Arabella/Parte terza/7

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VII.


Tiranni e vittime


Mamma Beatrice accompagnò la figliuola fino a casa e, ricordandosi di avere qualche spesuccia a fare, la lasciò promettendo di tornare più tardi a salutarla.

Arabella rimontò adagio le scale, provando ad ogni gradino la fatica e la pena di chi sente crescere a poco a poco un peso, che altri vada lentamente caricando sulle spalle. Non incontrò nessuno, o non vide nessuno.

Spinto l’uscio, entrò in casa, che ritrovò piena di sole e di allegria. Era la sua casa o la sua prigione? non distingueva più; nè aveva più bisogno di distinguere. La sua vita non aveva che un significato: — Espiazione!

Attraversò il salotto e si rifugiò nella camera da letto.

Nel rivedere il letto liscio e composto, una idea più chiara e più mobile delle altre venne avanti, ma ella non vi si fermò. In quel letto due mesi prima avrebbe potuto morire.

Si tolse il mantello e il berretto e si guardò nello specchio grande. Com’era pallida! i capelli parevano [p. 358 modifica]una selva. Nel riporre le robe nell’armadio, le venne alle mani una piccola babbuccia di lana rosa rimasta dimenticata sui ferri. La buttò via. Sentì il pianto salire fino alla gola, ma con un crudele sforzo lo respinse e ricompose l’animo a una tranquilla e marmorea indifferenza.

Mentre stava collocando in una scatola alcuni pizzi, che avrebbero dovuto servire per un battesimo, si sentì chiudere tra due braccia, e poi sentì un volto caldo e lagrimoso sul suo, che la baciava teneramente sulle gote e sui capelli.

— Povera la mia siora! credevo che facessero patire soltanto le povarete; ma vedo che siamo dappertutto le stesse. Pazienza! Se si buttasse un pochettino sul letto?

— Forse hai ragione. Sono stanca...

— Venga con me, benedetta!

L’Augusta, che aveva bisogno di abbracciare qualche cosa di caro, senza dir altro, si tolse in braccio la sua povera padroncina, la collocò sul letto, le sciolse le scarpe, la coprì col piumino, e dopo averla baciata ancora una volta sui capelli, chiuse le imposte.

Arabella si addormentò come una bambina stanca.



Non fu che verso l’ora del pranzo che il signor Tognino chiese di parlare a sua nuora.

Uscito dalla casa del Botola col cuore avvelenato e rotto, si trascinò a casa, si rinchiuse un pezzo nell’ammezzato a scrivere, consegnò alcune carte al notaio Baltresca, e mandò due volte la portinaia a [p. 359 modifica]domandare a sua nuora se voleva riceverlo. La prima volta l’Augusta fece rispondere che la sua signora dormiva: più tardi, circa verso le quattro, raccolto lo spirito a idee più tranquille, il vecchio prese a salire le scale, faticosamente, forse per la stanchezza, forse per una soggezione nuova che intricavagli, per dir così, la volontà e le gambe.

Un reo di qualche enorme delitto non avrebbe provata una impressione diversa sul punto di essere chiamato la prima volta davanti al giudice. Non era rimorso, non era paura; non era nemmeno vergogna o mortificazione per la cattiva condotta di Lorenzo; o forse in quel suo sentimento di stanchezza e di avvilimento entrava un poco di tutto ciò, misto a una tenerezza, a un desiderio di rivederla, di parlarle, di domandarle perdono, d’ascoltare la sua voce, di trattare con lei un sistema nuovo di vita per l’avvenire... prima che suo figlio lo mettesse alla porta.

— C’è? — chiese all’Augusta, soltanto per provare la voce.

— Sissignore.

— Dov’è?

— In gabinetto. Ha riposato bene tre ore.

— C’è anche sua madre?

— Nossignore, non è ancora tornata.

— E... il signore s’è visto?

— Non si è visto.

— Va a dirle che son qui.

Mentre l’Augusta eseguiva l’ambasciata, il signor Tognino rimase mezzo minuto in piedi colle mani appoggiate alla tavola da pranzo, col cuore stretto e angustiato, in preda a dolorose vertigini che si sforzavano di tirarlo in terra. Vide un gran rosso sulla [p. 360 modifica]tavola, che cercò di rimuovere: non era che l’orario delle corse rimasto lì dalla sera prima.

— Se vuol passare...

— Non si sente mica male...

