ma io l’ho compensato del guadagno che sperava di trarne, e mi ha promesso di non disturbare più i rosignuoli. — E là io mi riposo. — Dove se’ ito, o buon tempo di prima! la mia ragione è malata, e non può fidarsi che nel sopore, e guai se sentisse tutta la sua infermità! Quasi quasi. — O povera Lauretta! tu forse mi chiami.

Tutto, tutto quello ch’esiste per gli uomini non è che la lor fantasia. Caro amico! fra le rupi la morte mi era spavento; e all’ombra di quel boschetto io avrei chiusi gli occhi volentieri in sonno eterno. Ci fabbrichiamo la realtà a nostro modo; i nostri desiderj si vanno moltiplicando con le nostre idee; sudiamo per quello che vestito diversamente ci annoja; e le nostre passioni non sono in fine del conto che gli effetti delle [p. 66 modifica]nostre illusioni. Quanto mi sta d’intorno richiama al mio cuore quel dolce sogno della mia fanciullezza. O! come io scorreva teco queste campagne aggrappandomi or a questo or a quell’arboscello di frutta, immemore del passato, non curando che del presente, esultando di cose che la mia immaginazione ingrandiva, e che dopo un’ora non erano più, e riponendo tutte le mie speranze ne’ giuochi della prossima festa. Ma quel sogno è svanito! e chi m’accerta che in questo momento io non sogni? Ben tu, mio Dio, tu che creasti il mio cuore, sai che sonno spaventevole è questo ch’io dormo; sai che non altro mi avanza fuorché il pianto e la morte!

Così vaneggio! cangio voti e pensieri, e quanto la natura è più bella tanto più vorrei vederla vestita a lutto. E veramente pare che oggi m’abbia esaudito. Nel verno passato io era felice: quando la natura dormiva mortalmente, la mia anima pareva tranquilla — ed ora?

Eppur mi conforta la speranza di essere compianto. Su l’aurora della vita io cercherò forse invano il resto della mia età che mi verrà rapito dalle mie passioni e dalle mie sventure; ma la mia sepoltura sarà bagnata dalle tue lagrime, dalle lagrime di quella fanciulla celeste. E chi mai cede a una eterna obblivione questa cara e travagliata esistenza? Chi mai vide per l’ultima volta i raggi del sole, chi salutò la natura per sempre, chi abbandonò i suoi diletti, le sue speranze, i suoi inganni, i suoi stessi dolori senza lasciar dietro a sè un desiderio, un sospiro, uno sguardo? Le persone a noi care che ci sopravvivono, sono parte di noi. I nostri occhi morenti chiedono altrui qualche stilla di pianto, e il nostro cuore ama che il recente cadavere sia sostenuto da braccia amorose, e cerca un petto dove trasfondere l’ultimo nostro respiro. Geme la natura perfin nella tomba, e il suo gemito vince il silenzio e l’oscurità della morte.

M’affaccio al balcone ora che la immensa luce del sole si va spegnendo, e le tenebre rapiscono all’universo que’ raggi languidi che balenano su l’orizzonte; e nella opacità del mondo malinconico e taciturno contemplo la immagine della Distruzione divoratrice di tutte le cose. Poi giro gli occhi sulle macchie de’ pini piantati dal padre mio su quel colle presso la porta della parrocchia, e travedo biancheggiare fra le frondi agitate da’ venti la pietra della mia fossa. Quivi ti vedo venir con mia madre, e pregar pace non foss’altro alle ceneri dell’infelice figliuolo. Allora dico a me stesso. Forse Teresa verrà solitaria su l’alba a rattristarsi dolcemente su le mie antiche memorie, e a dirmi un altro addio. No! la morte non è dolorosa. Che se taluno metterà le mani nella mia sepoltura e scompiglierà il mio scheletro per trarre dalla notte, in cui giaceranno, le mie ardenti passioni, le mie opinioni, i miei delitti — forse; non mi difendere, Lorenzo; rispondi soltanto: Era uomo, e infelice. [p. 67 modifica]

26 maggio.

Ei viene, Lorenzo — ei ritorna.

Scrive dalla Toscana dove si fermerà venti giorni; la lettera è in data de’ 18 maggio: fra due settimane al più — dunque!

27 maggio.

E penso: ed è pur vero che questa immagine d’angelo dei cieli esista qui, in questo basso mondo, fra noi? e sospetto di essermi innamorato della creatura della mia fantasia.

E chi non avrebbe voluto amarla anche infelicemente? e dov’è l’uomo così avventuroso, col quale io degnassi di cangiare questo mio stato lagrimevole? — Ma come io posso dall’altra parte essere tanto carnefice mio per tormentarmi, — or nol veggo? e nol vidi pur sempre? — senza niuna speranza? — forse! un certo orgoglio in costei della sua bellezza e delle mie angosce. Non mi ama, e la sua compassione coverà un tradimento. Ma quel suo bacio celeste che mi sta sempre su le labbra, e che mi domina tutti i pensieri? e quel suo pianto? — ahi, ma dopo quel momento mi sfugge; nè osa guardarmi più in faccia. Seduttore! io? e quando mi sento tuonare nell’anima quella tremenda sentenza: Non sarò vostra mai; io trapasso di furore in furore, e medito delitti di sangue. — Non tu, innocente vergine, io solo, io solo ho tentato il tradimento; e l’avrei, chi sa! — consumato.

Oh! un altro tuo bacio, e abbandonami poscia a’ miei sogni e a’ miei soavi delirj: io ti morrò a’ piedi; ma tutto tuo, e sapendo che pur t’ho lasciata innocente — ma insieme infelice! Tu, se non potrai essermi sposa, mi sarai almeno compagna nel sepolcro. Ah no; la pena di questo amore fatale si rovesci sopra di me. Ch’io pianga per tutta un’eternità; ma che il cielo, o Teresa, non voglia che tu sia lungamente per mia cagione infelice! — Ma intanto io ti ho perduta, e tu mi t’involi, tu stessa. Ah se tu mi amassi com’io t’amo!

