Colombi e sparvieri/Parte II/IV

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Parte II - Capitolo IV

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IV.


Zuampredu Cannas, fermatosi a metà strada fra il suo e il paese della fidanzata, smontò e tolse la briglia alla sua cavalla. Mentre la bestia si abbeverava al fiumicello, egli si guardò attorno pensando che là forse avrebbe fatto tappa con la sposa e col corteggio dei parenti quando, dopo le nozze, avrebbe condotto Columba a Tibi.

Il luogo era adatto alla sosta; poco distante sorgeva la chiesetta ove tanti anni prima eran state celebrate le «paci», e qua e là nella grandiosa desolazione dell’altipiano qualche quercia circondata di querciuoli come una madre possente da figli già grandi e forti, gettava la sua ombra sul fieno fresco e sulle macchie di ginestra coperte di granellini d’oro. Anche gli oleandri che seguivano la linea del fiumicello cominciavano a coprirsi di bocciuoli rossi; tutto era dolce e puro in quel luogo di pace.

«Se si parte presto, si può far qui anche un piccolo banchetto, — pensa il grosso fidanzato volgendo qua e là i begli occhi castanei mentre la cavalla si scuote e dalla sua briglia sprizzano goccio scintillanti. — C’è la legna, c’è l’acqua; si potrebbero cuocere anche i maccheroni».

E gli sembra di veder i cavalli legati alle quercie, Columba seduta sull’erba, il fuoco acceso fra tre pietre e uno spiedo che gira accanto alla brage. Soddisfatto egli rimonta in sella, e in breve la sua figura che a cavallo sembra imponente ed ha qualcosa di barbarico e di patriarcale assieme, diventa una macchietta nera, la sola che si [p. 167 modifica]muove nell’immensità deserta del paesaggio sullo sfondo dei vapori azzurri e rossi dell’orizzonte. Anche le macchie e le pietre formano un solo profilo nero su quello sfondo sempre più rosso; è il crepuscolo, l’ora delle fantasmagorie; ma il fidanzato conosce bene la strada e va dritto, con le mani sul pomo della sella, gli occhi pieni della visione calma e lucida del suo mondo interno. Il suo mondo interno è la distesa delle «sue tancas» coperte d’erba, di asfodelo per pascolo, di quercie sugherifere, popolate di vacche, di vitelli, di giovenchi, di servi, di cavalli, di cani; in fondo sorge il villaggio nero, con la «sua» casa, il granaio, le cucine, il cortile, l’orto. Anche la figura di Columba anima questo mondo, un po’ incerta però, come velata. Ma a misura che egli s’avvicina al villaggio, che ne vede i lumi e sente qualche voce lontana, la figura si fa più distinta, s’ingrandisce, si muove.

«Sarà contenta dei doni? — egli si domanda quasi con tenerezza. — Non è molto allegra, Columbedda, ma meglio così. Anche l’altra, la beata morta, era una donna seria. Ma era sempre malata, piccola meschina; mentre Columba è sana, agile. Farà molti figli; il primo lo chiameremo Zuanne Zoseppe, come mio padre; il secondo Remundeddu. Se avremo sei figli a ciascuno toccherà una metà di tanca e venti vacche figliate e qualche altra cosa; eppoi il patrimonio aumenterà, perchè Columbedda è seria e solerte e non ha bisogno di rimettersi in mano alle serve, come fanno tante altre. Inoltre, Dio aiutandoci, i ragazzi potranno sposarsi bene».

Egli si vedeva già circondato di figli agili e forti come lioncini: questo era stato sempre il suo sogno, l’unico dispiacere che aveva turbato il suo primo matrimonio. È vero che anche Banna non aveva figli; sì, ma il marito di lei non [p. 168 modifica]era da paragonarsi a lui, Zuampredu Cannas, forte e robusto (se non agile) come un leone.

E con la calma solenne del leone che va in cerca della sua leonessa smontò davanti alla casa di Columba. Era già, sera; qualche filo di luce usciva dalle casupole silenziose e rischiarava la strada; un ragazzetto — Pretu — scese di corsa dal viottolo della fontana e vedendo il nuovo arrivato si fermò a curiosare.

Columba uscì sul portone con un lume in mano; Banna si affacciò alla finestra.

— Dio ti guardi, Zuampredu Caunas, bene arrivato!

— Come state, piccole donne? — egli domandò rozzo e timido nello stesso tempo.

Eccola, adesso la vedeva bene, intera e distinta, la sua Columbedda: un po’ pallida e seria, ma calma e sicura anche lei come una lionessa. Senza guardarlo, come se si trattasse di un semplice ospite, ella lo aiutava a togliere le bisacce, la briglia e la sella alla cavalla. Non dimenticò neppure di domandare:

— Ha bevuto? O la facciamo bere?