— No, ha riposato. Non me la facciano più patire.

Il vecchio non intese le ultime parole della ragazza. Pose il cappello sopra una sedia e, sollevata la tenda pesante che separava il salotto dal gabinetto, domandò ributtando con uno sforzo supremo la sua puerile trepidazione:

— Permette?

— Avanti — disse la voce di dentro, che sembrò un’altra voce all’orecchio ottuso del vecchio malinconico.

Alla prima occhiata lo colpì la pallidezza quasi spettrale in cui Arabella pareva dimagrita e quasi invecchiata. Davanti alla pietosa apparizione sentì tutte le amarezze, tutti i rancori, tutte le violenze, che da tre mesi andava accumulando in difesa del cuore, precipitare in una rovina desolata. — Ecco che cosa avete fatto d’una povera creatura! — avrebbe detto il cuore, se avesse potuto parlare o pensare.

Il signor Tognino socchiuse un istante gli occhi.

Arabella stava seduta davanti al tavolino da lavoro, sotto la finestra, nella luce attenuata dalle doppie cortine di seta celeste, colle mani occupate in apparenza in un piccolo merletto, che aveva cominciato con un delizioso pensiero nei primi giorni della gravidanza. All’entrare di suo suocero non si mosse. Il suo contegno, senza essere nè sgarbato nè umile, rimase d’una freddezza impassibile. Pareva dire nel suo silenzio freddo e sdegnoso: — Ecco la vostra schiava, che ha creduto per un momento di poter [p. 361 modifica]fuggire. Punitela. — Arabella non disse, nè pensò queste cose; ma il vecchio suocero gliele lesse sul viso.

— La ringrazio d’essere tornata — disse, appoggiandosi al tavolino colle braccia, per resistere a un tremito nervoso che lo indeboliva, guardando dall’alto sui capelli di sua nuora accuratamente ricomposti. E come si appoggiava al tavolino per non cadere, così cercò colla voce di appoggiarsi sulle sillabe delle parole per non tradire la debolezza della sua commozione. — È sempre una bella cosa aggiustare i nostri guai in famiglia. Ha parlato colla sua buona mamma?

Arabella accennò di sì col capo. Rimase chiusa e raccolta intorno al suo dolore il tempo di vincere la ripugnanza al parlare e dopo aver inghiottito qualche cosa di duro che minacciò soffocarla, sollevò penosamente le palpebre, allargò gli occhi sereni pieni di una timida sommissione in faccia a suo suocero e balbettò con un leggiero movimento della bocca:

— Le domando scusa...

Egli che non si aspettava quest’atto di eccessiva umiliazione, rimase ancora più sconcertato. Mosse un poco una mano in aria e voltando la faccia verso la finestra, balbettò:

— Non tocca, veramente, non tocca a lei chiedere scusa. Dicevo soltanto che non bisogna dar occasione di parlare alla gente... La gente è cattiva.

Arabella non disse nulla, ma si raccolse con tutte le forza della sua vita sul lavoruccio che teneva nelle mani come se vi si aggrappasse per non precipitare in un abisso senza fondo. La sua testa prese una immobilità di pietra.

[p. 362 modifica]— L’avverto che fin da stamattina ho ritirato la querela contro il Beretta. Il questore lo metterà in libertà oggi o domani. Vede che ho tenuto conto della raccomandazione... Verrà a ringraziarla.

— A ringraziar me?

— Sì, perchè deve soltanto a lei, se ho potuto dimenticare quel che ha fatto e quel che ha detto contro di me.

— La ringrazio... — rispose Arabella freddissimamente.

