Inni di Callimaco (1827)/Diana

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Diana

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Callimaco - Inni (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Dionigi Strocchi (1816)
Diana
Apollo Delo
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DIANA


Tristo il cantor, che di Diana tace!
     Canto Diana che di strali e d’arco,
     E di balli pei monti erti si piace,
E seguir belve o le aspettare al varco,
     E comincio dal dì, ch’alle paterne
     Ginocchia sendo parvoletto incarco,
Dammi, padre, dicea: ch’io serbi eterne
     Vergini brame, e tai nomi che orgoglio
     Apollo più di me non deggia averne:
La gran faretra e il grande arco non voglio,
     Provederà, se impetro, a me Vulcano
     Pieghevol arco e faretrato spoglio;

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Agitar faci da ciascuna mano,
     Movere in corte vergate gonnelle,
     E fiere vo’ non saettare invano;
Voglio dall’Ocean sessanta ancelle,
     Che deggiano guidar danze con meco,
     Giovani tutte e fior di verginelle,
Venti ne voglio dall’Amnisio speco,
     Che miei veltri e coturni abbiano a cura
     Se guerra a lince e a capriol non reco;
Dammi signoreggiar ciascuna altura,
     D’una città mi appago esser regina,
     Che rado mi vedran civili mura.
Abitatrice di contrada alpina
     M’inurberò nell’ora che dogliose
     Le genitrici grideran Lucina:
Al destin di alleggiar le gravi spose
     Io nacqui poi che senza duol la madre
     In sen portommi e senza duol mi spose.
Così dicendo, con le man leggiadre
     Di voler carezzar mostrava segni,
     E alfin la barba carezzò del padre,
Ed egli soggiugnea: se di tai pegni
     Me genitor le Dee sempre faranno
     Gelosa a grado suo Giuno si sdegni;
Tutte le brame tue piene saranno,
     Trenta arroge città che onore e lode
     Daranti e nome da te sola avranno,
E per terrestri e per marine prode
     In dono ti verranno are e foreste,
     E di porti e di vie sarai custode.
Chinò la testa sorridendo queste
     Parole, e la fanciulla a Leuco volse,
     A cui le spalle una gran macchia veste;
Alla riva del mar quindi si accolse,
     Ove uno stuol di cento donzellette
     Leggiadra compagnia! seco si tolse:

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Teti marina e Cérato godette
     Vedute con la figlia di Latona
     Andar lor figlie in un drappel ristrette.
Per le mura trovar, che il Fabro introna,
     Di Meliguni all’isoletta trasse,
     Che di Lipari in voce ora risuona. 1
Stavano intorno alle candenti masse
     I Ciclopi, e un gran vaso era il subietto,
     Che i destrier di Nettuno abbeverasse:
Allo scoprir lo spaventoso aspetto
     Di mostri somiglianti ai gioghi d’Ossa,
     Ad ogni ninfa il cor battea nel petto;
Nel mezzo della fronte occhio s’infossa
     Grande all’imago di rotondi scudi,
     E luce in luce orribilmente rossa,
Risuonano percosse armi ed incudi,
     Spiran entro i carbon pelli bovine,
     E gemon per fatica i petti ignudi.
Le Sicane contrade e le vicine
     Piagge d’Ausonia e Corsica tremanti
     Erano al rimbombar delle fucine,
Mentre fean sollevando i fier giganti
     E le mazze abbassando impeto e metro
     Su le tolte ai cammin masse fiammanti.
Perchè le figlie d’Oceano indietro
     Volgeano esterrefatte orecchi e ciglia,
     Avvezze paventar del noto spetro,
Che madre irata a parvoletta figlia
     Invocare i Ciclopi ha per usanza,
     Sterope o tal di quella atra famiglia.
Mercurio allora da secreta stanza
     Pare e le gote di fuliggin tinge,
     E spegne alla ritrosa ogni baldanza,
Che in frettolosi passi si restringe
     Tutta tremante alle materne stole,
     E con ambe le mani il viso cinge.

