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Vita e morte del gobbo Girolamo Odone d'Isola

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Francesco Antonio Saverio Grue

14 febbraio 1722 Indice:Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrarono.djvu Poesie/Poesia satirica Letteratura Vita e morte del gobbo Girolamo Odone d’Isola Intestazione 5 luglio 2023 75% Da definire

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VITA E MORTE

DEL GOBBO G... O... D'ISOLA

STRAMBOTTO SATIRICO

DEL DOTT. FRANCESCANTONIO GRUE DI CASTELLI.

Giunse il gobbo, o lettor, a quel confine,
Che al viver suo il gran Motor prescrisse
Morì colui, e tal morìo qual visse:
Suol mala vita aver pessimo fine.

So ben che non vedesti il babbuino,
Mentre quaggiù fra noi egli fu vivo;
Perciò la vita sua or ti descrivo,
E pinta te la mando in terso lino.

Fra l’opre del Callot che i brutti gobbi
Ed i mostri umanati al vivo pinse,
E coll’immaginar chimere finse,
Simigliante figure io non conobbi.

Vedilo, e bada ben che all’intestina
Con spiacevol rumor fetidi venti
Pel rotondo porto manda a torrenti,
Per nausearti senza medicina.

Deh! mira tu Signor quel gran fagotto,
Che al brutto dorso diè sferica forma
Certo non è fra la tartarea torma
Più orribile di lui spirto corrotto!

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Di Diogene la botte egli rassembra,
Od un gonfio pallon che ammorba e fete,
O ragno vil che alla sottil sua rete
I volanti moscon carcera e smembra.
. . . . . . . . . . . .
Là nell’Indie nommai nel tempo scorso
Nacque tra nani così brutto oggetto,
Che non d’uom, ma di bestia ebbe l’aspetto;
Rassembrando un cammel col curvo dorso.

Per decidere alfin la quistione
Intorno agl’ircocervi, alle chimere;
Sen venne a desolar contrade intere,
Lo scontraffatto semicapro Odone.

Della stirpe esso fu delli Pigmei,
Che son d’altezza un piede e mezzo o due,
E frequente tenzon han con le Grue,
Nel monte che si oppone ai Pirenei.

Ma per lo scrigno, che sul dorso avea,
D'essere gli parea un vero Atlante;
Che al gran globo del ciel non vacillante,
Con quella schiena sua base facea.

Fu pubblico Notar; ma ben si crede,
Che fosse d’onor tal tosto privato,
E per falsario fosse riputato;
Chè fede non può far chi non ha fede!

Fece profession d’Agrimensura:
Ma per l’audacia che sovente inganna,
Giammai non ebbe in man la mezzacanna
Per pigliar di sè stesso la misura.

Fu di colpe mortal colmo fardello,
A tutti poi la crapula avanzava:
E lo spirito di vin spesso il versava,
Chè di vino parea un carratello.

Un corpo scontraffatto nommai suole
Esser albergator d’anima buona:
È detto del Morel, che ancor risuona
E dove nasce e dove muore il sole.

Eppure Erario il fe’ il signor Marchese
Della Valle, che è sotto Montecorno:
S’udì per questo allor tutto all’intorno
Di pianto risonar ogni paese.

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L’Isola sospirò che dal suo seno
Al mondo partorì sì fiera peste:
E piansero le ville afflitte e meste
Al ruggir di Mavon d’ira ripieno.

Soggiunse allor piangente Tossicia:
Dall’idra intossicar cogli occhi miei
La nobiltà vedrò de’ semidei,
E struggeralli il mal di tisicia!

Quindi spezzar sentiss’in guise strane
Pietracamela per lo gran cordoglio:
E più pianto stillò, che giammai oglio
Non suole consumar chi fa le lane.

Con strida risuonò tutto Canzano,
Che vide da vicin doglie future:
E per piangere ancora le sue sventure
Non bisognar cipolle a Leognano.

Giunse a Poggio Morello il fier destino:
Di Sant’Egidio, ancor di Sant’Omero
La grande santitade, a dire il vero,
Odon martirizzò, nuovo Ezelino.

Li Colli, Colledoro, e Palombara,
Acquaviva, li Rossi con Capsano,
E Chiarino col suo vicin’Ornano
Insieme lagrimar la sorte amara.

A scriver di Castelli in questo loco
L’afflizion per questo fiero mostro,
In ogni calamar scars’è l’inchiostro;
Ed è meglio tacer che dirne poco.

Nemmen descriver vo’ quella tenzone.
Che pel suolo natio ebbe primiero
Con tal goffo pigmeo il Grue altero;
Chè troppo tempo vuol la narrazione.