— Ha bevuto, sì, al rio, non ha sete. E zio Remundu?

— Adesso verrà. Entra e siediti.

Con le bisacce in mano egli entrò nella cucina e cominciò a chiacchierare con Banna che gli si aggirava attorno con le mani entro le spaccature della gonna e non era avara di sguardi, di parole, di esclamazioni. Ma al vedovo piaceva assai più il contegno taciturno di Columba. Ecco una donna che non avrebbe perduto tempo con le sue vicine di casa.

Ma rientrato il vecchio, Zuampredu non diede più attenzione alle donne. Dal canto suo zio Remundu lo fissava con affetto e con ammirazione, stringendogli forte la mano. [p. 169 modifica]

— Siediti, Zuampredu Cannas! Parla col cuore in mano, poichè sei in casa di gente che apprezza i tuoi meriti. La tua cavalla è collocata bene? Le hai dato da mangiare, Colù?

Volle assicurarsi coi propri occhi e uscito nel cortile palpò i fianchi della cavalla.

— Sta bene, — disse rientrando. — È grassa, adesso; pare gravida.

— Sì, lo è, — rispose Zuampredu pensieroso. — Perciò ho camminato piano; non voglio che perda il puledro come l’anno scorso.

— Una volta io ho avuto una giumenta che quando era in quello stato voleva sempre camminare, — rispose il vecchio; e mentre Columba aiutata da Banna apparecchiava la tavola i due uomini parlarono di cavalli e di vacche come se null’altro esistesse al mondo.

D’altronde Columba dopo le prime frasi di saluto non aveva più rivolta la parola al fidanzato, e Banna, che nel pomeriggio aveva veduto Pretu fermo a parlar con la sorella, frenava a stento la sua rabbia.

«Ogni volta che quel piccolo ruffiano si ferma davanti alla nostra porta pare che Columba veda un uccello di malaugurio, — pensava. — Tace, ha gli occhi cupi e sembra che una malìa la opprima».

Anche lei provava la stessa penosa impressione che talvolta rattristava il nonno; le pareva che un pericolo li minacciasse; allora per nascondere i suoi timori fingeva un’allegria maligna e il suo viso prendeva un’espressione enigmatica, di cattiva sfinge. Ma Columba conosceva quella maschera e aspettava una sola parola per prorompere, per ribellarsi, pronta alla lotta come la fiera, che solo il fascino del domatore tiene apparentemente soggiogata.

Apparecchiata la tavola Banna andò via [p. 170 modifica]perchè aspettava il ritorno del marito dall’ovile, e i due uomini serviti da Columba cominciarono a mangiare.

— Sì, ti dico, Zuampredu Cannas, una volta m’era venuta in mente l’idea di comprar cavalli e di rivenderli: tutti mi portavano a vedere le loro bestie e tutti cercavano d’ingannarmi. E uno non tinse il suo cavallo canuto, come fanno certe donne coi loro capelli, a quel che ho sentito raccontare?... Rido ancora pensandoci. No, figlio mio, ognuno deve fare il suo mestiere; ognuno deve calzare le scarpe che van bene al suo piede....

Il vedovo approvava, guardando di tanto in tanto le sue bisacce e sembrandogli che Columba fosse di cattivo umore perchè egli tardava a tirar fuori i doni.

L’arrivo del marito di Banna parve mettere un po’ d’allegria, intorno.

— E benvenuto sia lo straniero! — gridò stendendo al vedovo la sua rozza mano con le dita aperte. — Dove sono questi regali, di cui mia moglie parla notte e giorno a bocca aperta?

Banna, che lo seguiva, lo urtò alle spalle, ma Zuampredu si alzò felice e timido, per prender la bisaccia piccola, quella che sembrava di seta ricamata; la mise sopra una sedia e ne trasse un cofanetto d’asfodelo legato entro un fazzoletto rosso. Mentr’egli disfaceva i nodi strettissimi aiutandosi coi denti Banna pensava:

— Saranno i gioielli della sua prima moglie! — e il marito volendo al solito scherzare disse:

— Tu avevi lasciato in cucina quella bisaccia? Così si lascian queste cose?

— Era in luogo sicuro! — disse gravemente il fidanzato.

Ma il vecchio sospirò ostentatamente e come una nuvola si alzò davanti agli occhi di [p. 171 modifica]Columba; nè il fulgore dei gioielli che piano piano, con cautela, quasi esitando il fidanzato teneva dal cofanetto e deponeva davanti a lei sulla tovaglia valse a dissiparla.

