14 febbraio 1722
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Poesie/Poesia satirica
Letteratura
Vita e morte del gobbo Girolamo Odone d’Isola
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5 luglio 2023
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<dc:title> Vita e morte del gobbo Girolamo Odone d’Isola </dc:title><dc:creator opt:role="aut">Francesco Antonio Saverio Grue</dc:creator><dc:date>14 febbraio 1722</dc:date><dc:subject>Poesie/Poesia satirica</dc:subject><dc:rights>CC BY-SA 3.0</dc:rights><dc:rights>GFDL</dc:rights><dc:relation>Indice:Notizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrarono.djvu</dc:relation><dc:identifier>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Vita_e_morte_del_gobbo_Girolamo_Odone_d%27Isola&oldid=-</dc:identifier><dc:revisiondatestamp>20230706233248</dc:revisiondatestamp>//it.wikisource.org/w/index.php?title=Vita_e_morte_del_gobbo_Girolamo_Odone_d%27Isola&oldid=-20230706233248
Vita e morte del gobbo Girolamo Odone d’Isola Francesco Antonio Saverio GrueNotizie storiche delle maioliche di Castelli e dei pittori che le illustrarono.djvu
Giunse il gobbo, o lettor, a quel confine, Che al viver suo il gran Motor prescrisse Morì colui, e tal morìo qual visse: Suol mala vita aver pessimo fine.
So ben che non vedesti il babbuino, Mentre quaggiù fra noi egli fu vivo; Perciò la vita sua or ti descrivo, E pinta te la mando in terso lino.
Fra l’opre del Callot che i brutti gobbi Ed i mostri umanati al vivo pinse, E coll’immaginar chimere finse, Simigliante figure io non conobbi.
Vedilo, e bada ben che all’intestina Con spiacevol rumor fetidi venti Pel rotondo porto manda a torrenti, Per nausearti senza medicina.
Deh! mira tu Signor quel gran fagotto, Che al brutto dorso diè sferica forma Certo non è fra la tartarea torma Più orribile di lui spirto corrotto!
Di Diogene la botte egli rassembra, Od un gonfio pallon che ammorba e fete, O ragno vil che alla sottil sua rete I volanti moscon carcera e smembra. . . . . . . . . . . . .
Là nell’Indie nommai nel tempo scorso Nacque tra nani così brutto oggetto, Che non d’uom, ma di bestia ebbe l’aspetto; Rassembrando un cammel col curvo dorso.
Per decidere alfin la quistione Intorno agl’ircocervi, alle chimere; Sen venne a desolar contrade intere, Lo scontraffatto semicapro Odone.
Della stirpe esso fu delli Pigmei, Che son d’altezza un piede e mezzo o due, E frequente tenzon han con le Grue, Nel monte che si oppone ai Pirenei.
Ma per lo scrigno, che sul dorso avea, D'essere gli parea un vero Atlante; Che al gran globo del ciel non vacillante, Con quella schiena sua base facea.
Fu pubblico Notar; ma ben si crede, Che fosse d’onor tal tosto privato, E per falsario fosse riputato; Chè fede non può far chi non ha fede!
Fece profession d’Agrimensura: Ma per l’audacia che sovente inganna, Giammai non ebbe in man la mezzacanna Per pigliar di sè stesso la misura.
Fu di colpe mortal colmo fardello, A tutti poi la crapula avanzava: E lo spirito di vin spesso il versava, Chè di vino parea un carratello.
Un corpo scontraffatto nommai suole Esser albergator d’anima buona: È detto del Morel, che ancor risuona E dove nasce e dove muore il sole.
Eppure Erario il fe’ il signor Marchese Della Valle, che è sotto Montecorno: S’udì per questo allor tutto all’intorno Di pianto risonar ogni paese.
Morì l’ubbriacon allor che a gara Cogli sbirri bevea acqua di vita: Acqua per sè mortal, che pur finita Fe’ la doglia veder con morte amara.
Il gibbo, che il briccon sul dorso avea, Gl’impedì riguardar l’azzurro cielo; E tolto che gli fue il mortal velo, Ver l’abisso la faccia ancora tenea.
A’ sconvolti capelli e serpeggianti Sembrava il vero teschio di Medua, Qual d’Ovidio cantò la dotta musa, A cui formano il crin serpi fischianti.
Il cadaver di più nero all’esterno, Pel puzzo e per l’orror allontava Ognuno che curioso il riguardava; Ch’era giusto un tizzon smorto d’inferno.
Rimase estinto Odon cogli occhi aperti, Che sanguigni fur visti e ardenti ancora, La lingua dal confin uscirne fuora: Tutti del mal morir indizii certi.
A tal nuova, lettor, il Montecorno, Che verso il cielo alza la cima altera E par che giunga alla superna sfera: Già s’estinse, gridò, chi mi fe’ scorno.
Il popolo esclamò pur d’Acquaviva, Dal Castel che distrutto oggi si mira, E delli Rossi ancor con voci d’ira: È bene che il rio mostro più non viva!
Colledoro gridò: colle di piombo Odone femmi con alchimia strana; Giust’è che nell’inferno oggi s’intana, E delle gioia mia s’oda il rimbombo.
Leomogna, che i suoi liquidi argenti Tinti di sangue ostil cangiò in rubini, Scorrendo ripetea tra sassolini: È morto il turbator delle mie genti.
Poco lontan di lato il picciol Rio, Che dall’alto sentier cade spumante, Rispondea tra sè tutto brillante: Già già l’oste morì del popol mio.
La Valle Siciliana in ogni canto S’udiva risonar tutta di gioia: Quella vita finì che mi diè noia, E che chiamar mi fè valle di pianto.
Bosco alcun non vi fu, antro, nè speco, Ove irsuto animal ave ricetto, Nè di rozzo pastor umile tetto, Che ad un giubilo tal non facess’eco.
Ora che dirò io del gobbo rio Giunto omai di Caronte al cavo legno, Per far passaggio al sempiterno regno, Ove il riso e ’l piacer son in obblio?
Stupefatto il nocchier lo vide in sponda, E domandogli se fosse uomo o fera: Risposegli l’Odon con mesta cera, Son uomo che qui vengo a passar l’onda.
Caronte ripigliò: nommai dal mondo Simigliante ne giunse a quest’abete: Della natura umana aborto siete Venuto ad abitar d’Erebo al fondo.
Giacchè guidotti qui nemica stella Ecco la barca mia spedita al corso; Ma della salma che ti veggo in dorso Ti bisogna pagar qui la gabella.
Lo scrignuto rispose con paura: Quel che tu vedi in me non è già robba, E non tel vo’ negar, è vera gobba, Che per scherno mi fece la natura.
Lo pon Caronte in barca, e mentre a volo Per l’altra riva va l’onde frangendo, Verso quel passaggier la man stendendo Disse: pagami presto ora il mio nolo.
Ma confuso rispose il malandrino: Molto nel mondo, è vero, vivo rubai, Ma in prendermi piacer lo dissipai; Per pagarti non ho pur un quattrino.
Non ebbe il barcaiuol pii costumi; Onde irato soggiunse al gobbo afflitto: Io pago a Ser Mercurio un grosso affitto Tu il battello passar franco presumi?