— E ora, mia cara, parliamo un poco degli affari nostri mentre siamo soli... — Tirò vicino una sedia e vi si pose, sedendo sullo spigolo, mentre essa, ritraendo un poco la testa nelle spalle, parve dire: — Sono qui. — Egli si tolse lentamente i guanti, li distese sui ginocchi, accomodandoli l’uno sull’altro come se cercasse di farli combaciare, e, mentre andava così stirandoli e carezzandoli, seguitò sottovoce, lentamente, parlando quasi a se stesso: — Senta, cara Arabella, io non sono qui per difendere Lorenzo: anzi... Non voglio nemmeno sapere quanto di vero ci sia in ciò che la gente racconta della scena di ieri sera. Non andrò a dare un titolo, il titolo che si merita, all’azione malvagia di certe persone, che hanno voluto sotto apparenza di zelo e di benevolenza avvelenare il suo cuore. Lei sa se io soffro meno di lei di questo stato di cose; lei sa tutti gli sforzi che ho fatto perchè Lorenzo lasciasse le vecchie abitudini: anzi la mia speranza nel dargli in moglie una donnina savia e giudiziosa fu appunto d’avere in lei un aiuto... non è così? Sfortunatamente una fila di sciagurate circostanze hanno guastato i nostri progetti. Un triste equivoco, un sinistro accidente, [p. 363 modifica]una lunga malattia, una cara speranza perduta e più di tutto l’invidia e la cattiveria della gente hanno concorso a sviare Lorenzo dalla sua casa. So chi si è presa la bella parte di spia, so chi ha tutto l’interesse che Lorenzo torni alla vita dissipata; io non lo difendo, tutt’altro; ma forse egli non è il colpevole maggiore. Amen! non amareggiamoci per ciò che non si è potuto ottenere, figliuola, e vediamo di riparare, di lavorare per l’avvenire. Lei ha avuto la bontà di tornare in questa casa ed è già un bel passo... In quanto a quella donna ho già pensato a porvi rimedio. Tolta l’occasione, tolto il peccato...

— E resta la nausea — scappò detto alla poverina, che pure aveva promesso di non parlare.

— Sì, per un poco, è naturale, e io non pretendo che lei abbia a dimenticare e a perdonare così subito. Il cuore è cuore e quel signore deve capire che non si offende una donna onesta, savia, amorosa, senza soffrirne le conseguenze. Io non sono venuto a parlare di perdono. Il perdono se lo deve meritare monsú. Io sono venuto per rimettere sul tappeto la questione della campagna. Tutto è già pronto. Domani lei può venir via con me e ritirarsi in un bel sito quieto, che ho scelto apposta, sul lago, dove potrà rimanere tutta l’estate, lontana dai pettegolezzi e dall’insidie della gente, finchè avrà trovata la forza di perdonare del tutto. Conduca con sè l’Augusta, conduca pure la sua buona mamma se vuol venire, e lasci fare a me tutto il resto. Sul lago troverà una bella casa, un gran riposo, molti fiori: e, se mi permetterà, verrò a trovarla. O se non vorrà veder nessuno, faremo tutto ciò che piacerà a lei. Se invece preferisce andare qualche mese alle Cascine, disponga [p. 364 modifica]pure. Avevo pensato che, quando si trattasse della salute dell’anima e del corpo, fin le sue buone suore di Cremenno le darebbero ospizio per qualche tempo. Io non metto condizioni. Ciò che importa è che lei lasci subito Milano, dove son troppo vive le impressioni, dove c’è troppa gente interessata a turbare la sua pace e a farle del male. In quanto a Lorenzo tra un mese, tra due, deciderà lei quel che si merita.

— Io non devo nè posso avere una volontà — riprese a dire malinconicamente Arabella; — andiamo pure in campagna o restiamo qua, per me è lo stesso. Rientrando in questa casa, io ho lasciato alla porta ogni mia volontà. Dia pure gli ordini che crede... — E chinando il capo e accostando sempre più il ricamo agli occhi, come se con quel movimento volesse opporre un argine a un torrente di lagrime che, suo malgrado, le gonfiava gli occhi, si chiuse di nuovo nel suo doloroso silenzio.

— Non sono ordini... — sillabò timidamente il suocero, guardandosi la punta della mano, reagendo anche lui a un piccolo singhiozzo, che urtava lo stomaco.

— Del resto... — essa riprese senza alzare gli occhi — sento che non potrà durar molto.

Queste parole, dette senza rancore e senza amarezza, avvilirono del tutto il suocero affezionato, che osservando la pallidezza mortale di lei, il profilo assottigliato, l’occhio languido e pauroso, la respirazione affannosa, il tremito della persona che pareva in preda a una febbre nervosa, non seppe respingere un lugubre presentimento. Sentì ingrossare la passione, alzò una mano lentamente, con un tremito: la posò sulla testa di lei, ne carezzò leggermente i [p. 365 modifica]capelli, come se mostrasse di raccomodarli sulla fronte, e, vincendo una mortale debolezza, mormorò con voce d’uomo che parla in sogno:

— Lei non deve parlare così, Arabella; noi le vogliamo bene.

Arabella mosse il capo con due piccole scosse di ribellione, che parvero dire: — Grazie del vostro bene...