Dapprima furono due bottoni in filignina d’oro, simili a due fragole gialle unite fra loro da un nastrino verde; poi altri bottoni in argento per lo maniche del giubboncello, spille, un rosario di madreperla con una medaglia bizantina applicata sopra una croce d’oro; una collana di corallo che sembrava fatta di goccie di sangue; e infine orecchini e anelli con «predas de ogu»1 d’un rosso pallido sfumato in avorio come i petali non ancor dischiusi della rosa, o con pietre gialle e verdi liquide e brillanti come goccie di rugiada e di miele. Eran tutti gioielli antichi, pesanti e quasi rozzi, fatti apposta per esser toccati da dita ruvide come quelle di Zuampredu Cannas. Banna gettava un grido di ammirazione ad ogni gioiello che veniva fuori dal cofanetto; i suoi occhi brillavano come riflettendo il luccichio dell’oro e delle pietre, mentre Columba guardava immobile, pallida, affascinata ma non commossa dalla ricchezza dei doni.

Il vecchio guardava anche lui; non s’intendeva di simili cose e disprezzava le cianfrusaglie, ma sapeva che accettando i doni Columba s’impegnava a sposare il Cannas; presiedeva quindi con una certa solennità alla cerimonia così semplice in apparenza ma che aveva un profondo significato. Ma Columba taceva troppo, e di nuovo un lieve imbarazzo si sparse sul viso di tutti. Banua disse, toccando gli anelli:

— Misura, sorella mia, misura, non vedi che sembran gli anelli della Madonna del Miracolo?

Li misurava lei, mentre suo marito prendeva [p. 172 modifica]un grappolo di bottoni, li pesava sul palmo della sua mano e diceva:

— Scommetto che valgono quanto un branco di pecore!

E il nonno cominciò a raccontare una storia: — In quei tempi, quando avevo le ginocchia svelte e giravo, incontrai un pastore di Dorgali che mi raccontava i fatti suoi. Egli dunque s’era sposato, poco tempo prima, e per «donare» la sposa aveva venduto il suo gregge. Sì, cento pecore aveva, cento ne vendette; e comprò i gingilli, ed ecco che non aveva più gregge, e due giorni dopo le nozze la sposa gli disse: bello mio, perchè non vai all’ovile a guardare il tuo gregge? Egli rispose: bella mia, il nostro gregge è dentro la tua cassa! Ma la sposa non era una sciocca: vendettero i gingilli e ricomprarono il gregge!

— Zuamprè! — gridò il cognato. — tu certo non hai fatto così!

— Marito mio, perchè dici queste scempiaggini? Neanche per scherzo devi dirle! Sorella mia, Columbè, misura....

Columba pareva immersa in un sogno: lentamente aveva steso le mani brune e toccava i gioielli, ma quasi furtivamente, come un ladro che è tentato a prender un oggetto prezioso ma ha paura. A un tratto però decidendosi all’improvviso allargò le dita e misurò gli anelli; ma tutti erano larghi ed alcuni parevano anelli di gigantessa tanto erano grossi e pesanti.

Ella si mise a ridere: scosse la mano con le dita in giù, e gli anelli ricaddero sulla tovaglia fra i bottoni aggrovigliati come grappoli d’oro e d’argento.

Il vedovo disse goffamente:

— Eh, non sapevo che avevi le dita così magre!

Ella sollevò gli occhi e cessò di ridere. [p. 173 modifica]

— Si vede che non mi guardi, Zuampredu Cà! Bene, non importa; farò stringere gli anelli.

Ma il cognato strizzò gli occhi maliziosi e disse:

— Ingrosserai, va, ingrosserai tanto che ti verranno stretti!

Il fidanzato diventò rosso per il piacere, mentre Columba, riabbassati gli occhi, tornava a misurarsi gli anelli cercando i più stretti e Banna contava i bottoni.

Dopo cena mentre i tre uomini continuavano a bere parlando di bestiame, Columba raccolse i gioielli entro il cofanetto e li portò su, nella sua camera; contò ancora una volta i bottoni e gli anelli, pesò con la mano la croce d’oro, poi chiuse tutto nella cassa ove erano i suoi vestiti da sposa e portò via la chiave.