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Non eri tu di là dal terzo Sole,
     Che Latona a Vulcan sendo venuta
     Pei doni usati a tenerella prole
La prima volta, che ci fu veduta,
     Su le ginocchia ti locò di Bronte,
     E tu del petto nella chioma irsuta
Le mani gli avvolgesti ardite e pronte
     Sì che dimostra ancor pelato varco
     Sembiante a liscia per calvezza fronte.
Perchè col cuor d’ogni temenza scarco
     Incominciasti in tal libero suono:
     Or su, Ciclopi, una faretra un arco
Di fabbricare a me fatemi dono,
     Non è già di Latona unico figlio
     Apollo, di Latona ed io mi sono,
E se cinghial con vostre frecce piglio
     O fiera altra maggior, la mensa vostra
     Ciclopi apparecchiarne io mi consiglio.
Qui ognun le domandate armi ti mostra,
     E tu vi stendi le bramose mani,
     E per veltri di Pan corri alla chiostra.
Una lince Menalia allora in brani
     Metteva a disbramar Pane il digiuno
     Delle nutrici dei lattanti cani.
Tre dalle orecchie penzolanti, ed uno
     Pane ti diede alla picchiata cute,
     E coppia maculata a bianco e a bruno,
I quali anco afferrar per le vellute
     Gole e atterrare e strascinar lioni
     Supini alle capanne avrian virtute;
Sette veltri di Sparta aggiunse buoni
     Il lepre a conseguir che non s’addorme,
     Rapidi più che rapidi Aquiloni,
E de’ cervi a cacciar buoni le torme,
     Di caprioli e d’istrici il covile,
     E di fugaci damme a spiar l’orme.

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Teco dei fidi cani ivan le file
     Quando la riva del petroso Anauro
     Ti discovrì spettacolo gentile.
Erravan cerve dalle corna d’auro
     Là dove di Parrasio il pian verdeggia,
     E maggiori a vederle eran d’un tauro;
Quando mirasti la ramosa greggia
     Dicesti in tuo secreto: o degne prede,
     Che dinanzi da me le prime io veggia;
E tosto col poter dell’agil piede
     Quattro senza allentar lasso o catena,
     Pigli e soggioghi alla volubil sede;
Del fiume Celadonte oltre la vena
     Passò la quinta, e a’ Cerinei covigli
     Quarta si riparò d’Alcide pena. 2
O Dea di Tizio morte armi e cintigli
     Porti indorati e all’indorato temo
     Con indorato fren le cerve imbrigli,
Dove il tuo cocchio pria drizzasti? All’Emo
     Là donde boreal procella move
     Fastidiosa a chi di manto è scemo.
Dove i pin recidesti? In Misia. E dove
     Desti lor non potere esser mai spenti?
     Nel foco ond’arde il fulmine di Giove.
Quante fiate, o Dea, l’arco spermenti?
     Fu primo un olmo alle tue frecce segno,
     Poscia un’elce, la terza a fiera avventi,
Non spendesti la quarta in muto legno,
     Ma nel malvagio seme di cittade,
     Che pose negli altrui danni l’ingegno.
O veramente misere contrade
     A cui cadi nemica! Ivi precide
     Peste gli armenti, e grandine le biade,
Ivi canuto genitor decide
     Il mesto crin sul tumulo del figlio,
     Dolor le gravi genitrici uccide,

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O negli amari son passi d’esiglio
     Addutte a partorire, e nel lor seno
     Non può star cosa mai senza periglio.
Di luce ove tu ridi e di sereno
     Nel mar delle dovizie ivi si nuota,
     Ivi d’armenti e di ricolte è pieno.
Non regna morte in giovinetta gota,
     Pazza discordia non alluma foco,
     Ch’ogni ben scommettendo al fondo rota,
Seggion cognate ad un medesmo foco;
     L’anime, che mi fan segno di amiche,
     Trovino meco in questa schiera loco.
Le nozze di Latona e le fatiche,
     Diva de’ veltri tuoi, l’arco gli strali
     E le corse da te campagne apriche
Sempre dirò, nè tacerò dell’ali
     Di quel seggio superbo, che t’accoglie
     Mentre alle case de’ celesti sali.
Te stanno ad aspettar su quelle soglie
     Mercurio e Febo e chi dell’aureo telo
     T’allieva e chi delle ferine spoglie.
Simili veci al regnator di Delo
     Fur divisate già mentre consorte
     Non era Alcide ancor fatto del cielo,
Il quale mai dalle celesti porte
     Non si dilunga e tiene intento il viso
     Se caro cibo alcun per te si porte
E Giuno e tutto il ciel commove a riso
     Quando cinghial strascina, o tauro agreste
     Tolle del cocchio tuo con tale avviso:
Porta Diana ognor porta di queste,
     E noi titolo avrem d’esser benigni,
     Le lepri e i capriol lassa a foreste.
A ricolte i cinghiai sono maligni,
     Sono i tauri a’ mortali acerba doglia,
     Tutta in costor la tua faretra strigni;

