Edgar Allan Pöe/La vita e le opere/IV

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La vita e le opere - IV

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IV.


La vita dell’artista ci rivela la sua opera. Gli scritti di Edgardo Pöe non sono che un riflesso del suo carattere e delle sue azioni.

Tre sono gli elementi che concorsero a formarli, La nevrosi ereditaria, lo spirito matematico, l’alcool.

Colla nevrosi Pöe ereditò il genio, l’indole speciale della sua immaginazione, la materia prima dell’opera sua.

Lo spirito matematico gli diede la sottigliezza del ragionamento, la logica del metodo, lo stile, la potenza delle deduzioni,

L’alcool infine aggiunse a tutto il suo colorito e la sua febbre.

In una parola, l’opera di Pöe è il prodotto dello spirito analitico e dell’alcool sopra un temperamento malato di nervi.

Egli non era uno spirito pratico; la sua vita lo ha provato, ma era uno spirito essenzialmente positivo e le tendenze della sua intelligenza lo condussero a materializzare oltre misura i procedimenti dell’arte.

Le matematiche non sono, a dir proprio, una scienza; esse non servono di scopo a sè [p. 32 modifica]stesse; insegnano un procedimento per risolvere i problemi che gli studi scientifici reali — la fisica, l’astronomia, la meccanica — offrono alla nostra curiosità, e non sono altro, prese nella loro essenza, che un mezzo di ridurre in calcoli palpabili le pure concezioni dello spirito, e di misurare lo spazio, l’una delle due forme sotto cui noi possiamo travedere l’infinito.

Appoggiata alle matematiche l’immaginazione allarga ancor più le sue ali e centuplica il suo impeto.

Le matematiche non sono esse forse il dominio dello straordinario e dell’impossibile? E, ancor meglio, non sono esse la lingua stessa dell’infinito? Esse sole possono penetrarlo, e quando noi ci arrestiamo, è il nostro pensiero che vacilla stordito dalla vertigine.

Così in Pöe; l’immaginazione sua, basata sul calcolo, acquista una certezza, una sicurezza invidiabile. Esprimendosi sempre con linguaggio prudente, netto, conciso, egli ha fatto, ed ha fatto fare ai suoi lettori un enorme cammino inavvertitamente. La realtà dei termini, la logica serrata, stringente delle espressioni e deduzioni lo hanno inebbriato ad un tempo e sorretto. Il novelliere di Moon Hoax, di Hans Pfaal, di Augusto Dupin, non ha cessato di sentire la terra sotto i suoi piedi, [p. 33 modifica]il mondo finito alla sua portata, eppure ha percorso lo spazio senza confini ed il tempo senza limiti.

Ma lo spirito matematico ha la sua china fatale. Alloraquando si applica questo procedimento alle speculazioni dell’intelletto, in luogo di applicarlo a qualche scienza esatta e definita che possa servirgli di contrappeso e mantenere l’equilibrio; allorquando ― in luogo di analizzare fatti materiali e risolvere problemi circoscritti ― con questo strumento, la cui potenza non ha resistenza, si vogliono sollevare delle idee, la mente perde il sentimento della verità vera, vale a dire umana.

E così l’autore nostro, talvolta, non s’accorge più dell’abisso su cui si spenzola; l’impossibile scompare ai suoi occhi, e poichè egli procede per misure esatte, non si avvede di misurare l’incommensurabile.

Dopo essersi valso dei procedimenti più matematici nella poesia; delle sue analisi metodiche, del suo cammino regolare e logico, delle sue deduzioni potenti, nelle sue novelle; seguirà poi lo stesso metodo traverso lo spazio ed il tempo, e ci darà in quel sublime delirio cosmogonico che è l’Eureka, una spiegazione non nuova, ma rinnovellata della creazione, senza scostarsi un istante dalla meccanica, dalla statica, dalla dinamica, e sarà fermamente convinto di non errare; [p. 34 modifica]poichè i suoi calcoli sono esatti e le sue operazioni giuste 1.

Esaminiamo ora l’altro elemento: l’alcool.

I primi effetti dell’ebbrezza e la sua azione immediata sovra un essere morale, variano a seconda del temperamento del soggetto. [p. 35 modifica]

L’uomo sanguigno ha un periodo di gaiezza e di espansione, poi un pesante torpore.

L’uomo linfatico, un breve istante di vigore e di energia; poi, passata la crisi, un ebetismo fiacco ed impotente.

Per l’individuo nervoso o bilioso l’ebbrezza [p. 36 modifica]ha qualche cosa di febbrile e sembra ad un attacco di nervi. Il riso ed il pianto si alternano, si confondono, l’eccitazione raggiunge il suo maximum. Non c’è più legge; comanda la forza brutale.

Sotto i belletti e le ciprie della civilizzazione e della società, l’uomo dell’istinto appare bruscamente, con un’idea fissa.