Quando fu nel suo letto alto e duro ricominciò a pensare alle cose che le aveva detto Pretu, poche ore prima che arrivasse il fidanzato. Anche Jorgj aveva ricevuto un regalo di valore; coso tanto belle che non si potevano neanche descrivere. Da chi? Da una donna certo.... forse da qualche antica innamorata o da qualche donna con cui egli aveva avuto relazioni segrete.... Una strana gelosia le pungeva il cuore, le dava l’insonnia; immobile sul suo materasso di lana dura come il crine, guardava con occhi spalancati il chiarore grigiastro della piccola finestra e cercava di scacciare il molesto pensiero, ma non poteva, non poteva.... Il regalo misterioso ricevuto da Jorgj la interessava più che i doni recati a lei dal suo fidanzato. [p. 174 modifica]


L’indomani mattina il nonno e i due fidanzati salirono al Municipio per le pubblicazioni. I due uomini camminavano avanti; i passi del vecchio risuonavano forte nel silenzio della strada in pendìo: Columba seguiva, a testa alta, con quell’atteggiamento fiero quasi selvaggio ch’ella prendeva davanti alla gente. Banna dalla sua finestruola e tutte le vicine di casa dalle loro porticine seguivano con uno sguardo di curiosità quei tre che se ne andavano tranquilli come se i passi che facevano fossero eguali a quelli degli altri giorni....

Era un mattino luminoso, senza vento, senza nuvole; i gridi degli uccelli vibravano nell’aria pura e in lontananza s’udivano passi di cavalli, belati di capre, l’abbaiare dei cani: tutto era chiaro e tranquillo e anche Columba si sentiva quasi felice. No, non erano passi eguali a quelli degli altri giorni quelli che faceva! Le sembrava di allontanarsi dal passato e di andare verso giorni migliori; solo le dispiaceva di passare sotto le finestre di zia Giuseppa Fiore. Ma le finestre e la porta di zia Giuseppa eran chiuse, ed ella passò oltre rispondendo con un cenno di testa al saluto dei vecchioni seduti sulle panchine.

Davanti al Municipio s’aggruppavano molti paesani, decifrando un avviso applicato alla porta; uno di essi, un pastore che aveva un tempo fatto la corte a Columba, raccolse alcuni granelli di sabbione e li buttò in aria come si usa coi grani del frumento quando passa una sposa per augurarle abbondanza. [p. 175 modifica]

Gli uomini risero, ma Columba trasalì e guardò bieca il giovinotto, sembrandole che i paesani si burlassero di lei e del fidanzato vedovo, e che quei granelli di sabbione le augurassero mala fortuna.

Il nonno e Zuampredu precedevano sempre; non s’erano accorti di nulla; ma quando Columba li raggiunse, nella sala d’ingresso al primo piano, il fidanzato vide che ella aveva ripreso la sua solita aria cupa.

Alcune donne aspettavano d’essere ricevute dal Commissario per domandargli la revoca di un editto col quale egli proibiva che nelle strade del paese si lasciassero liberi, come per lo innanzi, maiali, capre, asini ed agnelli; una di loro, una vedova imponente dal forte profilo maschio, con la testa avvolta da una benda e con un rotolo di carta in mano come nei ritratti della grande Eleonora d’Arborea, diceva con sussiego ironico:

— Se Missignoria il Commissario terrà l’ordine che non passino animali, nella strada non si vedrà più nessuno.

Zio Remundu allora s’avvicinò.

— E che, anche tu ti metti nel numero delle bestie, Maria Antonia Pirastru?

— Dicevo per gli uomini soltanto, Remundu Corbu!

Tutti compreso l’usciere si misero a ridere e discutere; Columba, verso cui le donne non ostante le loro chiacchiere volgevan gli occhi curiosi, profittò di quel momento di generale distrazione per uscire nel corridoio che dalla sala d’ingresso metteva nelle stanze d’ufficio. Anche là seduti sulle panche sucide alcuni postulanti aspettavano il loro turno, rigidi nei loro cappottini neri d’orbace dalle maniche strette; parevano compresi dal rispetto del luogo, ma [p. 176 modifica]quando videro Columba la salutarono con un rozzo cenno del capo, da sotto in su, e un vecchio le domandò: — E che fai qui, Columba?

Allora ella andò in fondo al corridoio e uscì in un balcone che ne rasentava un altro dall’attigua casa di zia Giuseppa Fiore. Di lassù si vedeva la parte occidentale del paese, la chiesa nera e grigia fra le roccie, lo sfondo del paesaggio chiuso dalla linea dell’altipiano: la luce del mattino coloriva d’azzurro tutte le cose, il sole dorava i vetri delle finestruole e in una di queste, in una casupola nera sgretolata, si sporgeva una bella fanciulla in corsetto di panno giallo: tale un ranuncolo fiorente sul muro di una rovina.