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E si mangia una belva: in lui la voglia,
     Che sa Teodamante, non vien meno 3
     Perchè su in cielo abbia mutata spoglia.
Alle quadrighe tue sciolgono il freno
     Le ninfe dell’Amniso, o dalle valli
     Tornano di Giunon col grembo pieno
Di ferace trifoglio, onde i cavalli
     Si pascono di Giove, o in vasi d’oro
     Mescono limpidissimi cristalli.
Traggi qui de’ celesti in mezzo il coro,
     Nel soglio suo t’invita ogni immortale,
     Tu siedi presso del fraterno alloro;
Quando per te le ninfe aprono l’ale
     Presso i fonti d’Inopo, o i cervi aggioghi
     Per l’are visitar di Limna o d’Ale,
Con cui mutasti i detestati luoghi
     Della Scitica Tauri e il ríto diro,
     Ad arator non crederò miei gioghi;
Fosse quantunque il buon seme d’Epiro
     Madre di tauri alle robuste corna
     Infermi tornerian dal lungo giro;
Le belle danze a vagheggiar soggiorna,
     E tardi il Sol la sua quadriga inchina
     In mar di occaso e lungamente aggiorna.
Qual pendice di mare, o qual collina
     Più ti diletta, o Dea, quai porti o ville?
     Qual ninfa avere o semidea vicina?
Tu lo mi narra, io ridirollo a mille:
     Ami il porto d’Euripo anzi ogni seno,
     In cui giaccion di mare onde tranquille,
Ami di Taigeto il colle ameno,
     Ami Perga città, dell’isoletta
     Dolica brami ogni altra isola meno.
Avesti caramente anco diletta
     Britomarti gentil ninfa Cretese,
     Che in fallo mai non allentò saetta;

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In cui Minos di tal desio si accese,
     Che misurò con peregrine piante
     Tutte di Creta le vette scoscese.
Ella sedeva all’ombra delle piante,
     O correva a palude oscura ed ima,
     Ei nove lune andò pei monti errante,
Nè di seguirla si rimase prima,
     Che sendo poco andare ad esser presa
     Si dirupasse in mar da un’alta cima.
Non fu dall’acque traboccando offesa,
     E viva ritornò dentro una ragna,
     Che in quel mar pescatori avean distesa;
Da l’ora in poi Dittinna la montagna,
     E Dittinna la ninfa si domanda, 4
     Ed ivi altari a lei vittima bagna.
Di lentisco e di pino al crin ghirlanda
     Fanno le genti in questi dì, ch’io dico,
     Nè di foglie di mirto uom s’inghirlanda.
Ai panni fè della fanciulla intrico
     Di mirto un ramoscel mentre fuggiva,
     Da indi in qua non le fu il mirto amico.
Bella di faci portatrice Diva,
     E tu pure chiamata nel costei
     Nome rispondi alla Cretese riva.
Cirene amasti, e due molossi a lei
     Desti, per cui nella Peliaca sponda
     Del vello d’un lion portò trofei.
Le foreste destò teco la bionda
     Procri con Anticléa, che si rinoma
     Quanto le tue pupille a te gioconda;
Vergini, che dapprima imposer soma
     D’arco veloce e di faretra al destro
     Omero nudo e alle svelate poma:
Godea seguirti per cammino alpestro
     Atalanta leggiera, e da te prese
     Quadrella ed arco di ferir maestro.

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Seco assalir le perigliose imprese
     Già non increbbe a Calidonio arciero,
     Stan le zanne in Arcadia ancor sospese. 5
Nè di Reco o d’Ileo la lingua, spero, 6
     Le nuocerà nell’orco, e di lor vene
     Tinto favellerà Menalo il vero.
Diva e regina delle Imbrasie arene,
     Salve: che siedi faretrata ne le
     Sedi, che son de’ maggior Numi piene.
Tu fosti di Neléo scorta fedele
     Quando col suo drappel dal suol paterno
     Spinse al mar di Mileto Attiche vele;
A te placando l’inimico verno
     Il figliuolo d’Atreo per dono offerse
     Ne’ templi tuoi di sua nave il governo, 7
Dono che l’ali di quel vento aperse,
     Che dai lidi allargò le vele e l’ire,
     Onde fur d’Ilión le torri sperse.
A te, che da foreste e da muggire
     Alla reggia natía tornasti in Argo 8
     Levate di furor le sue delire,
Di delubri e d’altar Preto fu largo
     In Lusi ed in Azenia. In lor viaggio 9
     Bellicose donzelle al verde margo
Mostrar d’Efeso prima il divo raggio
     Dell’imagine tua, che Ippona serra
     Sacerdotessa nel troncon d’un faggio.
E l’altre armate a simulata guerra,
     O in giro al suon di fistola canora
     Concordemente percotean la terra.
Mostrato non avea Minerva ancora
     I zefiri a mandar pel van dell’ossa,
     Perchè cerbiatto e capriol si accuora.
Di quell’armi il fragor, della percossa
     Terra il rimbombo alle pendici corse
     Di Berecinto e ne fu Sardi scossa.

