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Un romanzo/X

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IX XI
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X.

Il carnevale finì tranquillamente.

Incominciava marzo e compiva l’anno da che Giulia aveva preso marito.

— Già un anno!

In quel giorno convitarono lo zio Prospero, Roberto e qualche altro amico.

Si stette molto allegri. Olimpio, di buonissimo umore, fece gli onori di casa splendidamente — Giulia raggiava.

Povera Giulia!... erano i suoi ultimi sorrisi. Chi le avrebbe detto che lagrime infinite l’aspettavano nell’avvenire? che quel giorno era l’ultimo bel giorno del suo matrimonio?... al contrario, le fecero mille auguri di felicità e le pronosticarono un futuro di gioja.

Il signor Prospero, grasso, roseo, fresco, accuratamente rasato, colle sue orecchie di cane ben distese, aveva un risolino soddisfatto. [p. 81 modifica]

— E così — disse a Olimpio tirandolo nel vano d’una finestra — come vanno gli affari?

— Benone, benone.

— Dunque la mia rendita è sicura?

— Ma, no, non troppo. Capisci bene che se gli affari per me vanno a seconda, è segno che minaccia del torbido. Se non ci fosse nulla d’accomodare, cosa se ne farebbe della diplomazia? Io dico dunque benone, benone — ma dal mio punto di vista.

— Ed io allora? esclamò allarmato il signor Prospero.

— Tu.... sicuro ci penso seriamente — fece Olimpio dandosi un’aria grave — sarebbe prudenza vendere almeno una parte della rendita. A quanto ammonta in completo?

— Ottantamila lire.

— Eh!... si potrebbe levarne una trentina e guardare d’impiegarle diversamente.

— In capitali?

— O in commercio, o in fondi, o in speculazioni si vedrà poi.

— Diamine!... ma non si sente a dir nulla — rincalzò il signor Prospero.

— Certamente, e cosa s’ha a dire? Non vi sono per nulla i gabinetti segreti e gli affari segreti.

— Ma i giornali.... [p. 82 modifica]

— I giornali! i giornali! Le notizie ch’essi danno o sono vecchie, e per conseguenza prive d’interesse, o sono nuove — ed allora è perchè le hanno inventate.

— Cosa fate lì voi due?

Chi intervenne a questo modo fu Giulia che non voleva perdere nulla di quella festa di famiglia.

— .... Scommetto parlate di politica.

— Approssimativamente, rispose il signor Prospero.

Olimpio lasciò il suo interlocutore e riprese posto a tavola.

Anche quel giorno finì.

Giulia, spogliandosi alla sera del suo bell’abito azzurro, e staccando il ricco monile di perle che Olimpio le aveva allacciato al collo, mormorò giuliva: «Sono proprio felice!»

Quante volte, nella vita, si pronunciano queste parole — e quante volte ci chiamiamo i più sfortunati dei mortali! L’esistenza è troppo breve per poter darci lunghe gioje e lunghi dolori, come nelle corde alternate di un’arpa la tristezza sta a fianco della letizia e vibrano or lente or concitate seguendo i palpiti del cuore; ora trasportandoci a liriche altezze dalle quali ci sembra non dover scendere mai; ora piombandoci al suolo, annichiliti e vili.

I giorni che seguirono furono mesti per Giulia. Olimpio s’era rannuvolato. Col pretesto di rinnovare la [p. 83 modifica] servitù, aveva licenziato il cuoco e il cameriere; restavano due donne sole.

Giulia aveva una bellissima vettura da nolo che la veniva a prendere ad ore fisse — non si vide più — Olimpio pretese essersi bisticciato col padrone.

Due vasi altissimi del Giappone torreggiavano sulla caminiera del salotto — un bel giorno scomparvero.

Olimpio, interrogato, rispose che li aveva prestati a Roberto per servirgli di modello in un quadro storico di grandi dimensioni, che doveva figurare alla prossima mostra dell’Accademia.

Molte volte giungevano a domicilio certe lettere sudicie, ingommate con negligenza o senza gomma affatto e chiuse da una goccia smisurata di ceralacca vermiglia coll’impronta di un ditale — lettere di un certo odore, d’un certo colore tutto proprio.