Ma tutta l’attenzione di Columba si fermava al balcone attiguo le cui imposte erano aperte; una scarpetta bianca stava sullo scalino, ed ella la fissava come un oggetto straordinario e si sentiva battere il cuore. A un tratto altre due scarpette nere con la fibbia dorata apparvero accanto alla prima, Columba si scostò fino all’angolo più lontano del balcone con un moto quasi di paura ma immediatamente ebbe coscienza di ciò che provava e s’irrigidì. Perchè doveva, aver paura di quella piccola ragazza straniera che si permetteva di immischiarsi nei fatti altrui?

Eccola, appunto! Scende con un piccolo salto lo scalino e si ferma sul balcone, a tre metri di distanza da Columba. Sembra una bambina, con la sua veste bianca corta, i capelli neri e lucenti annodati con due nastri sulle orecchie, il viso pallido e pienotto emergente da un alto colletto verdognolo a due punte come un bocciolo di rosa dal calice spaccato. I suoi grandi occhi d’un nero dorato hanno come una perla in fondo alla pupilla, e si volgono rapidamente in giro, prima seguendo il semicerchio [p. 177 modifica]dell’orizzonte, posandosi poi sulla chiesa, poi sulla ragazza dal corsetto giallo, finalmente su Columba.

Columba sente quello sguardo pungerla come un pugnale, e prova dolore e rabbia sembrandole che la straniera ripeta a voce alta in modo che tutto il paese la senta, le parole dette alla cucitrice: «Come quella ragazza non si vergogna di sposarsi mentre un uomo muore per colpa sua? »

Offesa, piena d’ira, vorrebbe rispondere, ripetere anche lei tutte le proteste e le ingiurie che da giorni e giorni rivolge col pensiero alla straniera; ma non può, una specie di fascino la tiene immobile aggrappata al balcone sotto lo sguardo scintillante della sua nemica.

La sua emozione era tale che ella non si accorse neppure di Zuampredu che la cercava e la chiamava.

— Columbè? Andiamo, che fai lì? Ci hanno già chiamato.

— Guardavo, — disse con voce velata, come uscendo da un sogno.

Lo seguì; ma nel corridoio, nella sala d’ingresso e in quella delle udienze due scintille vagavano sempre per aria davanti a lei come quei punti luminosi che si vedono dopo aver fissato il sole.

Zuampredu Cannas e il nonno stavano fermi davanti a un tavolo verde: il Segretario seduto dall’altro lato sollevava di tanto in tanto dal suo registro il viso bruno barbuto che faceva contrasto col cranio nudo e bianco, e domandava qualche cosa. Columba, seduta anche lei accanto al tavolo, sentiva le parole del nonno, di Zuampredu, del Segretario, rispondeva quando questi la interrogava, ma col pensiero assente.

Il nonno la toccò lievemente sull’omero come [p. 178 modifica]per richiamarla dal sogno in cui sembrava caduta. Ella si scosse e lo guardò negli occhi come per rassicurarlo.

«Non inquietatevi se mi vedete così; oramai tutto è concluso, tutto è finito», pareva gli volesse dire.

Il Segretario mise un gomito sul tavolo, la penna dietro l’orecchio e tese la sua grossa mano di paesano a Zuampredu Cannus, facendogli i suoi augurii. Sì, tutto era concluso, se non finito. Ed ecco i tre se ne andarono tranquilli e in apparenza felici, i due uomini precedendo, la fidanzata seguendoli, mentre la voce dell’usciere gridava:

— Ohè, «feminas avanti!».... — e le donne spingevano verso la sala delle udienze l’imponente vedova col rotolo in mano.

Nell’atrio i paesani discutevano a voce alta, molta gente saliva e scendeva le scale ridendo e parlando come in luogo pubblico; solo Columba conservava la sua aria pensierosa e provava un vago terrore nell’attraversare quel luogo che il popolo considerava come casa sua, o almeno come un rifugio ove si potevano far valere i propri diritti, mentre a lei sembrava un luogo fatale ove era entrata libera e dal quale usciva legata per tutta la vita ad un uomo che non amava.

Nella strada in pendìo la serva del dottore, di ritorno dalla fontana, la raggiunse e le domandò con premura:

— Fatto?

— Fatto.

— Quando vi sposate?

— A Pentecoste.

Margherita fissava la corta e rozza figura di Zuampredu che rassomigliava all’ombra di zio Remundu; i suoi occhi ardenti brillavano di [p. 179 modifica]malizia ed a Columba che diffidava di tutto, quello sguardo pareva di beffa.

— Anche tu, dicono, ti sposerai presto, — le disse per vendicarsi. — Il tuo padrone non è una bandiera, ma è dottore e ricco.

