Idilli (Teocrito - Pagnini)/II

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II

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Luca Antonio Pagnini
II
I III
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L’INCANTATRICE

Idillio II

Testili, dove son gli allori e i filtri?
Fascia quel vaso con purpurea lama
Di pecorella, onde colui, che tanto
M’è crudo, astringa con incanti. Or volge
Il dodicesmo dì, che a me quel tristo
Non vien, nè sa se noi siam vive o spente,
Ne più batte l’ingrato alle mie porte.
Certo l’Amore instabile, e Ciprigna
L’han volto in altra parte. Andrò a trovarlo
Doman di Timageto alla palestra,
E a rinfacciargli il torto. Or con incanti
L’assalirò. Tu, Luna, alto risplendi,

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     Ond’io pian pian teco favelli, o Dea,
     E con Ecate inferna, ond’hanno orrore
     I cagnoletti allor, che per le tombe
     Va degli estinti, e il sangue atro calpesta.
     Salve, Ecate tremenda: al fianco stammi
     Fino all’estremo, e fa, che i miei veneni
     A quei non cedan di Medea o di Ciroe,
     Nè a quelli della bionda Perimeda.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     La farina sul fuoco è omai disfatta.
     Ah! spargila, codarda. Ov’hai la mente?
     Forse, iniqua, anche a te gioco divenni?
     Spargila, e di’: L’ossa di Delfi io spargo.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Delfi me crucia, ed io su Delfi accendo
     Il lauro, e com’ei crepita combusto
     Da forte incendio, e ratto va in faville
     Senza lasciar pur cenere, la carne
     Così di Delfi si dilegui in fiamme.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Com’io vo stemperando questa cera
     La divina mercè, così d’amore
     Si stemperi ben tosto il Mindio Delfi.
     Come questo palèo di rame gira,
     Per opra di Ciprigna anch’ei non meno
     Intorno alle mie soglie ognor s’aggiri.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno,
     Or farò della crusca il sagrifizio.
     Ben tu, Cintia, piegar fin Radamanto
     Puoi nell’Averno, e s’altro v’ha più saldo.
     Latran le cagne per città. Ne i trebbi
     Certo è la Diva. Ah! suona tosto il rame.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Ecco già tace il mar, tacciono i venti,
     Pur nel mio petto il mio dolor non tace;
     Ma tutta ardo per lui, che me non moglie

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     Ma fe’ impudica, e senza onor fanciulla.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Tre volte libo, e sì tre volte ancora,
     O Diva, esclamo. O femmina al suo fianco
     Sieda, o garzon, tal ei di lor si scordi,
     Qual d’Arianna dalle vaghe chiome
     Teseo scordossi, com’è fama, in Nasso.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     L’ippomane è fra gli Arcadi una pianta,
     Onde tutti i puledri e le cavalle
     Indomite pe’ monti in furor vanno.
     Tal vedess’io dalla lucente lizza
     Trar Delfi furibondo il piè qua dentro.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Delfi perdè quest’orlo della vesta,
     Che or do pel pelo alle voraci fiamme.
     Ahi, ahi spietato Amor! perchè al mio corpo
     Affisso qual palustre sanguisuga
     Tutto a quest’ora ne bevesti il sangue?
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     D’una pesta lucerta un’aspra beva
     Domane appresterò. Ma prendi intanto,
     Testili, questi sughi e n’ungi in alto
     Il limitar di Delfi, a cui con l’alma
     (Nè a lui ne cal) son anco avvinta, e poscia
     Sputando di’: L’ossa di Delfi io spargo.
Cutretta, deh! lui traggi al mio soggiorno.
     Or, che soletta sono, e come, e d’onde
     A sfogare il mio amor farò principio?
     Chi tanto mal recommi? Anasso figlia
     D’Esbulo andava coi canestri in mano
     Di Cintia al bosco. Molte fiere intorno,
     Ed una dionessa avea fra quelle.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Or la nutrice Teucarila Tracia
     Di beata memoria un dì pregommi,