Il vecchio intese il significato di quella mossa, e scendendo colla stessa mano a stringere una mano di lei, gliela posò sul tavolino, tenendola sepolta e stretta nella sua, mentre la sua testa piccina e espressiva s’infiammava d’una vampa improvvisa. — Sì, le vogliamo bene... È forse una brutta maniera di voler bene, e lei meritava meglio; ma può dire che abbiamo operato con cattive intenzioni? Io non difendo Lorenzo, e anch’io mi sento molto colpevole; ma si guardi intorno e dica se chi pensò a prepararle questa casa merita veramente il titolo di avaro, di affarista, di speculatore, di ladro, di svergognato che tutti gli dànno. Ne’ miei affari la prima regola è l’aritmetica: è naturale. Ma può mia nuora, scusi, può la famiglia Botta dimostrare che io ho fatto i conti sempre a mio vantaggio? Se io fossi proprio quell’usuraio che dicono, il signor Paolino non avrebbe scritto otto giorni fa una lettera in cui mi pregava di un soccorso: e l’ho fatto volentieri. Anzi voglio che essa abbia la prova che non invento... — Così dicendo levò il grosso portafogli da cui trasse alcune carte.

— Lo so, lo so — si affrettò a dire Arabella, socchiudendo gli occhi.

— No, no, lei deve vedere e toccare con mano — insistette lui, mettendo sul tavolino delle lettere e [p. 366 modifica]delle cambiali. — Ho diritto di essere giudicato sulla base dei fatti, poichè lei ha creduto alle voci della gente e alle calunnie dei miei parenti. Chi mandava in prigione per poche bottiglie di vino il Berretta, rinnovava al signor Botta dei titoli che rappresentano un valore di venticinquemila lire. Mi sarebbe stato così facile passare per un tiranno col signor Botta; ma non l’ho fatto perchè ripeto, il mio abaco non è soltanto pieno di numeri.

— Scusi — disse Arabella alzandosi. — Non so perchè lei mi fa questo discorso ch’io non sono in grado di capire. Me ne ha dette abbastanza la mamma e vede che sono tornata.

— Io volevo dimostrarle che non è soltanto l’interesse che ci fa parlare... — soggiunse sottovoce il vecchio suocero. — Non voglio nemmeno che lei si consideri come una nostra schiava... Guardi. Consegno a lei questo mio credito, queste mie carte. Le faccia vedere a una persona pratica, di sua fiducia: ne discorra col suo padrino, colla sua mamma, con chi vuol lei, e faccia di queste carte quel che vuol lei, le stracci, le abbruci...

Arabella rifiutò di ricevere le tre o quattro cambiali, che il suocero ad ogni costo voleva farle accettare: e ciò finì coll’irritarlo. In preda a un tremito convulso, il vecchio aprì il cassetto del tavolino da lavoro, vi cacciò le carte dentro, richiuse con furia, rosso in viso, si alzò, cercò il cappello, e, inchinandosi in atto di licenziarsi, balbettò, mozzicando le parole:

— Faccia come crede, signora, e perdoni se non abbiamo saputo renderla felice.

— Senta, signor... — prese a dire Arabella, svegliandosi [p. 367 modifica]da quello stato di neghittosa rassegnazione, in cui si era ridotta per sua difesa.

— Lei è libera. Se crede, può andare oggi stesso con sua madre.

— Io son tornata... — provò a soggiungere la giovane.

— Lei è tornata come torna una schiava, e io voglio dimostrarle che a questi patti non accetto il suo sacrificio. Vada e dica pure che l’abbiamo trattata male, dica pure che in casa nostra non ha mangiato che pane e veleno, dica pure che siamo egoisti legati all’interesse, ma non ci obblighi a mantenerla come una schiava.

— Senta, signore... — interruppe Arabella, raccogliendo il fascetto delle cambiali e avvicinandosi al vecchio offeso con un contegno tra il rispettoso e il mortificato non perchè avesse qualche cosa da opporre, ma per una nuova paura che ne derivassero più gravi e più oscure complicazioni. Un malato non teme tanto i mali che ha, quanto quelli che ne possono derivare.

In fondo al suo risentimento, la coscienza onesta e chiara non rifuggiva dal riconoscere che, per quanti torti avesse ricevuto in casa Maccagno, suo suocero s’era mostrato verso di lei generoso e buono, e che l’offenderlo e il licenziarsi da lui con una dura parola, oltre al non riparare nulla, metteva lei nella condizione di negare la giustizia.