Eppure, o Lorenzo, in sì fieri dubbj, e in tanti tormenti, ogni qual volta ch’io domando consiglio alla mia ragione, mi conforta dicendomi: Tu non se’ immortale. Or via, soffriamo dunque e sino agli estremi. — Uscirò, uscirò dall’inferno della vita; e basto io solo; a questa idea rido e della fortuna, e degli uomini, e della stessa onnipotenza di Dio.

28 maggio.

Spesso io mi figuro tutto il mondo a soqquadro, e il cielo, e il sole, e l’oceano, e tutti i globi nelle fiamme e nel nulla; ma se anche in mezzo a tanta rovina io potessi stringere un’altra volta Teresa — un’altra volta soltanto fra queste braccia, io invocherei la distruzione del creato. [p. 68 modifica]

29 maggio, all’alba.

O illusione! perchè quando ne’ miei sogni quest’anima è un paradiso, e Teresa è al mio fianco, e mi sento sospirar su la bocca, e... perchè mi trovo poi un vuoto, un vuoto di tomba? Almen que’ beati momenti non fossero mai venuti, o non fossero fuggiti mai! Questa notte io cercava brancicando quella mano che me l’ha strappata dal seno: mi parea d’intendere da lontano un suo gemito; ma le coltri molli di pianto, i miei capelli sudati, il mio petto ansante, la fitta e muta oscurità — tutto tutto mi gridava: Infelice, tu deliri! Spaventato e languente mi sono buttato boccone sul letto abbracciando il guanciale, e cercando di tormentarmi nuovamente e d’illudermi.

Se tu mi vedessi stanco, squallido, taciturno errar su e giù per le montagne e cercar di Teresa, e temer di trovarla, sovente brontolar fra me stesso, chiamare, pregarla e rispondere alle mie voci! Arso dal sole mi caccio sotto una macchia e m’addormento o vaneggio — ahi che sovente la saluto come se la vedessi, e mi pare di stringerla e di baciarla — poi tutto svanisce, ed io tengo gli occhi inchiodati su i precipizj di qualche dirupo. Sì! conviene ch’io la finisca.

29 maggio, a sera.

Fuggir, dunque fuggire: ma dove? credimi, io mi sento malato: appena reggo questo misero corpo per potermelo strascinare sino alla villa, e confortarmi in quegli occhi divini, e bere un altro sorso di vita, forse ultimo! Ma senza di ciò vorrei più questo inferno?

Oggi l’ho salutata per andarmene a desinare; sono partito, ma non poteva scostarmi dal suo giardino: e — lo credi? la sua vista mi dà soggezione: vedendola poi scendere con sua sorella, ho tentato di tirarmi sotto una pergola e fuggirmene. La Isabellina ha gridato: Viscere mie, viscere mie, non ci avete vedute? Colpito quasi da un fulmine mi sono precipitato sopra un sedile; la ragazza mi s’è gettata al collo carezzandomi, e dicendomi all’orecchio: perchè piangi? Non so se Teresa m’abbia guardato; sparì dentro un viale. Dopo mezz’ora tornò a chiamare la ragazza che stava ancora fra le mie ginocchia, e m’accorsi che le sue pupille erano rosse di pianto: non mi parlò, ma mi ammazzò con un’occhiata, quasi volesse dirmi: Tu mi hai ridotta così misera.

2 giugno.

Ecco tutto ne’ suoi veri sembianti. Ahi! non sapeva che in me s’annidasse questa furore che m’investe, m’arde, m’annienta, eppur non mi uccide. Dov’è la natura? Dov’è la sua [p. 69 modifica]immensa bellezza? Dov’è l’intreccio pittoresco de’ colli ch’io contemplava dalla pianura innalzandomi con l’immaginazione nelle regioni dei cieli? mi sembrano rupi nude, e non veggo che precipizj. Le loro falde coperte di ombre ospitali, mi son fatte nojose; io vi passeggiava un tempo fra le ingannevoli meditazioni della nostra debole filosofia. A qual pro se ci fanno conoscere le infermità nostre, né porgono i rimedj da risanarle? — Oggi io sentiva gemere la foresta ai colpi delle scuri: i contadini atterravano i roveri di duecento anni: — tutto père quaggiù.

Guardo le piante ch’una volta scansava di calpestare, e mi soffermo sovr’esse e le strappo, e le sfioro gittandole fra la polvere rapita dai venti. Gemesse con me l’universo!

Sono uscito assai prima del sole, e correndo attraverso dei solchi cercava nella stanchezza del corpo qualche sopore a quest’anima tempestosa. La mia fronte era tutta sudore, e il mio petto ansava con difficile anelito. Soffia il vento della notte, e mi scompiglia le chiome ed agghiaccia il sudore che grondavami dalle guance. Oh! da quell’ora mi sento per tutte le membra un brivido, le mani fredde, le labbra livide, e gli occhi erranti fra le nuvole della morte.

Almeno costei non mi perseguitasse con la sua immagine, ovunque io mi vada, a piantarmisi faccia a faccia! perch’ella, o Lorenzo — perch’ella mi muove qui dentro un terrore, una disperazione, una rabbia, una gran guerra — e medito talor di rapirla e di strascinarla con me nei deserti, lungi dalla prepotenza degli uomini. — Ahi sciagurato! mi percuoto la fronte e bestemmio: — partirò.



Note

  1. Epitteto, Manuale, XXII.
  2. Regum, Lib. II, cap. XII.