Giulia nel ricevere quelle lettere rabbrividiva; le consegnava tremando a suo marito, e suo marito le spiegazzava con indifferenza.

Alle lettere seguirono le visite di personaggi equivoci; giovinotti gagliardi, dalla fisonomia risoluta, che dichiaravano di non voler partire senza aver parlato col signore.

Ma il signore non era mai in casa — qui sta il guajo — e lettere e visite si moltiplicavano. Giulia non si faceva vedere quasi più in società; viveva ritirata e sola, in preda alle sue malinconiche riflessioni. [p. 84 modifica]

Una sera — era il mese d’aprile — pioveva, e Giulia a lume spento ascoltava il rumore dell’acqua sui vetri. Forse pensava, la poveretta, alle sue illusioni svanite, a’ suoi castelli di fata, ai bei sogni de’ suoi quindici anni.

Carattere più affettuoso che ardente, più tenero che appassionato, soffriva in silenzio e senza reazione. I morsi violenti della gelosia, dell’orgoglio e della vendetta non turbavano il suo dolce cuore innocente. Piangeva senz’odio — e le lagrime sgorgavano abbondanti da’ suoi begli occhi, come dagli occhi sereni d’un bambino.

Ad un tratto trasalì guardando verso la porta.

Il signor Prospero l’aveva aperta con una spinta poco accademica e presentavasi ansante, rosso in viso più del solito, e — indizio grave — coi capelli scomposti.

— Quel briccone di mio nipote! esclamò brandendo la canna a guisa di durlindana.

— Cos’ha fatto? mormorò Giulia spaurita.

— Ha fatto.... ha fatto che è un briccone! L’ho sempre detto io che non mi fidavo delle sue arie diplomatiche — diplomatico lui!... è un brigante, un assassino, un Ninco Nanco.

— Signor Prospero....

— Un Cipriano La-Gala, un Pasqualone — no — un Bernardoni — nemmeno — in somma non so più quello che dico, ma mi intendo io. [p. 85 modifica]

Cadde sbuffando su una sedia; Giulia non sapeva come interrogarlo, nè egli le concedette tempo, perchè replicò:

— Tutto ha consumato, tutto. Sì, è rovinato completamente e mangiò per sopramercato le mie trentamila lire — babbeo che fui!

— Non è possibile.... arrischiò Giulia.

— Come, non è possibile? Ogni cosa è possibile a questi briganti, e Olimpio è brigantissimo; ne scappano di galera che valgono meglio di lui.

— Ah, signore!... fece Giulia coi singhiozzi alla gola.

— Sì, sì, piangi — non ti resta altro a fare.

Brutalmente, ma il signor Prospero aveva detto la verità.

Olimpio, affogato nei debiti, si trovava al punto terribile di vedersi per casa gli uscieri — i creditori vi erano già da un pezzo.

Dire che lui particolarmente ne soffrisse, sarebbe un attribuirgli quella sensibilità che io mi ostino a contrastargli.

No, egli non soffriva.

Sempre bello, sempre elegante, spensierato e freddo, compiva in quei giorni un viaggetto di piacere sui laghi. Roberto gli era compagno, e credeva in buona fede di guidare un infelice, di assisterlo, di confortarlo.

Roberto, leale e ingenuo, non poteva darsi pace; egli [p. 86 modifica] si riteneva debitore di Olimpio, e in questa catastrofe avrebbe voluto impegnare l’anima per sollevare l'amico.

Ma i debiti d’Olimpio erano molti, complicati, e il povero pittore si sbracciava invano.

Pochi giorni prima era stato testimonio di una brutta scena in casa d’Olimpio. Un fornitore venuto colla sua lista pretendeva che Giulia lo pagasse — la poverina che versava nella massima strettezza, chiese tempo e pazienza — l’altro rispose con arroganza — Giulia pianse — l’altro minacciò. Roberto, fattosegli accanto, gli susurrò all'orecchio: «Ci penso io.»

Ci pensò lui diffatti, ma gli convenne vendere una buona parte della sua mobiglia, qualche oggetto di lusso e un brillante, dono d’Olimpio.

— Faccio il mio dovere — disse il bravo giovane — do a Cesare quel ch’è di Cesare. Dio provvederà per il resto.