Margherita dapprima si mise a ridere, poi si fece scura in viso.

— Le male lingue dicono molte cose, Colù! Dicono persino che tu ti sposi per dispetto, perchè Jorgeddu ha una ricca dama che lo aiuta e gli vuol bene....

Columba non risposo per paura che l’altra alzasse la voce e si facesse sentire da Zuampredu, ma la urtò guardandola con disprezzo: allora la serva rise di nuovo, mentre l’acqua, si spandeva dai vasi di sughero ch’ella reggeva uno per mano e le bagnava l’orlo verde della gonna.



Così tutto contribuiva a indispettire Columba, e mentre ella faceva i preparativi per le nozze dando gli ultimi punti al corredo o spezzando le mandorle per i dolci, calma e fredda in apparenza, bastava una parola, spesso anche un rumore nella strada o nel cortile, per renderla inquieta.

Il giorno di Pasqua un servo di Zuampredu Cannas le portò a nome di questi un agnello vivo, un cestino di arancie e altri doni. Il servo, un uomo alto e robusto dalla testa possente, conosceva tutti gli affari del padrone dei quale parlava con entusiasmo.

Seduto in mezzo alle sue bisacce, ancora con gli speroni ai piedi, si guardava attorno osservando come tutto era in ordine in quella cucina [p. 180 modifica]di benestanti, e sputava sul pavimento dicendo a Columba e a zio Remundu:

— Il mio padrone è un’aquila, mettetevelo bene in testa: anche quando sembra distratto è come l’aquila che ha le ali piegate e par che dorma, e invece pensa a spiccare il volo. Ora dovete anche sapere che egli è dritto come quel bastone vostro, zio Remu! Dritto! Non si piega nè da una parte nè dall’altra: è buono, ma quando sa che una cosa è ingiusta non perdona neanche se gli cavate gli occhi.... Ora dovete sapere....

— Sappiamo tutto! — disse Columba con voce quasi irritata; ma il servo non si offese, anzi la guardò con rispetto, poichè ella parlava come fosse già la moglie legittima di Zuampredu Cannas.

Ma dopo un momento egli cominciò a enumerare le cose che possedeva il suo padrone, gli alveari, i capi di bestiame, il frumento che aveva in casa, tutte le sue ricchezze e la sua abilità. Banna, sopraggiunta, ascoltava immobile fingendo un interesse straordinario e dando ogni tanto in gridi di ammirazione che irritavano Columba.

Incoraggiato, il servo cominciò a esagerare.

— Ora dovete sapere che egli, il mio padrone, è forse e senza forse il miglior tiratore di tutta la Sardegna. Egli vede un cinghiale che scappa? Dice: lo voglio ferire sotto l’orecchio; e spara, e anche se il cinghiale è dietro un cespuglio la palla lo ferisce sotto l’orecchio. Una volta, vi racconterò....

Ma il vecchio, toccato su quel tasto sensibile, sorrideva con lieve ironia.

— Ti racconterò io, — interruppe appoggiando le mani al suo bastone lucente, — nei bei tempi, quando le mie ginocchia erano agili come rotelle a cui si sia dato l’olio, un tale fu accusato di aver mirato sul suo nemico senza [p. 181 modifica]colpirlo; quando egli si presentò alla giustizia sai cosa rispose per sua sola difesa: «Sentite, gente, voi che capite la ragione: se io avessi mirato quest’uomo (l’accusatore era presente all’udienza) egli adesso non sarebbe qui!» E fu assolto.

— Quel tale eravate voi, lo sappiamo! Eravate un gran tiratore, — disse l’uomo commosso nonostante la sua ammirazione per Zuampredu Cannas.

Il vecchio sorrise con modestia, pago di aver rintuzzato la vanagloria del servo. Più tardi Banna uscì nella strada e cominciò a chiacchierare con le vicine, imitando il servo.

— Ora dovete sapere che sorella mia, Columba mia, sarà più ricca di donna Iuannicca Fiore.... dovete sapere che in casa di Zuampredu Cannas la roba s’ammucchia come nelle sagrestie delle chiese ove sian state portate le decime....

— A chi molto e a chi niente, nel mondo, — sospirò una vecchia: e il mendicante seduto sulla sua pietra col rosario in mano guardava fisso il gruppo delle donne con uno sguardo sospettoso.

Zio Remundu rientrò e andò a guardare il suo cavallo che quel giorno era stato molto irrequieto per la vicinanza del cavallo del servo.

— Quasi quasi me ne vado via stasera, la notte è chiara e calda, — disse a Columba. — Preparami i viveri per il pastore.