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     Com’era mia vicina, e femmi instanza,
     Che andassi a quel cortèo. V’andai meschina,
     In bel manto di bisso fino a terra,
     E sopra avea di Clearista il drappo.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Già sendo al mezzo della via maestra,
     Dov’ha i beni Licon, veduto ho Delfi,
     Il qual sen gìa con Eudamippo a coppia.
     Più ch’elicriso avean lanugin bionda,
     E dopo i bei sudor della palestra
     Più di te rilucente, o Luna, il petto.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     E come il vidi, oh qual furor mi prese!
     Come, infelice, il cor mi fu conquiso!
     La mia beltà sfiori; di quella festa
     Non presimi più cura; e non so pure
     Com’io facessi a ritornarmi a casa.
     Struggeami un mal cocente. In letto giacqui.
     Ben dieci giorni, ed altrettante notti.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Simile al tasso il mio color si fea:
     Tutti i capelli mi cadean di testa;
     E solo a me rimaso er’ossa e pelle.
     E dove non andai? qual lasciai casa
     Di vecchia maga? Ma per me conforto
     Non v’era, e intanto disperdeasi il tempo.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Sì dunque apersi alla mia fante il vero:
     Testili, ah! trova alle mie dure pene
     Qualche rimedio. Quel garzon di Mindo
     Tutta tiemmi in ambasce. Ah! vanne in guardia
     Di Timageto alla palestra, dove
     Andar ei suole, e con piacer fermarsi.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     E quando il vedrai solo, a lui in disparte
     Fa cenno, e di’: Simeta a sè ti chiama;

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     E qua mel guida. Io così dissi; ed ella
     Cola avviossi, e poi guidòmmi a casa
     Il rigoglioso Delfi; e a pena il vidi
     Lo snello piè recar sovra la soglia,
(Intendi, o Lena, onde il mio foco è nato.)
     Ch’io tutta più, che neve m’agghiadai,
     E il sudor dalla fronte mi grondava
     Come pruina austral, nè voce avea
     Quant’un bambino, che cinguetti in sogno
     Alla diletta madre, e il mio bel corpo
     Così duro si fe’ come un cristallo.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Mi guața il crudo; e fisi gli occhi al suolo
     Assidesi in un seggio, e così parla:
     Quant’io nel corso ho prevenuto or ora
     Il vezzoso Filin, tanto, o Simeta,
     Precorso hai me col tuo chiamarmi in casa.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Giuro pel dolce amor, ch’io ben sarei
     Con tre o quattro amici a te venuto
     Questa notte medesma, in sen recando
     Di Bacco i pomi, e su la testa il pioppo,
     Arbor sacro ad Alcide, intorno intorno
     Avviluppato di purpurei nastri.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     E se accolto m’aveste, assai contenta
     Esser dovevi, ch’io di vago e anello
     Ho tra i giovani il vanto, e sarei stato
     Sol ch’io baciassi il tuo bel labbro, in pace.
     Ma se m’aveste rigettato, e chiusa
     Con le spranghe la porta, immantinente
     Sarebbono qua corse e faci e scuri.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     Or io, donna, ringrazio in pria Ciprigna
     E poscia te, che dopo lei dal foco
     Mi salvasti chiamandomi mezz’arso

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     A casa tua. Chè Amor sevente detta
     Vampa maggior di Lipareo Vulcano.
Intendi, o Luna, onde il mio foco è nato.
     E ingombre di furor da’ chiusi alberghi
     Mette in fuga le vergini e le spose
     Da’ maritali ancor tepidi letti.
     Tal disse. Io troppo credula per mano
     Il presi, e l’un con l’altro accesi in volto
     Feamo un dolce susurro; e per non farti
     Troppo indugio parlando, amica Luna,
     Venuti siam de’ desir nostri al colmo,
     Nè fino a’ dì passati egli non s’ebbe
     A doler mai di me, nè io di lui.
     Ma giunta m’è la madre di Filista
     Mia sonatrice, e di Melisso in casa
     Staman nell’ora, che correano al Cielo
     I destrier dall’Oceán recanti
     La bella Aurora dalle rosee braccia.
     Infra molte altre cose ella m’ha detto,
     Che Delfi è innamorato, ma se amore
     Presel di donna, o d’uom, non è ben certa.
     Sa, ch’egli mesce assai vin pretto in grazia
     Dell’amor suo, poi ratto fugge, e dice,
     Che a fregiar va di serti il caro albergo.
     Così l’amica; e quel, che ha detto, è il vero
     Perch’ei solea tre volte o quattro il giorno
     Da me venire, e qui posar sovente
     Il dorìese utello. Or è trascorso
     Il dodicesmo dì, ch’io più nol veggio.
     Me dunque obblìa per dilettarsi altrove?
     Or’io co’ filtri moverògli assalto;
     E s’ei m’offende ancor, giuro alle Parche,
     Che a battere n’andrà le Stigie porte;
     Sì fier veneni in cesta aver mi vanto
     Che da un Assiro viandante appresi.
     Ma tu, Reina augusta, or lieta affretta

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     Vèr l’oceàno, i tuoi corsieri, e intanto
     Io seguirò a portar le mie sciagure.
     Addio, o Luna alto-lucente, addio
     Voi stelle tutte, che solete il carro
     Accompagnar della tranquilla Notte.