Per questo si mosse a trattenerlo, e fu questo stesso senso di giustizia che la persuase a mostrarsi più indulgente:

— Senta, papà... abbia compassione di me. Vede ch’io non so quasi parlare...

[p. 368 modifica]— Tu mi domandi della compassione; ma cara figliuola mia, sei tu che devi avere un po’ di compassione di questo povero vecchio che tutti prendono a perseguitare... — Così proruppe con un improvviso mutamento di voce il signor Tognino, tornando in mezzo al salotto, passando in fretta le mani sugli occhi per dissipare una nebbia, umida di lagrime, segno di debolezza e di stanchezza morale, curvando il capo e la persona alla presenza di una donna che egli collocava molto in alto ne’ suoi pensieri.

E stretta la mano di Arabella, condusse questa a sedere sul piccolo canapè, dove cercò di continuare un discorso difficile e pesante, dal quale gli sfuggivano idee e parole. Lottò un pezzo colla sua incapacità, chiudendo la bocca al singhiozzo, premendo il fazzoletto sulle pupille oscure e dense, crollando rapido la testa come se compatisse sè stesso.

Finalmente, dopo aver portata due volte la mano delicata di Arabella alle labbra, mormorò:

— Abbi pazienza...

— Si sente male?

— Oh sì, molto, qui... — disse, battendo colla mano il petto.

— Se io ho potuto dire qualche cosa di spiacevole... — balbettò Arabella, fissando lo sguardo sul viso pallido del vecchio.

— No, no, povera figliuola.

Arabella si raccolse in una penosa concentrazione davanti all’improvviso trasfigurarsi di un uomo, che due minuti prima aveva visto nel pieno vigore del suo carattere ardente e tenace. Una di quelle voci improvvise, che nel cuore dei buoni sono annunci di ignote verità, sorse a domandarle, suscitando nell’animo [p. 369 modifica]suo un senso quasi di stupore, da qual parte fosse il maggior dolore e a chi tra lor due toccasse d’aver più carità e più compassione. Un occhio malato stenta a vedere il male degli altri.

La ragione umana, che per giustificare i nostri patimenti ha bisogno di cercare un tiranno ed è quasi sempre fortunata di trovarne o d’inventarne uno che basta, si turba e non osa credere quando vede le vittime farsi male tra loro.

Arabella innanzi alle sofferenze e alle lagrime di un uomo che la fortuna aveva abituato a vincere, si domandò, confusamente e rapidamente (come sono tutti i colloqui che facciamo con noi stessi), se per caso essa non aveva abusato della sua debolezza. La puntura velenosa d’un’ape moribonda può uccidere un leone. Forse aveva detto delle inutili asprezze a suo suocero, che verso di lei si era mostrato sempre buono e amoroso. Forse aveva ragione la povera mamma. Essa non vedeva che sè...

Al venir meno dell’orgoglio, che l’aveva sostenuta in questa fiera battaglia, si spaventò a un tratto come un assalito che nel furore della mischia si trova di aver oltrepassato i limiti della difesa e d’aver infierito crudelmente e inutilmente su degli innocenti. Sentì che ora toccava a lei dir qualche cosa di meno amaro, di condurre il discorso a una buona conclusione. Dal momento che aveva accettato di tornare in casa, non doveva starvi rinchiusa come una fiera irritata; oh Dio!... essa non aveva il cuore di una fiera. Chi l’aveva resa superba e cattiva?

— Se le pare che la campagna possa far bene a tutti — prese a dire sottovoce — dal momento che ho accettato di rientrare in questa casa... gli obblighi [p. 370 modifica]di riconoscenza che ho verso di lei, mio benefattore... Se c’è speranza ch’io possa fare ancora del bene a qualcuno... insomma io non mi oppongo; disponga lei come crede meglio...

— Che tu sia benedetta! — ripigliò con più calore il vecchio, facendosi più acceso in volto. — So che tu sei buona, Arabella, e se non fosse per la tua bontà, io non vorrei soffrire quel che soffro. Tutti son cattivi con me, tutti! È una congiura di tutti contro uno solo. E anche lui s’è unito a’ miei nemici, anche lui mette alla porta suo padre. M’ha ferito, qui, con un coltello. E domani mi trascineranno davanti ai tribunali, mostrandomi come una belva feroce dentro una gabbia. È un intrigo mostruoso di preti, di avvocati, di lazzaroni, di parenti, di amici, di nemici, di donnaccie, tutti contro un povero vecchio... e anche lui ci sarà a gridare: dàlli, dàlli al ladro!