Del duolo universal furon motivi
Le gravi estorsioni e le rapine;
E le calunnie ancor, che quasi spine
Trafissero pungenti il cor de’ vivi.

Alla provvida Parca alfin già piacque
Con forbice fatal render reciso
Quel mal filo vitale all’improvviso,
E alla stalla, qual porco, estinto giacque.

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Morì l’ubbriacon allor che a gara
Cogli sbirri bevea acqua di vita:
Acqua per sè mortal, che pur finita
Fe’ la doglia veder con morte amara.

Il gibbo, che il briccon sul dorso avea,
Gl’impedì riguardar l’azzurro cielo;
E tolto che gli fue il mortal velo,
Ver l’abisso la faccia ancora tenea.

A’ sconvolti capelli e serpeggianti
Sembrava il vero teschio di Medua,
Qual d’Ovidio cantò la dotta musa,
A cui formano il crin serpi fischianti.

Il cadaver di più nero all’esterno,
Pel puzzo e per l’orror allontava
Ognuno che curioso il riguardava;
Ch’era giusto un tizzon smorto d’inferno.

Rimase estinto Odon cogli occhi aperti,
Che sanguigni fur visti e ardenti ancora,
La lingua dal confin uscirne fuora:
Tutti del mal morir indizii certi.

A tal nuova, lettor, il Montecorno,
Che verso il cielo alza la cima altera
E par che giunga alla superna sfera:
Già s’estinse, gridò, chi mi fe’ scorno.

Il popolo esclamò pur d’Acquaviva,
Dal Castel che distrutto oggi si mira,
E delli Rossi ancor con voci d’ira:
È bene che il rio mostro più non viva!

Colledoro gridò: colle di piombo
Odone femmi con alchimia strana;
Giust’è che nell’inferno oggi s’intana,
E delle gioia mia s’oda il rimbombo.

Leomogna, che i suoi liquidi argenti
Tinti di sangue ostil cangiò in rubini,
Scorrendo ripetea tra sassolini:
È morto il turbator delle mie genti.

Poco lontan di lato il picciol Rio,
Che dall’alto sentier cade spumante,
Rispondea tra sè tutto brillante:
Già già l’oste morì del popol mio.

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La Valle Siciliana in ogni canto
S’udiva risonar tutta di gioia:
Quella vita finì che mi diè noia,
E che chiamar mi fè valle di pianto.

Bosco alcun non vi fu, antro, nè speco,
Ove irsuto animal ave ricetto,
Nè di rozzo pastor umile tetto,
Che ad un giubilo tal non facess’eco.

Ora che dirò io del gobbo rio
Giunto omai di Caronte al cavo legno,
Per far passaggio al sempiterno regno,
Ove il riso e ’l piacer son in obblio?

Stupefatto il nocchier lo vide in sponda,
E domandogli se fosse uomo o fera:
Risposegli l’Odon con mesta cera,
Son uomo che qui vengo a passar l’onda.

Caronte ripigliò: nommai dal mondo
Simigliante ne giunse a quest’abete:
Della natura umana aborto siete
Venuto ad abitar d’Erebo al fondo.

Giacchè guidotti qui nemica stella
Ecco la barca mia spedita al corso;
Ma della salma che ti veggo in dorso
Ti bisogna pagar qui la gabella.

Lo scrignuto rispose con paura:
Quel che tu vedi in me non è già robba,
E non tel vo’ negar, è vera gobba,
Che per scherno mi fece la natura.

Lo pon Caronte in barca, e mentre a volo
Per l’altra riva va l’onde frangendo,
Verso quel passaggier la man stendendo
Disse: pagami presto ora il mio nolo.

Ma confuso rispose il malandrino:
Molto nel mondo, è vero, vivo rubai,
Ma in prendermi piacer lo dissipai;
Per pagarti non ho pur un quattrino.

Non ebbe il barcaiuol pii costumi;
Onde irato soggiunse al gobbo afflitto:
Io pago a Ser Mercurio un grosso affitto
Tu il battello passar franco presumi?

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Supplice Odone allor: per caritade
Fammi di là passar; ma quel nocchiero
Disse: d’acqua di Lete un sol bicchiero
Scordare qui mi fe’ della pietade.

Indi col lungo rem colpi pesanti
Al tondo serigno dan le forti braccia
Di Caronte adirato; e par che faccia
Dolorosa battuta ai mesti canti.

Poscia stanco il nocchier nell’acqua getta
Il mostro fier, che nella stigia arena
Provar dovrà con sempiterna pena
Dell’adirato ciel l’aspra vendetta.

Del mille settecento ventidue
Ora che di Febbraio è mezzo il mese;
Io mi protesto, lettor mio cortese,
Esser tuo servidor Francesco Grue.