Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XXII

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Lettera XXII

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LETTERA XXII

19 gennaro.

Umana vita? Sogno, ingannevole sogno, al quale noi pur diam sì gran prezzo, siccome le donnicciuole ripongono la loro ventura nelle superstizioni e nei presagi. Bada: ciò cui tu stendi avidamente la mano è un’ombra forse, che, mentr’è a te cara, a tal altro è noiosa. Sta dunque tutta la mia felicitá nella vuota apparenza delle cose che mi circondano; e, s’io cerco alcunché di reale, o torno a ingannarmi, o spazio attonito e spaventato nel nulla. Io non lo so;... ma, per me, temo che la natura abbia costituito l’umana specie quasi minimo anello passivo dell’incomprensibile suo sistema, dotandola di cotanto amor proprio, perché il sommo timore e la somma speranza, creandole nell’immaginazione una infinita serie di mali e di beni, la tenessero pur sempre occupata di questa esistenza breve, dubbia, infelice. E, mentre noi serviamo ciecamente al suo scopo, ride ella frattanto del nostro orgoglio, che ci fa reputare l’universo creato solo per noi, e noi soli degni e capaci di dar leggi a tutto quello ch’esiste.

Andava quest’oggi perdendomi per le campagne, avvoltolato nel mio ferraiuolo sin quasi agli occhi, osservando lo squallore della vedova terra, tutta sepolta sotto le nevi, senza erba né fronda che attestasse la sua passata dovizia. Né potevano gli occhi miei lungamente fissarsi su le orride spalle de’ colli, il vertice de’ quali era immerso, per così dire, in una nera nube di gelida nebbia, che piombava ad accrescere il lutto dell’aere freddo ed ottenebrato. Giá giá mi parea di veder quelle nevi disciogliersi e precipitar a torrenti, che innondavano il piano, strascinandosi impetuosamente piante, armenti, capanne, e distruggendo in un giorno i sudori di tanti anni e le speranze di tante famiglie. Trapelava di quando in quando un timido raggio di sole, il quale, quantunque restasse poi vinto e soffocato dalla caligine, lasciava pur divedere che sua mercé soltanto il mondo non [p. 109 modifica] era dominato da una perpetua notte profonda. Ed io, rivolgendomi a quella parte di cielo che albeggiando manteneva ancora le tracce del suo splendore: — O sole — diss’io — tutto cangia quaggiú! ma tu giammai, eterna lampa, non ti cangi? mai! Pur verrá di, che Dio ritirerá il suo sguardo da te, e tu ancora cadrai nel vuoto antico del caos; né piú allora le nubi corteggeranno i tuoi raggi cadenti, né piú l’alba inghirlandata di celesti rose verrá, cinta di un tuo raggio, sull’oriente ad annunziar che tu sorgi. Godi intanto della tua carriera. L’uomo solo non gode de’ suoi miseri giorni, e, se talvolta gli è dato di passeggiare pe’ floridi prati d’aprile, dee pur sempre temere l’infocato aere dell’estate e ’l ghiaccio inclemente del verno. —