Il servo era partito. Columba stava per rientrare quando vide la figurina di Pretu balzar fuori dal cortile, unirsi al gruppo delle donne e sogghignare ascoltando Banna che descriveva i regali mandati da Zuampredu.

— E cosa sono due arance e un agnello? — egli si mise a gridare. — Altro che così ne ha ricevuto oggi il mio padrone; una cassetta di frutta che sembran fresche e son tutte di [p. 182 modifica]miele; e altre cose ancora.... e che vengono da lontano.... da lontano e perciò son più buone....

— Vattene via. bugiardo; — strillò Banna, — vattene via, bavoso!

Ma la vecchia che poco prima si era lamentata gemè di nuovo:

— E vero, ho veduto io il vetturale. A me nessuno ha mandato una coscia di capra....

— Quando si sposa sorella mia vi daremo tutta la carne che vorrete. Ammazzeremo tre vacche e dieci capre, e distribuiremo la carne ai buoni amici ed ai buoni vicini, — disse Banna, che voleva distoglier l’attenzione di Columba dalle chiacchiere di Pretu; ma alle donne, più che le sue promesse, premevano i regali misteriosi ricevuti dal malato, e tutte si rivolgevano al ragazzo interrogandolo.

— Sì, il mio padrone ha amici in tutte le parti del mondo. Anche oggi ha ricevuto una lettera, ed era tanto bella che lui rideva e piangeva nel leggerla.

Columba, sebbene il nonno stesse già a sellare il cavallo, non si muoveva dalla porta. Banna disse:

— Vattene via, bavoso. Sarà qualche elemosina, quella che vi faranno....

— Qualche elemosina? Se il mio padrone ne volesse la sua casa sarebbe piena come un forno. Ma lui non ne vuole. Son regali quelli che gli mandano. Ce una gran dama, a Roma... E anche qui.... anche qui.... — aggiunse con accento di mistero. — vedrete cosa succederà qui....

La vecchia, che invano aveva aspettato dai Corbu un regalo per Pasqua, disse: — Ho sentito dire che il Commissario in persona andrà a visitare il povero Jorgeddu. Sì, anima mia. c’è ancora gente caritatevole nel mondo. Io sono povera, ma se il malato volesse potrei anch’io dargli qualche piccola cosa.... [p. 183 modifica]— Oh. se egli ne volesse, tutti, tutti gliene darebbero, persino Dionisi!

— Io penso sia la sorella del Commissario a mandar regali a Jorgeddu, — riprese la vecchia.

— Sì, quella è caritatevole: a una figlia di Caterina Farre dà due lire perchè stia ferma un momento davanti a lei, per dipingerla....

— Ah, questo non vuol dire. A Margherita voleva dare dieci lire; ma voleva dipingerla nuda!

Banna diede un grido selvaggio d’orrore e si ritirò scandalizzata; allora Pretu s’avvicinò a Columba che rimaneva come pietrificata sulla soglia e le disse: — Datemela, un’arancia, dunque! Non mi darete il mondo.

— Passa più tardi, — ella mormorò.



Più tardi Pretu ripassò. Il nonno era partito, le donne s’erano ritirate, in lontananza s’udivano i canti e le grida degli ubbriachi che avevan festeggiato la Pasqua bevendo come otri: coppie di amici (in quel giorno tutti erano amici e compari) passavano ancora nella straducola, sostenendosi a vicenda, chiamandosi scambievolmente «frate meu» e accomodandosi sul capo la berretta che non voleva star ferma. Tutti avevano le tasche gonfie di arancio da portare ai loro bambini e alle loro donne; pareva che un soffio di allegria e di amore passasse sul paesetto disperdendo gli ultimi ricordi di odio: persino i canti degli ubbriachi avevano una cadenza di tenerezza selvaggia.

— Me la date dunque quest’arancia? susurrò Pretu dalla fessura della porta. [p. 184 modifica]

E per la prima volta dopo che Jorgj era malato Columba fece entrare il ragazzo. Il cuore le batteva come ai bei tempi quando ella riceveva lo studente all’insaputa dei suoi; alla sua angoscia si mischiava un senso di tenerezza, di dolcezza, come nei canti degli ubbriachi nella via.

Il ragazzo si guardò attorno inquieto, ma fu un attimo; tosto ritornò tranquillo e anche senza essere interpellato riprese a chiacchierare raccontando tutto ciò che Columba voleva sapere.