Un cupo e profondo sospiro interruppe la violenza di questo discorso, che Arabella cominciava ad ascoltare con mesta attenzione: — Non ha egli alzata la mano sopra suo padre? — continuò il vecchio parlando con foga accorata. — Andate via tutti, lasciatemi qui solo a vivere come un cane, solo contro tutta la canaglia di Milano, e così avrò lavorato tutta la mia vita per non raccogliere che odio, improperi, maledizioni, ingratitudine, e per essere messo alla porta da quelli che amo...

— Papà... — interruppe Arabella con un moto di terrore, vedendo il volto del vecchio infiammarsi di nuovo; ma come se egli parlasse a una turba ch’egli solo vedeva:

— Andate, stampate sui muri che io sono un ladro, [p. 371 modifica]che ho rubato, che ho avvelenato, che ho bevuto il sangue dei poveri, aizzatemi contro i cani di Milano, fatemi maledire dai miei figli.

— Ma no... — tornò a esclamare Arabella con un sincero abbandono di pietà, cercando di sviare il povero vecchio da una corrente che lo trascinava alla disperazione; ma l’orgasmo fu più forte:

— So che mi avete maledetto — egli disse — so che non mi volete più; furono i preti che v’istigarono a odiarmi. Pigliatevi i miei denari, buttatemi su una strada. Alla gente io rido in faccia, ma non posso far senza della benevolenza de’ miei figliuoli... Questa mi è necessaria più del pane...

E il vecchio affarista, trascinato ormai dalla sua stessa energia, non seppe più opporsi al torrente dei mali che da tre mesi andava urtando contro la sua vita, battendone e scassinandone gli argini di granito. Come per una breccia aperta, l’onda si riversò, travolgendo le sponde, e si dilagò in un mare di dolore.

Arabella non aveva mai visto un bambino piangere e contorcersi nel suo dolore come vide a un tratto un vecchio di sessantatrè anni, curvo, quasi rannicchiato sopra se stesso, colle mani nei pochi capelli bianchi e il volto nascosto contro lo schienale del divano. Tale fu la sorpresa, per non dire la paura, che non seppe resistere, si mosse, si chinò verso il povero afflitto, cercò nel fondo più buono della sua natura una parola buona.

— Non dica, papà, che noi le vogliamo male. Tutti possiamo sbagliare nella nostra vita: e non credo che Lorenzo abbia potuto dire col cuore una parola cattiva. In quanto a me, se le pare che abbia giudicato troppo [p. 372 modifica]severamente, son pronta a farne ammenda. Siamo giovani, ci manca l’esperienza... Ma ella troverà sempre ne’ suoi figliuoli amore e indulgenza.

Che cosa disse di più? parlava come per incanto, cedendo a una misteriosa suggestione di benevolenza, non accorgendosi (ed è anche questo un vantaggio dei buoni) che nella sua carità abbracciava nel vecchio addolorato anche la causa che lo faceva soffrire.

— So che tu sei buona, figliuola, e che non hai coraggio di maledire un povero vecchio. S’io fossi anche cento volte più colpevole, troverei sempre un po’ di compatimento nella mia buona Arabella. Sento che fu Dio che ti ha mandata sulla mia strada. Me ne sono accorto fin dalle prime volte che ti ho incontrata sulla strada delle Cascine. Una voce qua dentro mi disse subito che tu saresti stata la luce della mia vita e della mia casa. Mi parve d’allora di aver trovata per la prima volta la ragione della mia esistenza. Soltanto d’allora cominciai a vivere per qualcheduno, per qualche cosa. Tu hai visto che a questa ragione ho sacrificato molti interessi e molti diritti. Io non fui più io. E ieri sera, quando sono tornato e che non ti ho trovata più, sentendomi quasi giudicato ed esecrato da te, ho provato un tal dolore al cuore che ho creduto di morire. Il pensiero che la gente possa farti del male per cagion mia non mi lascia più dormire la notte: è una vita troppo di tormento che mi farà morire. E pazienza! ma non dirmi che mi vuoi male, che mi disprezzi...