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Intorno al simulacro un tempio sorse,
     Di più beltà di quello il Sol non mira,
     Fama per Delfo men griderà forse.
Perchè Ligdami re, come delira
     Ambizione il cor vien che gl’invada,
     Un nugol d’Ippimolghi al tempio tira
Seco dal mar, che la giovenca guada; 10
     Ciò che sopra gli sta cieco non scopre,
     Di Scizia ei più non troverà la strada,
Nè de’ Scitici buoi rivedrà l’opre
     Plaustro, che oppresse la Caistria riva;
     Il favor de’ tuoi strali Efeso copre.
Di Fera e di Munichia amica Diva
     Salve: de’ suoi dispregi Eneo non ride, 11
     Te de’ conviti e sè di gloria priva.
Nullo si avvisi di chiamarla a sfide
     Di cacce e di quadrella; amare e negre
     Furon le sorti del superbo Atride,
E non si attenti alcun le voglie integre
     Assalir della diva: Oto non ebbe,
     E non ebbe Orion le nozze allegre.
Nè la danza animal fuggire uom debbe
     Intorno all’are sue: sia speglio il pianto
     D’Ippo, alla qual di carolare increbbe.
Salve, magna regina, e arridi al canto.

Note

  1. [p. 28 modifica]Una delle fucine di Vulcano era nell’isola di Lipari.
  2. [p. 28 modifica]La presa di questa cerva dai piedi di bronzo fu la quarta fatica di Ercole. ἀέθλιον Ἡρακλῆι ὕστατον quantunque la voce ὕστατον significhi comunemente ultima, ha pure significato di cosa, che ha da venire, [p. 29 modifica]e di postera, e mi sono tenuto a questa significazione, ed ho così conciliata l’espressione di Callimaco colla opinione dei Mitologhi, che pongono quarta tra le fatiche di Ercole la presa della cerva dalle corna d’oro, e dai piè di bronzo.
  3. [p. 29 modifica]Ercole si avvenne in Teodamante allorchè arava i suoi campi, e gli divorò un bove.
  4. [p. 29 modifica]Dittinna è la voce greca, che corrisponde alla latina, e all’italiana Reziale.
  5. [p. 29 modifica]Pausania parla di questi denti del cinghiale Calidonio ucciso da Atalanta, i quali si conservavano dagli Arcadi, e poscia per ordine di Augusto furono trasportati in Roma. Egli stesso vide nel tempio di Minerva la pelle di questo cinghiale nuda e cadente. Ho dato al cacciatore l’epiteto, che il poeta dà al cacciato cinghiale; e ciò ho fatto non senza esempio di buoni scrittori latini.
  6. [p. 29 modifica]Reco ed Ileo, centauri di Arcadia, furono uccisi da Atalanta sul monte Menalo, mentre volevano fare ad essa violenza.
  7. [p. 29 modifica]Agamennone, per ottenere facile navigazione alla sua flotta verso Troja, consacrò nel Tempio di Diana in Aulide il timone della sua nave.
  8. [p. 29 modifica]È notissima la favola delle Pretidi le figlie di Preto re d’Argo, le quali si credevano di essere state trasformate in vacche. Diana le cavò di quella insania.
  9. [p. 29 modifica]Non si deve qui intendere il famoso Tempio di Diana in Efeso; ma il luogo in cui fu costruito il Tempio, dopo che le Amazoni in una loro spedizione dal Termodonte introdussero colà il culto di Diana, lasciando [p. 30 modifica]appesa ad un faggio sul lido del mare una immagine della Dea.
  10. [p. 30 modifica]Bosforo significa mare, che si può per la sua strettezza passare a nuoto da un bove.
  11. [p. 30 modifica]Enèo fu punito per non aver chiamata Diana a’ suoi conviti, Agamennone per aver detto, che meglio di lei aveva ferita una cerva, Oto ed Orione per averne bramate le nozze, e la Sacerdotessa Ippone per aver ricusato di danzare intorno agli altari di quella Dea.