— E il terzo regalo che riceviamo. — cominciò, facendo scorrere da una mano all’altra l’arancia gialla e pesante che Columba gli aveva dato. — Se continua così diventiamo ricchi e non c’è bisogno di vender la casa. Giovedì, giusto, è arrivato il secondo regalo: zucchero, caffè, candele, burro, datteri; sulle prime lui rideva e diceva: deve essere la figlia di un botteghiere,2 ma ecco a un tratto lo vedo diventar bianco più di quello che è, capite; in una scatola c’era un biglietto, e lui lo leggeva e tremava. Poi scrisse, scrisse fino alla notte e mi mandò a portar la lettera al vetturale, poi mi disse di lasciare la porta del cortile aperta: si vede che aspettava qualcuno. Oggi arriva un altro regalo e un’altra lettera; egli rideva e piangeva, leggendola; è allegro come un uccellino quando sta per volare; pare che si debba muovere e guarire; è persino rosso in faccia.

Seduta al posto ove il servo del fidanzato aveva a lungo enumerato le virtù del suo padrone Columba ascoltava intenta, mentre i suoi occhi brillavano di curiosità e di gelosia.

— Tu, Pretu, chi credi possa essere?

— Chi? [p. 185 modifica]

— Ma di chi parli, castigato?3 Dico, la persona che manda i regali.

— Io non lo so, zia mia! — egli disse, lanciando in alto l’arancia e riprendendola nel cavo delle mani.

— Da’ retta a me, lascia l’arancia: credi tu che egli lo sappia?

— Chi, ziu Jorgj? Eh, certo, lui lo saprà!

— Ma sopra la lettera che tu hai portato al vetturale cosa c’era scritto?

— Non c’era scritto nulla! Si vede che quel diavolo sa tutto.

— Credi tu che sia la sorella del Commissario? Lui, ne parla?

— Sì, lui domanda sempre come è fatta questa ragazza. Io l’ho veduta anche oggi, su in piazza, che passeggiava col prete e col Segretario; sì, è bella. Mi ha anche sorriso.

— Credi tu che sia lei?

— Io non lo so, zia mia! Può darsi, — rispose Pretu dando un morso alla buccia dell’arancia. — Una donna è, quella che manda i regali, lui stesso, zio Jorgj, lo dice. Ho sentito che diceva al dottore: «se essa venisse mi pare che potrei alzarmi!» E quel matto del dottore rispondeva: «sicuro, sicuro!» Sarebbe una cosa curiosa!

Columba coi gomiti sulle ginocchia e le mani intrecciate, si morsicava le nocche delle dita. Dopo un momento di esitazione domandò:

— E di noi parla ancora?

— Chi, zio Jorgj? Mai.

— Dimmi la verità, idiota; se no guai a te....

— Vi giuro che non ne parla! Io spesso gli dico: Columba, quella che dovevate sposar voi, spezza le mandorle per fare i dolci dello sposalizio: e lui zitto. Prima qualche volta ne parlava; adesso più.... [p. 186 modifica]

— Ebbene, che m’importa? — gridò a un tratto Columba, balzando in piedi pallida d’ira contro sè stessa che non sapeva frenare la sua stupida curiosità. — Bè, — aggiunse riaprendo la porta, — adesso vattene, chiacchierone. Perchè sei venuto dentro? Vattene, e non parlare, perchè se no ti scortico la nuca con le unghie....

Nonostante questa minaccia Pretu indugiò ad alzarsi; si levò la lunga berretta e vi gettò dentro l’arancia, indi sollevò verso Columba i begli occhi maliziosi.

— Datemene un’altra, dunque; la porterò al mio fratellino Bore che se la succhierà come una tetta....

Ma Columba incalzava:

— Vattene, vattene, — ed egli si alzò a malincuore e se ne andò.

Ella chiuse la porta e si rimise a sedere al posto di prima. Le faceva male il cuore, il respiro le mancava; le pareva di esser sola in mezzo al mondo e che qualcuno avesse vuotato intorno a lei tutte le cose, come il servo aveva vuotato le sue bisacce. Le tancas, le vacche, gli alveari, le case, tutto era senza valore; tutto le appariva inutile poichè il disgraziato Jorgj piangeva e rideva leggendo le lettere di un’altra donna. E la passione che la urgeva le sembrava fosse ancora il dispetto, l’odio contro l’uomo da cui si riteneva offesa e abbandonata; ma già una voce misteriosa echeggiava in fondo alla sua coscienza, una voce selvaggia e tenera come quella degli ubbriachi che cantavano in quella sera d’amore, ed ella si accorgeva d’esser vissuta fino a quel momento come uno che ha smarrito la strada e si ostina ad andare avanti senza chiedere indicazioni a nessuno e più va innanzi più si smarrisce.


Note

  1. Pietre di fuoco; coralli.
  2. Droghiere.
  3. Idiota.