— Io? — uscì fuori a dire con voce esaltata Arabella, ritraendosi un poco colla persona. Egli afferrò le mani di lei e tenendola così prigioniera: — Tutto si spezza nelle mie mani — continuò — tutto si [p. 373 modifica]spezza dentro di me. Son più che un uomo malato, sono un uomo che si sfascia. Senti, ho la febbre. Non ho più forza. Vedo oscuro, son vecchio, son stanco, son cattivo... Ho paura di morir solo, come un cane...

Arabella, col volto afflitto da una penosa incertezza, cercò una parola d’incoraggiamento; ma le parve di capire che il viso poco prima così infocato del vecchio si coprisse d’un pallore livido, in cui i lineamenti s’indurivano in una rigidezza quasi mortale.

— Son cattivo, so che son cattivo... — seguitò con lenti sospiri, parlando quasi nelle mani di sua nuora. — Ma tu sei buona e potrai insegnarmi come si fa a vivere bene. Farò tutto ciò che mi dirai di fare. Andremo via, in campagna, lontani dal mondo, la mia volontà sarà la tua volontà. Se dirai: — Cediamo tutto, io cederò tutto, contento di dividere con te un boccone di pane...

Arabella non afferrava ancor bene il valore di queste strane parole, che somigliavano a una confessione. Sentendone le mani ardenti, vedendo il pallore mortale, andava a pensare che il vecchio delirasse.

Quel non so che di religioso e di materno, ch’era nel fondo dell’indole sua, fu tuttavia profondamente toccato dal pianto e dai sospiri del povero vecchio, che invocava pietà e misericordia. È vero: tutti lo respingevano; tutti si ergevano suoi giudici e suoi persecutori. Lo vedeva ora così malato, così abbattuto...

— Via, si faccia animo, papà, e disponga pure di me fin dove posso essere utile. Non c’è male per quanto grande, a cui Dio non trovi un rimedio ancor più grande. Lei è proprio malato, vedo bene. Ha bisogno di riposo, di tranquillità d’animo. Ha la [p. 374 modifica]febbre, sento. Anche il suo aspetto mi dice che non si sente bene. Devo chiamare l’Augusta?

Il vecchio fece segno di no.

— Lei si sente male... — Arabella cominciò a tremare, e cercò svincolarsi per correre a chiamar gente; ma lui la trattenne forte per un lembo del vestito: e mormorando parole grosse e confuse, le fece capire che voleva scrivere.

— Scrivere... — e indicò col dito un calamaio sul tavolino da lavoro.

Arabella accostò il tavolino, aprì il calamaio, stese un foglio, mise la penna in mano al vecchio, obbedendo in preda a una convulsa agitazione ai cenni di quel povero uomo, che la tratteneva sempre per il lembo del vestito.

— Passa, passa... — mormorò con voce di fiera malinconia il vecchio come se si riavesse da una momentanea vertigine. Appoggiò la testa alla mano sinistra, strappando con l’altra il vestito della giovane, che s’inginocchiò, cedendo quasi all’invito d’un comando interiore.

— Ho da chiamare qualcuno?

— No, sto bene. Sta qui.

E dopo aver arzigogolato un poco colla penna, il vecchio malato cominciò a scrivere in righe oblique mostrando nella contrazione dolorosa del viso duro e pallidissimo lo sforzo della fuggente volontà.

Arabella, che sentivasi molle il viso di lagrime, vide che a un certo punto la mano del vecchio s’irrigidì. Fu per gettare un grido di avviso; ma egli se ne accorse. Svegliandosi, la guardò teneramente, mosse le labbra a un sorriso morto, e allungando la mano a riprendere quella di Arabella, dopo un [p. 375 modifica]lungo sforzo per formulare la parola, disse:

— Prega...

Arabella aprì le braccia e sorresse il corpo cadente, mentre cogli occhi pareva chiedere soccorso intorno a sè. Quando si accorse che il malato veniva meno, non trovando in se stessa la forza nè di gridare, nè di sollevarsi, allungò la mano fino a toccare il bottone del campanello elettrico, e riempì la casa d’uno squillo lungo e spaventato. Sentì correre gente. Entrò l’Augusta, che visto il viso irrigidito del vecchio e gli occhi spaventati della signora corse fuori a chiamar la Gioconda.

Le due donne prestarono i primi soccorsi: finchè qualche vicino avvertì il portinaio e si mandò per il dottore.