Ha egli una preoccupazione incessante e nascosta? Essa si farà strada e l’assorbirà completamente. Ha egli un’ambizione? la mostrerà! Una pretensione? la dirà!... Un dolore, un fastidio? essi parleranno! Ha egli infine una facoltà più sviluppata, una tendenza particolare dello spirito, una maniera speciale di intendere la vita e di considerare gli uomini? Questa qualità, questa attitudine, questa maniera si accentueranno, si faranno largo, sino a cancellare, a schiacciare in lui ed annientare tutte le altre facoltà, tutti gli altri sentimenti.

Si comprende quindi come l’alcool possa diventare, in una certa misura, e per un certo tempo, un metodo di lavoro.

Annichilendo la volontà, forzando al silenzio tutto ciò che non è la facoltà dominante e la preoccupazione incessante, l’ebbrezza faciliterà l’inspirazione.

Ma quale inspirazione!

Essa spingerà, forse, le opere che produce ad un altissimo grado di interesse, comunicherà [p. 37 modifica]loro una febbre ed un ardimento sorprendente, ma li condannerà alla monotonia, e li limiterà in stretti orizzonti. Lo spirito andrà lungi, ma in una sola direzione.

Ed infatti in Pöe noi non troviamo il giuoco dei diversi elementi, la lotta o l’accordo di più idee, il conflitto dei sentimenti e delle passioni, quella riproduzione della vita dell’umanità, di cui ognuno è una specie di compendio più o meno completo.

Qui siamo, al contrario, in faccia ad un solo elemento, ad una sola idea, ad un solo sentimento, ad una sola passione! L’unità, ecco la forza di tutti gli scritti di Edgardo Pöe! ma ecco, con quella, un difetto: l’uniformità.

Tutte le opere sue hanno un’oscura tinta di tristezza e di profonda disperazione. Tutto ciò che è gioia, espansione, splendore, vitalità si offusca ai suoi sguardi.

Le sue pitture sono orribili, desolate; i suoi sogni diventano incubi terrorizzanti.

Malato, egli non racconta che la malattia. I suoi sensi allucinati lo conducono ad amare solo gli odori strani ed i quadri selvaggi; pervertito di gusto, non prova la voluttà che nel dolore, la grazia che nell’epilessia, la beltà che nella stranezza.

La sue novelle hanno un solo motto: L’orrore.

Le sue poesie un solo accordo: La morte.

Note

  1. L’idea fondamentale della metafisica di Pöe è quella del Bagvat Gita: «Nell’unità originale dell’Essere Primo è contenuta la causa secondaria di tutti gli esseri, infino al germe della loro inevitabile distruzione.
    Non è qui nostra idea di analizzare e discutere questa filosofia che Pöe, del resto, ha messo in quasi tutti i suoi lavori. Perchè il lettore possa averne un’idea, basterà che noi riassumiamo per sommi capi.
    «Fu un’epoca, nella Notte dei Tempi, in cui esisteva un Essere eterno, composto di un numero assolutamente infinito di Esseri simili, popolanti l’infinito dominio dello spazio infinito. Non era e non è in potere di questo Essere di estendere o di accrescere in quantità positiva la gioia della sua esistenza, ma nella stessa maniera che è nel potere dell’uomo di estendere e di costringere i suoi piaceri (la somma assoluta della felicità restante però sempre la stessa), così una facoltà analoga ha appartenuto ed appartiene a questo Ente divino, che passa la sua Eternità nella perpetua alternativa dell’Io concentrato in una Diffusione quasi infinita di se stesso.
    «Egli sente, vive, ora, la sua vita per un infinità di piaceri imperfetti; per le soddisfazioni parziali e i dolori di quegli esseri prodigiosamente numerosi che vengono chiamati le sue creature, ma che in realtà non sono che le sue innumerevoli individualizzazioni. Tutte queste creature, tutte (tanto quelle che sono dichiarate sensibili, quanto quelle a cui viene negata la vita per la sola ragione che la mente umana non sa sorprendere quella vita nelle sue operazioni) tutte queste creature hanno, ad un grado più o meno vivo, la facoltà di provare la gioia od il dolore; ma la somma generale delle loro sensazioni è appunto il totale della Felicità che appartiene di diritto all’Essere Divino. Tutte queste creature sono pure intelligenze più o meno conscienti: conscienti, prima, della loro propria identità; conscienti poi, per pallidi lampi, della loro identità coll’Essere divino di cui noi parliamo, della loro identità con Dio. Di queste due specie di conscienze, la prima s’indebolisce gradualmente, la seconda si fortifica nella lunga successione dei secoli che devono trascorrere prima che queste miriadi di Intelligenze individuali si immedesimino e si confondano in una sola Intelligenza suprema. Il senso dell’identità individuale si trasfonde poco a poco nella coscienza generale, e l’Uomo cessando per gradazioni insensibili di sentirsi Uomo, raggiungerà alla fine l’epoca trionfale in cui riconoscerà la propria esistenza in quella stessa di Jeova.»
    Ecco la filosofia di Pöe, filosofia profonda, grandiosa, panteistica, come quella dei libri sacri degli Indu, come quella di Goëthe e di Shelley.
    Per Pöe tutto è vita — tutto è nella vita — la vita è nella vita — la più piccola nella più grande e tutte nello Spirito di Dio.